N el giorno dei morti del 1997, Andrea Zanzotto declamò all’erba di un prato che molto amava, non lontano dalla sua Pieve di Soligo, alcune strofe dell’Ode al Signor di Montgolfier di Vincenzo Monti. Manifesto dello spirito dei Lumi e dell’ideale di progresso ed emancipazione dalla natura che da allora determina la forma di esistenza dell’umanità, il testo era stato da lui stesso tradotto nel suo dialetto. In quale altro modo avrebbe potuto renderlo comprensibile alla sua terra, alla sua vegetazione? In quale altro modo poteva rovesciarlo in parodia e svelarne il senso mostruoso? Niente affatto, dunque, un inno al “progresso scorsoio”, come lo chiamava: era invece una preghiera ai Mani, agli dèi nascosti nel paesaggio, affinché la storia risparmiasse il prato. E gli dèi, per Zanzotto, non ascoltano che il vecio parlar.
“Oggi dura ciò che dovrebbe sparire e si consuma ciò che dovrebbe invece durare”. In mezzo allo sfacelo di tante cose che spariscono quando dovrebbero restare, la poesia di Zanzotto, nato cent’anni fa e morto nel 2011, ha costituito una forma di disperata resistenza. La sua poetica, colta e non di rado impervia, è stata spesso letta come poco più che l’ancilla philosophiae di Heidegger e Lacan, tra gli altri, quando essa muove invece in molti casi dal senso concretissimo di una perdita: la perdita di un paesaggio, il suo, quello della Pedemontana veneta che ispirò tanta pittura, e di una lingua, il suo dialetto. E le due cose sono intimamente collegate.
Sarebbe scorretto ridurre la produzione zanzottiana alle sue liriche in dialetto. Tuttavia, è innegabile come, nella sua impressionante sperimentazione linguistica, oscillante tra babil (la “lingua minima”) e Babel (la “lingua ‘galattica’”), il cosiddetto vecio parlar costituisca uno dei più considerevoli centri di irradiazione di senso di tutto il suo lavoro. “Per me tutte le grandi lingue sono, in qualche modo, morte”, ammette Zanzotto nell’intervista Uno sguardo dalla periferia (1972), “perché io ho quasi sempre parlato e parlo il dialetto. Io sono veramente cresciuto nel dialetto, ma, per certi aspetti, rimuovendolo”. La prima pubblicazione in dialetto è infatti il poemetto Filò del 1976, dunque successivo allo sperimentalismo estremo de La Beltà (1968) e Pasque (1973), tra le sue raccolte più rappresentative.
Tutta la poesia di Zanzotto è però segnata dal medesimo “rifiuto inquieto della storia”, come l’ha chiamato Ferdinando Bandini, per rivolgersi piuttosto alla natura, finché qualcosa ne rimane. “Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio / qui volger le spalle”, scrive il poeta nella raccolta d’esordio come in un consapevole addio al mondo per ripararsi nella familiarità dell’Heimat, il luogo natale, la “piccola balza” di Pieve di Soligo. Ma se la posizione scelta dal poeta fu percepita fin dall’inizio come inattuale, provinciale, estranea, e la sua poesia oscura, epigonica, ritardataria e disfattista, come suggerisce anche la diatriba del 1954 tra l’esordiente Zanzotto e l’ortodossia comunista di Italo Calvino in occasione di un incontro letterario, proprio la provincialità, la marginalità e persino l’estraneità sono qualcosa che Zanzotto ha sempre rivendicato, come forma di reazione e resistenza.
Buona gente senza più dialetto
All’inizio, si tratta di una resistenza eminentemente linguistica, quella dell’italiano iperletterario degli esordi. Il dialetto, in questa fase, è ancora assente, ma è presente il paesaggio dialettale, che causa l’esistenza stessa del testo poetico: è il suo pre-testo, la sua condizione. Il tentativo repressivo della ‘lingua madre’, congiunto alla necessità di riferirsi a un luogo per cui non c’è altra voce che nel proprio dialetto, genera una compensazione estrema, per rovesciamento, del vecio parlar: ecco, dunque, la lingua artificiale con cui il primo Zanzotto parla della sua natura. Ma è un tentativo inefficace, una finzione destinata a soccombere (“Io parlo in questa / lingua che passerà”, lamenta in Vocativo), soprattutto perché il paesaggio, che si sovrappone alla madre, resta muto (“Madre, […] / perché mi taci come il verde altissimo”), non risponde all’“inquinata / mente’ di chi dice ‘io’”.
Gli dèi, per Zanzotto, non ascoltano che il vecio parlar.
Dopotutto, è una condizione che affligge l’intera comunità dei compaesani, la “buona gente senza più dialetto” a cui il poeta non sa perciò come rivolgersi. Il problema assume la forma più vistosa ne La Beltà (1968), che sembra mettere in scena l’apparente vittoria della storia. Qui non ci sono più né paesaggio, ormai deturpato dalla modernità, né lingua dietro cui riparare. Al contrario, troviamo l’inconscio stesso, destrutturato come lingua deflagrata, “melassa indifferenziata del significante” (così Bandini), babele di giochi etimologici e assonanze, balbettii afasici, lessico tecnico-scientifico, ma anche linguaggio della televisione, della pubblicità, delle canzonette.
Eppure, è proprio nell’inferno de La Beltà che Zanzotto pone le basi per un’alternativa. Per esempio, in quello che, utilizzando un termine in dialetto, chiama petèl. Si tratta, spiega in nota, della “lingua vezzeggiativa con cui le mamme si rivolgono ai bambini piccoli” imitando la stessa lallazione degli infanti; in linguistica prende appunto il nome di maternese o Ammensprache. Il suo è un tentativo impossibile di risalire tramite regressione alla prima infanzia, ai danteschi pappo e dindi, nella nostalgia di un passato mitico e paradisiaco, un’unità infranta. O in qualche traccia dialettale che spunta in sordina, come nella rima vin : morbìn (un certo tipo di allegria sfociante nell’argento vivo) che, abbraccia, non a caso, “i miei avi” (Profezie o memorie o giornali murali, IX).
Soprattutto, però, nella figura del contadino Nino Mura, destinato a ritornare in Idioma (1986), una delle vette della poesia zanzottiana, pur radicalmente diversa da tutte le raccolte precedenti, dove il parlar vecio e il corrispondente mondo dialettale costituiscono il cuore dell’opera. Già ne La Beltà, Nino, “duca per diritto divino / e per universa investitura”, è modello di un rapporto diverso e autentico con la storia, la terra e il mondo tutto: sfida il tempo e la natura, ama la compagnia e il convivio, né passatista né progressista, depositario di una tradizione viva e custode di una fiamma inconquistata, signore di un giardino benedetto. Che cosa si opponga a tutto questo è molto chiaro: la forza antagonista della storia, che falcia e trasforma e modernizza.
Persino il corso di recupero televisivo del maestro Manzi viene visto con sospetto, perché il risultato dell’emancipazione del ceto rurale non è il miglioramento delle condizioni contadine.
Modernizza innanzitutto meccanizzando e industrializzando la produzione agricola, portandola verso “la reale abbondanza, l’abbondanza del reale / la garanzia dell’incremento sicuro / il percento che invade il futuro” (Profezie o memorie o giornali murali, XV). E poi promettendo la “Fine delle sofferenze contadine”, che però è anche la fine di una civiltà millenaria, nel bene e nel male. Così, ai campi di Nino, che prevede nevi e tempeste e “dai cieli stessi deriva il suo vino”, si sostituisce rapidamente il “grande interregno” del “terrain vague”, uno spazio che non è più campagna ma non diventa città, solo desolazione, scarto e scoria, “e topi e serpi hanno tanto comperato / ormai da queste parti”. Persino il corso di recupero televisivo del maestro Manzi viene visto con sospetto, perché il risultato dell’emancipazione del ceto rurale non è il miglioramento delle condizioni contadine, ma l’abbandono in massa del contado venduto come prova tangibile del progresso, e il conseguente scempio di un paesaggio ormai disertato, lottizzato, inquinato, riempito di prefabbricati, cemento armato e capannoni, o ‘turistificato’ tuttalpiù: “Gli onorevoli parleranno domani / sulla rinascita delle colline: ‘Visitate Dolle!’, / serie possibilità di competizione / da piano a monte da colle a colle”.
E chi, in questo processo, “lascia il proprio dialetto per assumere la lingua nazionale”, scriveva il linguista Luigi Rosiello, attento al rapporto tra dialetto e subalternità, “abbandona una situazione sociolinguistica di arcaica chiusura, in cui però possedeva tutta la ‘competenza’ […], per acquistare non la ‘competenza’ di un altro sistema linguistico, […] bensì solamente i criteri di ‘esecuzione’ e riproduzione di una norma linguistica già prodotta, già formata e già compromessa”.
Me fa spavento ’l cine
Non ci vuole molto, così, prima che il vecio parlar muoia del tutto, lamenta Zanzotto nel tentativo, rimasto inedito fino ai primi del Duemila, di un’apocalittica Ecloga in dialetto sulla fine del dialetto risalente già al 1969. Ma muore perché prima di tutto tramonta la civiltà contadina che lo parlava, e con essa un tipo di lavoro e una modalità di vita comunitaria ancestrale finita nel cappio del “progresso scorsoio”. Tutto si scioglie “nel parlato neutro e radiotelevisivo male imitato dalla borghesia minima, cioè da tutti, perché tutti purtroppo divengono borghesia minima”, scrive il poeta in Il Veneto che se ne va (1970), ed è un processo tuttora in atto, mentre ogni idioma converge e si scioglie nella neo- (o post-) lingua pittorico-verbale di Internet, stereotipata e falsamente universale.
Terribilmente profetico, negli stessi anni il critico Northrop Frye presagiva come l’ultima sfera di resistenza (“la parte più intima della mente”) sarebbe stata infine invasa dai “mezzi di comunicazione”, cosa che nei fatti è successa: “i mezzi elettronici” hanno fatto “crollare le strutture associative della mente”, sostituendole “con le strutture prefabbricate dei mezzi stessi”. Plastica mentale, nociva, inquinante e sterilizzante al pari della plastica fisica. Ed è proprio questa la critica che Zanzotto muove anche al cinema, parlando, a proposito del poemetto Gli Sguardi i Fatti e Senhal, di una “industria del produrre sogni fasulli […] arrivata al suo massimo grado di defecazione”:
[È] la plastica [la celluloide] che coinvolge anche a livello della fantasia. Come c’è quel pattume plasticale inconsumabile, che nella vita quotidiana ci troviamo sempre fra i piedi, così è la plastica cinematografica che ha la stessa struttura di grosse molecole non biologicamente degradabili. Passando i nostri sogni, i nostri “colori”, attraverso quello strato di materia creata a tavolino e quasi per il puro gioco del profitto […] troviamo proprio il terreno ideale di coltura per una vera infezione psichica di tutta l’umanità.
Già pochi anni dopo, tuttavia, fu proprio il cinema a dargli la possibilità di recuperare in extremis il suo vecio parlar. Nel luglio 1976, Fellini scrisse una lettera a Zanzotto per chiedergli alcuni testi in dialetto per il suo Casanova. Nelle intenzioni del regista, il film doveva aprirsi con un rito di fantasia in cui veniva tentata l’estrazione di “una gigantesca e nera testa di donna” dal Canal Grande: “Una specie di nume lagunare, la gran madre mediterranea, la femmina misteriosa che abita in ciascuno di noi, e potrei continuare ancora un po’ accostando con incauta disinvoltura altre suggestive immagini psicanalitiche”, spiega lo junghiano Fellini, che era stato in terapia da Ernst Bernhard. L’esito della cerimonia, “metafora ideologica di tutto il film”, è fallimentare: la testa della Magna Mater precipita nell’acqua e il femminile resta sommerso, irraggiungibile; Casanova è condannato all’immaturità.
A Zanzotto, di cui ammirava l’esperimento in petèl, Fellini chiedeva le parole liturgiche per accompagnare il rito, una “preghiera” che contenesse sia la regressione all’infanzia (l’ontogenesi) sia il ritorno agli avi, alla preistoria (la filogenesi). Ai due testi poi impiegati nel film – Recitativo veneziano e Cantilena londinese (per la scena della gigantessa) –, scritti nel dialetto lagunare, se ne aggiunse un terzo, più lungo e discorsivo, Filò, nel suo nativo solighese, da cui poi il titolo della pubblicazione che contiene tutti e tre. Qui Zanzotto prende spunto da due disastri che in quegli anni avevano colpito il Nord-Est: il crollo della diga del Vajont (1963) e il terremoto del Friuli (1976). E immagina il suo paesaggio spaccato e lacerato da cui emerge la “testa-tera”, divina e materna insieme, e con lei il suo dialetto rimosso, fino a quel punto escluso da ogni reale possibilità poetica, e ora riemerso dalle profondità ctonie dell’inconscio.
Reitia: è questo il modo in cui scelse di chiamare la sua dea, servendosi del nome della divinità femminile a capo del pantheon dei Venetici, il popolo indoeuropeo e preromano che abitava l’attuale Veneto con propaggini transalpine nell’odierna Carinzia e verso est fino a Idria e Trieste. A Reitia “sanatrice e tessitrice” sono dedicate le “rune forse lunari” (così nella prosa Colli Euganei) che aprono e chiudono Filò facendone un ex voto, un’offerta alla divinità affinché possa fermare lo sfacelo in corso. Troviamo in lei sovrapposti numerosi fili della poetica zanzottiana: la divina Diana de Gli Sguardi i Fatti e Senhal; il paesaggio veneto che parla attraverso la sua più antica dea; la madre stessa del poeta, morta nel 1973, e dunque il suo fantasma, senza il quale il recupero dell’idioma materno, il dialetto, sarebbe impossibile.
E anche una personificazione della natura, madre e matrigna – forse malvagia, forse semplicemente indifferente –, che si rifà esplicitamente al Leopardi dell’Islandese e della Ginestra. Poco prima, in Uno sguardo dalla periferia, Zanzotto aveva distinto tra l’amore per la natura e la credenza nella natura, ammettendo di difettare in quest’ultima:
di fronte al tragico scempio che si sta facendo della natura, non so se esso sia da imputare del tutto a un tipo di cultura (che pure è aberrante in piena evidenza) o a un male segreto della natura stessa, tale da aver permesso che da lei avesse origine ‘questo’ uomo.
Ma, mentre l’uomo nobile di Leopardi incolpava del male nel mondo la natura e la chiamava nemica, per Zanzotto il discorso è mutato.
Di fronte al terremoto del Friuli, si può interrogare certo una natura forse malevola (“Tera coss’atu, tera?”; “Chi sétu? Chi?”), ma pensando al Vajont e in generale allo scempio che si è fatto del paesaggio va posta diversamente la domanda, perché “i morti del Vajónt i é ’l dopio / de quei che ti tu à fat ades, ti tera”. È stata la mancanza di responsabilità da parte umana a far sì che “Na fedeltà granda la se a sfantà”, sono state l’avidità e l’ingordigia a inimicarci la terra. E forse, suggerisce Zanzotto permettendosi ancora un barlume di speranza, esiste un’alternativa, una vita diversa che possa riconciliarci con una natura che ha dichiarato guerra ai suoi figli. E quella via, in un discorso che dal metalinguismo approda al mitolinguismo, sembra passare anche per il dialetto.
Ho visto deteriorarsi questo luogo
Esistono numerosi problemi che affliggono il dialetto. In primo luogo, la sua scrittura comporta il dilemma della grafia e della grammatica. Scrivendolo, c’è “quasi il terrore di un tradimento, della perdita di contatto appunto con la fisicità, la pulsione originaria, la natura ctonia che persiste in quei suoni”, qualcosa “di più irriducibile, fondante, ‘lontano’ dello stesso inconscio”, dice Zanzotto, e che riporta indietro fino al factum loquendi in sé, il mistero del linguaggio – qualsiasi linguaggio –, e dunque al verso animale, all’impeto comunicativo somatico. Perché il dialetto non è solo la lingua della madre (si è parlato spesso, in riferimento alla riscoperta del dialetto nella poesia del secondo Novecento, di un “ritorno alle Madri”, reali o archetipiche): è anche la madre della lingua, “oralità perpetua” senza grammatica, massima approssimazione all’origine di qualsiasi linguaggio. In una nota autografa alla serie Mistieròi poi inclusa in Idioma, leggiamo perciò:
Ho l’impressione di aver fatto qualcosa di tremendamente maligno, inutile, ingiusto tentando di scrivere il dialetto: lui non lo vuole.
Ma ancor più rilevanti rispetto al discorso della sua sopravvivenza sembrano essere altri due problemi. Difendere il dialetto significa infatti difenderlo in quanto tale, ossia in quanto altro dalla lingua, e dunque difendere non un bilinguismo ma una diglossia (la compresenza di due linguaggi, uno ‘alto’, ufficiale e prevalentemente scritto, e uno ‘basso’, colloquiale, familiare e prevalentemente orale). Se il dialetto, che per Zanzotto costituisce l’inconscio della lingua, la sua “matrità”, venisse elevato allo status di lingua, si snaturerebbe. Scrive Stefano Agosti, noto studioso zanzottiano, che “se non ci fosse una ‘lingua’ da apprendere e acquisire a fianco al dialetto, non ci sarebbe via di fuga dalla ‘lingua’”, quale invece il dialetto costituisce per il dialettofono. Se il dialetto diventasse lingua ufficiale, dovrebbe poi sorgere un ‘dialetto del dialetto’ per ricoprire la stessa funzione.
Inoltre – e su questo Zanzotto è chiarissimo – non si può difendere il dialetto senza difendere il mondo dialettale e il suo paesaggio. Il Nord-Est di Zanzotto costituisce un’anomalia nel Settentrione italiano, per una più forte persistenza dialettale rispetto alle regioni limitrofe e anche alla media italiana. Dopo la caduta della Serenissima, il dominio asburgico e una guerra mondiale combattuta nel suo territorio, il Triveneto si trovava in condizioni di relativa arretratezza rispetto al resto del Nord: basti pensare che dei quasi 26 milioni di italiani emigrati all’estero in un secolo, il 21,15% veniva dal Nord-Est. Fino ai primi anni Ottanta, nei capoluoghi viveva solo il 15% dei Veneti; il resto era ancora nelle aree rurali e il 44,6% della popolazione era impiegato in agricoltura. All’epoca, non a caso, tre Veneti su quattro parlavano dialetto in famiglia e il 50% anche fuori – il doppio rispetto al resto del Nord e alla media nazionale. Tutt’oggi il Veneto resta l’unica regione settentrionale in cui più di una persona su due parla dialetto in casa.
Avvenne però, già a partire dal boom degli anni Sessanta, un radicale mutamento. Poiché il dialetto è intimamente legato al suo luogo e alla sua costituzione culturale in quanto paesaggio, va da sé che col mutare del paesaggio e la scomparsa delle forme di abitazione e convivenza che esso esprimeva muti anche la lingua. In una nota del 1998 (Una esperienza comune nel dialetto), il poeta scrive: “Ho visto deteriorarsi questo luogo fino a non riconoscerlo più, fino al suo sfarsi in un’altra fisicità, oltre che in un’altra situazione socio-antropologica, a livelli inimmaginabili”. La colpa, prosegue, è di un “cannibalismo” che non solo riversa sul paesaggio “fabbrichette e fabbricati”, ma “fa della campagna e del lavoro dei campi mercato del ‘tempolibero’, quando per millenni è stato invece vero luogo della vita e della lingua quotidiana”. Tutto si perde o, per sopravvivere, si trasforma in
strizzate d’occhio, lusinghe dell’agriturismo, dell’equitazione o del giardinaggio. Cambia in questo modo completamente il rapporto millenario tra lavoro e paesaggio, tra agire e parlare dell’uomo.
Ricordando uno dei Miracoli di Val Morel di Buzzati, in cui Santa Rita ferma i gatti rabbiosi emersi col risveglio dei vulcani dei Colli Euganei, Zanzotto auspica per il presente piuttosto “un’eruzione di pantere, invece istigata da Rita, per frenare i demolitori”. Perché l’unica cosa che il progresso ha davvero emancipato è una “generale tendenza implosiva della psiche umana, […] una sua tendenza autodistruttiva, nemmeno più percepita come tale” (Sarà (stata) natura?, 2006). La distruzione del paesaggio e la conseguente perdita di lingua generano una psiche ugualmente deturpata e deprivata. Nella “valanga dei media, col suo profluvio di luminescenze che stordiscono, di figure che sopraffanno la parola in quanto tale, di videoclip […] che mescolano tutto ma tolgono sapore a tutto”, siamo avviati di buon passo “a sordità e mutismi definitivi da discoteca universale”.
Intervistata dalla RSI nel 1977, Cristina Campo, pressoché coetanea di Zanzotto, riferendosi alla periferia romana (ma il discorso può estendersi a qualsiasi periferia) parlava di ambienti che danno “la sensazione di una mente turbata, di una mente alterata”, costruiti “da un pazzo o da molti pazzi insieme”: “immagini di un cervello sconvolto, di una proliferazione cancerosa”. A un dato paesaggio corrispondono identici umani, che a loro volta porteranno avanti un’anti-civiltà del brutto. E la colpa, per Zanzotto, ha a che vedere con l’essersi sradicati dalle origini per dare seguito invece a uno stravolgimento antropologico senza precedenti “delle effettive capacità di adattamento cognitivo dell’‘animale uomo’”.
Forse è soltanto un paradiso
A tutto ciò resistono, quasi per grazia ricevuta, piccole sacche talmente marginali e periferiche da essere dimenticate e perciò risparmiate dalla storia. E così, nella raccolta Idioma, la stessa Pieve di Soligo del poeta, per quanto assediata dalla modernità, per una certa impermeabilità della provincia può persino trasformarsi nell’ombelico del mondo, e la sua eterna quotidianità (“Così immediato è qui l’eterno, così / tangibile frutto del tempo”), pur angusta e opprimente, può farsi “sottoparadiso incerto”. La sua “proterva immobilità / diede stabilità a un mondo”, scrive Zanzotto, sicché la vita “non c’è / più oltre quella svolta, quel segnale”.
Nel paese natale, nella Heimat, dove si è “uno coi tanti di qua” (Genti), “non si muore mai, la morte non è ‘quella’”, diceva già nel 1972, ma “si nasce soltanto, si continua a nascere, come la natura che dissimula, o brucia, il suo continuo morire nel fatto stesso della continuità, del nascere appunto”. E, con quel po’ di Zauberkraft (il termine, hegeliano, indica il ‘potere magico’ che trasforma e converte il negativo della morte senza annullarlo né rimuoverlo) che serve per vivere in paese, anche i defunti ritornano in un eterno presente: perché “nessun tempo è mai passato / ogni tempo – unicamente – verrà”.
Non è un caso che, come si diceva, il cuore di Idioma sia costituito da una serie di liriche in dialetto: la serie Onde éli, sul tema classico dell’ubi sunt, evocazione dei morti di paese; i cinque componimenti a dedicatari scomparsi, tra cui Pasolini e il soprano Toti Dal Monte; e la serie di quadretti di Mistieròi, sulle umili professioni del mondo contadino scomparso già quando il poeta era bambino: il mondo dialettale dei menadas (i trascinatori di tronchi), dei pastori “re de Arcadie che gnessun / savarà mai”, della “società segreta” dei conzhacareghe (gli impagliatori di seggiole), delle donne che filano durante i filò notturni, quando i contadini cercavano un po’ di calore nelle stalle e si vegliava raccontandosi storie.
Il Nord-Est di Zanzotto costituisce un’anomalia nel Settentrione italiano, per una più forte persistenza dialettale rispetto alle regioni limitrofe e anche alla media italiana.
A una lettura attenta della poesia La contrada. Zauberkraft, si nota la ripetizione di ‘mani’: “domani”, “dopodomani”, “manipolare”, “mania” e infine il “battito di mani” che chiude il componimento. Si tratta proprio dei Mani, le anime dei defunti, spiriti ctoni che dall’oltretomba vegliano sulle sorti umane. Stefano Dal Bianco ha osservato come ci sia qui un tentativo di instaurare un commercio col sacro, di affidarsi alla persistenza della sacralità del luogo. “Sunt aliquid Manes: letum non omnia finit” scriveva Sesto Properzio (Elegia IV, 7), poi citato in Conglomerati, l’ultima raccolta di Zanzotto, “luridaque evictos effugit umbra rogos”. I Mani esistono: non tutto esaurisce la morte, e un’ombra pallida sfugge la pira estinta.
Di Giovanni e del ciliegio il privilegio
Mentre Leopardi, in una lettera del 1826, confessava alla sorella di non riuscire a sognare fuori da Recanati, Zanzotto ammise addirittura di non riuscire a scrivere se non a Pieve di Soligo (“Ho una geografia di spaventosa precisione. Partendo da Quartier di Piave, dove abito, se mi sposto di pochi centimetri non riesco più a pensare una poesia”). I tentativi di trasferirsi altrove non andarono mai a buon fine.
Ormai anziano all’epoca di Idioma, si potrebbe pensare che la riconciliazione di Zanzotto con l’Heimat porti con sé la consapevolezza della rassegnazione, niente più che la “saggezza perversa della sera” (Verso il 25 aprile). Ma c’è anche altro. C’è, nella conquista della quotidianità eterna della vita di paese, una vera “oasi di pace”, frutto dell’“aver raggiunto / pacatamente (e insegnandolo) gli elementi” (Docile, riluttante), ossia le cose prime, il suolo su cui si può stare e costruire contando su uno sprazzo di paradisiaca eternità. Che è in fondo il sogno irraggiunto di felicità per il Gozzano della Signorina Felicita (“Meglio la vita ruvida concreta / del buon mercante inteso alla moneta, / meglio andare sferzati dal bisogno, / ma vivere di vita!”), e il paradiso “spezzato” di Ezra Pound, troppo cosmopolita e apolide per avere una terra e una lingua cui appoggiarsi.
Raggiunti gli elementi, anche la poesia, per quanto minima e confinata nelle nugae della sua microstoria, non sembra più soltanto un ozio, una nevrosi, un vizio, ma un atto di resistenza, tanto esistenziale quanto linguistica. Ce lo suggeriscono le numerose immagini legate alla tessitura, metafora dello scrivere, che attraversano l’opera zanzottiana, da Reitia tessitrice ai bachi da seta, un tempo tipiche creature dell’Alto Veneto, fino alle tante sartine. Di una di queste, la Maria Carpèla di Idioma, figura paradisiaca come poche altre in Zanzotto, si dice che “la ’ndéa a pontar par le case”: ma pontar non significa cucire, è semmai la riparazione, la rammendatura di qualcosa che si è logorato, sperando che possa resistere ancora. Un paesaggio, un popolo e la sua lingua.
Opera forse destinata al fallimento, come destinati all’estinzione sembrano i paesaggi, i popoli e le loro lingue, travolti dalla storia. Ma non se – un po’ per grazia, un po’ per resistenza attiva – la storia lascia qualcosa nell’oblio, garantendo un qualche sollievo momentaneo e preziosissimo come una fioritura inaspettata in una terra fattasi sterile tutt’attorno. In un episodio della vita di Giovanni Comisso da cui Zanzotto trasse una poesia (Che sotto l’alta guida, da Il Galateo in Bosco), lo scrittore trevigiano si assentò da una battaglia della Prima guerra mondiale per perdersi piuttosto nella neutralità delle “bestiepiante”, fino a giungere presso un albero da frutto. Gli ultimi versi racchiudono la quintessenza della preghiera zanzottiana: “Giovanni Comisso saliva sul ciliegio, / l’ilare sangue ne gustava a sazietà: / di Giovanni e del ciliegio il privilegio / lascia ad ogni vivente, o umanità”.