H o sempre pensato all’elicottero come a una macchina del tempo. Ci può portare dove l’uomo è ancora un elemento totalmente estraneo e il tempo geologico ha percorso la sua strada senza di noi, per milioni, a volte miliardi, di anni. Pochi luoghi sulla Terra sono ancora permeati di questa magia dell’estraneità. Uno di essi, forse il più evocativo, è l’altopiano della Guyana e le sue cime tabulari chiamate dagli indigeni “tepui”, le montagne degli dei. È un paesaggio che sembra essersi generato direttamente nella fantasia di avventurieri ed esploratori di altri tempi. Visioni che si sono trasfigurate nel romanzo Mondo perduto di Arthur Conan Doyle nel 1912 e in molte altre opere di letteratura e film, come il cartone animato Up, realizzato nel 2009 dalla Pixar.
Scendendo la sinuosa strada transamazzonica che collega il Venezuela al Brasile, attraversando le vaste colline verdi della Gran Sabana, all’improvviso si scorge all’orizzonte il profilo effimero di quelle montagne. All’inizio non si riesce a comprenderne la grandezza ma, curva dopo curva, delle pareti lunghissime cominciano a brillare nella luce radente del tramonto. È come se l’immagine di un pianeta meraviglioso emergesse da una nebulosa galattica. Perché i tepui costituiscono un territorio “extraumano” del pianeta Terra. Come fortezze, circondate da pareti alte anche oltre mille metri, tra torri vertiginose e immensi labirinti di roccia, continuano a resistere all’assedio del tempo. Le loro difese sono fatte di una roccia rosa, la più dura e antica, costituita da miliardi di granelli di quarzo e qualche raro diamante. Quei granelli erano la sabbia di un grande mare quando ancora la vita era solo microscopica, ben 1,6 miliardi di anni fa. (…)
I tepui sono fatti di una roccia virtualmente inscalfibile, costituita da uno dei minerali meno solubili sulla Terra.
I tepui sono fatti di una roccia virtualmente inscalfibile, costituita da quarzo, un complesso ordinato di molecole di silicio e ossigeno fortemente legate tra loro a creare uno dei minerali meno solubili sulla Terra. Per questo, l’idea che potessero esistere dei sistemi di grotte all’interno di quelle montagne sembrava pura follia. La nostra mente ha enormi difficoltà a concepire il tempo geologico, e raramente riesce ad accettare come reale un processo che non può essere osservato nel corso di una vita, figuriamoci se richiede milioni di anni!
Eppure c’erano degli indizi. Sui fianchi dell’Auyan Tepui si aprivano grandi spaccature, alcune profonde centinaia di metri, esplorate da spedizioni della Società Speleologica Venezuelana e dall’Associazione La Venta agli inizi degli anni novanta. Alcune di queste grotte si spingevano a quasi quattrocento metri di profondità, ma il loro sviluppo in forma di altissimi e stretti corridoi faceva pensare a delle semplici fratture che, apertesi per effetti gravitativi, diventavano il punto di assorbimento delle abbondanti acque piovane. (…)
Decisi di presentarmi all’Università di Bologna con un progetto di dottorato in geologia a dir poco rischioso. Volevo capire come potevano formarsi dei sistemi sotterranei così immensi in una roccia così dura. Quanto erano antichi? Ci trovavamo davvero di fronte a un mondo perduto nascosto nel sottosuolo da decine di milioni di anni? Un professore belga, Jo De Waele, ricopriva l’unica cattedra universitaria di speleologia in Italia. Jo è un professore atipico, un mito per i suoi studenti, odiato talvolta dai colleghi, gli piace smodatamente l’avventura e la scienza sul campo, odia la burocrazia, e mentre tutti si tirano indietro non appena si parla di sicurezza, lui non ha paura di assumersi la responsabilità di portare i suoi studenti a studiare le grotte più difficili, strette e fangose. Il mio progetto, che sembrava totalmente irragionevole a tanti altri docenti, gli piacque proprio per quanto era azzardato. Non c’era alcuna certezza di finanziamento, solo l’appoggio dell’Associazione La Venta e alcuni piccoli sponsor. Ma era chiaro a tutti che, se fossimo riusciti in quell’impresa, i risultati scientifici sarebbero stati molto prestigiosi per l’Università. (…)
Nel 2013 partimmo. [Avevamo a disposizione] un elicottero nuovo, un Long Ranger II nero, elegante e potente. Io avevo raccattato un po’ di sponsor ma non molti soldi a dir la verità, sufficienti appena per una piccola spedizione. Le autorità del Parco nazionale di Canaima avevano compreso le potenzialità del progetto e lo appoggiavano, oltre a partecipare alla missione con due guardaparco, Jesus Lira e Virgilio Abreu. Decidemmo di piazzare il nostro campo base nel villaggio di Kavak, dimora della comunità indigena Pemón di Kamarata. Atterrammo su una pista di terra con un paio di Cessna e un vecchio Antonov 2 di colore nero che sembrava uscito da un film. Ad accoglierci c’erano Hortensia ed Enrique, i capi della comunità. Era fondamentale coinvolgere anche loro in questa avventura.
Finalmente la mattina successiva l’elicottero ci portò lassù. (…) Iniziammo subito l’esplorazione. La grotta si estendeva lungo un’elegante galleria percorsa da un torrente con una portata di alcuni litri al secondo. I pavimenti levigati si alternavano a spiagge di sabbia intonsa, mentre diversi condotti laterali si aprivano come occhi bui sulle pareti del condotto. Percorso oltre un chilometro incontrammo un altro fiume che si univa al nostro in una bella sala caratterizzata da vasche d’acqua circolari e profonde. Appena oltre cominciava uno spettacolo che nessuno di noi aveva mai visto in nessun altro luogo della Terra.
Il nuovo fiume formatosi dalla sala della giunzione continuava il suo percorso dividendosi in mille rivoli attraverso una foresta di colonne di quarzite rosa. Erano centinaia, e salivano dal pavimento sorreggendo il vasto soffitto con le forme più assurde, alcune snelle come giunchi, altre tozze come querce, altre ancora formose e arrotondate come statue di Botero. Una si divideva in due come un albero ramificato, un’altra sembrava la scultura di una ballerina danzante. La chiamammo la Galleria delle Mille Colonne (Galería Mil Columnas) e la percorremmo estasiati per oltre un chilometro seguendo lo scorrere delle acque. Oltre quel paesaggio spettacolare, la galleria diventava sempre più ampia, col pavimento perfettamente levigato a mostrare i disegni degli strati di quella roccia antichissima. Infine giungemmo a un bivio.
Ci trovavamo davvero di fronte a un mondo perduto nascosto nel sottosuolo da decine di milioni di anni?
A destra si ergevano dei grandi coni di colore nero, enormi stalagmiti di idrossidi di ferro alte anche oltre dieci metri. Nessuno scienziato aveva mai visto nulla del genere. La chiamammo Tierra de los Volcanes, perché sembrava di muoversi tra grandi coni di lava. Questo condotto continuava inesplorato senza traccia di corsi d’acqua, ma quel giorno il tempo a disposizione stava finendo. Così decidemmo di continuare a seguire il fiume lungo la galleria principale. Oltre una zona di crolli cominciammo a risalire tra enormi blocchi staccatisi dal soffitto. Improvvisamente un raggio di sole illuminò il condotto indicando che stavamo sbucando di nuovo all’esterno. Quell’uscita si ampliava verso il cielo mentre al centro scendeva dalle pareti esterne una cascata alta almeno cento metri. La nebulizzazione dell’acqua adornava il profilo dello strapiombo di un arcobaleno brillantissimo. Questo era l’ingresso principale della casa degli dei, ornato perennemente dallo splendore dell’arcoíris. Avevamo attraversato l’altopiano da parte a parte e ci affacciavamo su una profonda valle che sprofondava verso il canyon del fiume Churun in direzione del Salto Angel. Mentre all’esterno i tepui sono caratterizzati da labirinti di roccia, crepacci, pareti e impenetrabili boschi di bonnetia, arbusti fittissimi ricoperti da bave di muschio che mascherano trabocchetti e tronchi sospesi, all’interno era possibile percorrere di corsa tunnel delle dimensioni di una galleria autostradale. Quel reticolo sotterraneo era enorme!
Usciti dalla grotta ci guardavamo senza riuscire a esprimere con le parole il nostro stupore. Da quel primo assaggio era chiaro a tutti che avremmo avuto davanti a noi ancora diversi giorni come quello. Ogni passo là sotto sembrava riservare sorprese inimmaginabili. Dovevamo lavorare il più possibile, giorno e notte, per mappare e documentare quella meraviglia. Non sentivamo la stanchezza ma solo un indomabile desiderio di vedere ancora, superare l’angolo, squarciare il buio e svelare che cosa ci avevano lasciato in serbo gli dei della montagna.
Furono giorni straordinari. Camminavamo nelle gallerie mappando chilometri di grotta. Una sera, tornato al campo base, analizzando i dati raccolti con un telemetro laser, vidi che una delle gallerie che avevamo percorso aveva una larghezza di 190 metri. Pensai che fosse un errore della strumentazione. Così il giorno dopo tornai a controllare. Era tutto giusto. Quell’ambiente si estendeva in un larghissimo salone, dove solo il soffitto e il pavimento erano visibili, mentre le pareti erano irraggiungibili. Come poteva stare in piedi quella montagna senza collassare su se stessa? Chiamammo quel passaggio “Agorafobia” per il senso di vastità e perdizione che ci aveva fatto provare, esattamente l’opposto di quello che un uomo potrebbe immaginare di incontrare esplorando una cavità sotterranea.
Ma non erano solo le dimensioni e le morfologie della grotta a lasciarci sbalorditi. Nelle grotte carsiche conosciute in tutto il mondo si formano strutture minerali come le stalattiti, le stalagmiti e le colate di carbonato di calcio. Ma qui tutto era diverso e sconosciuto. Le stalattiti erano fatte di opale iridescente mentre le colate erano rosse di ossidi di ferro, tanto che una lunga galleria incrostata da queste formazioni venne chiamata Río Sangre, fiume di sangue. Certi pavimenti erano tappezzati di cristalli dalle forme e dai colori più vari, tanto da costringerci a posizionare sul pavimento dei nastri che tutti dovevano seguire per evitare di danneggiare quei depositi delicatissimi. Le analisi effettuate negli anni successivi avrebbero portato alla scoperta di un nuovo minerale per la scienza, un solfato‐fosfato di alluminio a cui verrà assegnato il nome di rossiantonite, mentre altri minerali rarissimi, come la sanjuanite, di cui esistevano solo pochi grammi nelle collezioni dei musei di tuto il mondo, qui si presentavano in quantità di diverse tonnellate a ricoprire superfici di centinaia di metri quadri.
Ma la cosa più straordinaria erano delle strane strutture dalle forme più disparate, composte da sottili strati di opale, a volte traslucido, più spesso spumoso con la stessa consistenza di una meringa, simili a quelle che in quantità minore avevo già osservato alla Cueva Guacamaya. Qui si trovavano sul pavimento sotto forma di grandi sfere che sembravano uova di dinosauro, sulle pareti sotto forma di articolate nuvole bianche e pendevano dal soffitto come collane bulbose. In quei momenti, di fronte a ogni nuova scoperta, io guardavo Jo De Waele – uno dei massimi esperti al mondo di formazioni di grotta – cercando di avere da lui una spiegazione, una possibile ipotesi. A volte non serviva neppure una mia domanda, lui incrociava il mio sguardo e mi anticipava con le semplici parole “Non ho mai visto nulla del genere” oppure “Non ne ho la minima idea”. Ricordo che un giorno, addentrandoci nelle gallerie asciutte della Tierra de Los Volcanes, ci trovammo improvvisamente di fronte a una pozza di acqua ricoperta da una pellicola di un colore viola intenso, quasi come fosse un colorante artificiale.
Dovevamo arrenderci, tutto quello che vedevamo era semplicemente nuovo per la scienza.
Più avanti nello stesso condotto si estendeva un altro lago, questa volta di colore blu violaceo dai riflessi fortemente iridescenti, come se fosse pieno di gasolio. Non avevamo spiegazioni per quelle colorazioni naturali così intense. Nessuna. Dovevamo arrenderci, tutto quello che vedevamo era semplicemente nuovo per la scienza.
Gli studi svolti negli anni successivi del mio dottorato e poi insieme con specialisti di minerali e microbiologia di diverse università di tutto il mondo, hanno dimostrato che questi laghi sono colonizzati da batteri sconosciuti che colorano le acque sotterranee con pigmenti antibiotici mai analizzati prima. Proprio il proliferare di questa vita microscopica ha portato alla formazione di quelle peculiari sfere spumose, “stromatoliti” di silice amorfa (opale). Le stromatoliti sono strutture minerali stratificate formate dall’interazione tra elementi chimici e microrganismi come batteri e alghe verdi. Normalmente si trovano negli oceani, e i loro resti fossilizzati sono tra le più antiche evidenze di tracce di vita sulla Terra, risalenti fino a 3,5 miliardi di anni fa. Tuttavia le stromatoliti conosciute fino alla scoperta delle grotte dei tepui utilizzano la luce solare come fonte di energia, mentre qui ci trovavamo in una grotta totalmente oscura.
Le domande erano moltissime: perché quegli organismi hanno costruito quelle strutture così complesse? Da che cosa traggono l’energia per sopravvivere? Quanto sono antichi? Tutto sembrava avere un potenziale scientifico immenso, e ancora oggi, mentre scrivo, molte di quelle domande non hanno ancora avuto risposta. È certo che questa grotta contiene un ecosistema unico al mondo dove diversi tipi di microrganismi sono riusciti a proliferare, utilizzando uno degli elementi meno utili per la vita, il silicio, e facendo tesoro delle poche risorse presenti, come il ferro o altri metalli. Ma per farlo probabilmente hanno impiegato decine e decine di milioni di anni, registrando i segni dell’evoluzione dalla vita primordiale fino ai nostri limitatissimi tempi umani.
Estratto da Il continente buio (Il Saggiatore, 2021)