L’ ultimo romanzo di Jonathan Franzen comincia più o meno come Libertà, uscito undici anni fa: una coppia che ha conosciuto una dimessa forma di serenità attraversa una crisi di cui non si può parlare. Ma dove i coniugi Berglund di Libertà utilizzavano la loro aura di rispettabilità sociale come argine all’ammissione del loro fallimento esistenziale, in Crossroads la disperata rassegnazione dei coniugi Hildebrandt lacera apertamente entrambi. Libertà è dedicato in prima battuta al punto di vista femminile di Patty, mentre l’ultimo libro di Franzen si apre inanellando i pensieri di un pastore protestante di mezza età e la sua cotta per una parrocchiana molto più magra di sua moglie. Crossroads è ambientato nei femministi anni Settanta, nel periodo in cui si cominciava a mettere in discussione le proiezioni dell’uomo sul corpo della donna. Oggi, naturalmente, risulta ancora più calzante.
Gli anni Settanta videro lo sbocciare di movimenti, come quello gay e quello femminista, decisi a restituire visibilità alle soggettività silenziate e alle loro istanze, anche sessuali. La risposta della cultura tradizionale fu cercare di normativizzare i ritrovati impulsi carnali attraverso una narrazione romantica e tranquillizzante, che vuole il desiderio come un bagaglio democratico ed equamente distribuito: tutti possono trovare l’amore e mettere su famiglia. Dove le minoranze spesso invitavano, con l’esempio, a seguire impulsi carnali imprevedibili, immeritati, illogici, in famiglia si poteva solo reagire pedagogizzando gli istinti: chiamando a una fantomatica responsabilità morale.
I personaggi di Crossroads sono un buon esempio di questa lotta tra liberazione e conservazione. Tutti, genitori e figli, ritengono che toccarsi sia l’unico modo di volersi bene. Ma tutti ritengono che ogni bisogno di toccare gli altri sia potenzialmente un’esperienza d’amore responsabile. La figlia con il musicista; il pastore con la parrocchiana. Per tutto il libro gli Hildebrandt sembrano pensare che sia possibile sposare lussuria e vita morale attraverso il riscatto del sesso da parte dell’amore.
Questa pedagogizzazione degli istinti ha però effetti corrosivi sulla capacità del singolo di riconoscere i sentimenti che prova. In termini di educazione sentimentale Russ – il pastore – non è poi molto diverso da un adolescente che non ha ancora imparato a separare sesso e amore. Da un lato, i suoi sentimenti sono plasmati dalla forma e dalla taglia del corpo delle donne che lo circondano: la parrocchiana gli piace perché è bella e si mantiene giovane. Eppure, l’unico discorso sessuale per lui plausibile è incrostato di parole di tenerezza malriposta.
Russ si innamora di Frances perché lei riesce a conservare un aspetto giovanile e ad essere elegante nelle situazioni di gruppo; Fraces si merita di far innamorare Russ. Il filo doppio con la religione è una questione di forma: la religione permette il massimo pudore verbale, sigilla la normativizzazione del desiderio. Le parole che si scambiano i protagonisti di Franzen sono intrise di significati meta-comunicativi, che devono restare invisibili ai più per non rompere gli schemi narrativi e sociali: “Ti amo” è un modo melodrammatico di comunicare una parafilia per la magrezza delle donne che desidera. “Non riesco a dimagrire” sussurrato da Marion alla sua terapeuta significa “Non riesco ad abbandonare una relazione che mi rende infelice ma di cui non posso parlare”.
In un sistema così intrinsecamente sessuofobico, l’onere di dispensare sanzioni sociali a chi sgarra grava sul singolo. Che finisce per vivere gli impulsi erotici come conseguenze comportamentali e premi alla morigeratezza. In un contesto così apertamente gerarchico, immobile e sovradeterminato dai ruoli di genere, la fisicità delle donne è, al pari della maternità, una sorta di lasciapassare sociale, che ne connatura il diritto a esistere. Se il rapporto con il marito risente dei chili presi dalla moglie per le gravidanze e per la frustrazione quotidiana, l’agency della questione è nelle mani di Marion: è la moglie del reverendo che deve stare attenta a non spostare mai l’asse del discorso sulla cause del suo nuovo aspetto, sbarazzando e tutelando Russ da qualsiasi responsabilità: “Il piano di Marion per salvare il suo matrimonio era perdere dieci chili entro Natale”. Grava su di lei l’onere di sanzionare il proprio desiderio di avere qualcosa di meglio dalla vita. E non importa che la sua terapeuta cerchi di suggerirle che “se vuole perdere peso deve farlo per se stessa, per riprendere il controllo sulla sua vita”. Come il concetto di “peso”, anche quello di “controllo” contiene un meta-significato: il problema non è tanto il diritto alla solitudine e all’indipendenza quanto la possibilità di rivendicare tempo e spazio personali, per decidere che tipo di vita condurre in una società che continua a imporre la scelta obbligata fra vivere in relazioni diseguali (in famiglia e in società) o non averne nessuna.
“Ti amo” è un modo melodrammatico di comunicare una parafilia per la magrezza delle donne che desidera.
La soluzione di Russ e Marion per non rompere gli schemi – né d’altronde il matrimonio – è scegliere di non chiamare le cose col loro nome. L’illusione che permea l’inizio di una storia d’amore è che un movente sessuale possa inserirsi nella narrativa sociale tradizionale che vede il suo culmine nel matrimonio e nella riproduzione. Poco tempo dopo il secondo figlio, però, un certo senso di vacuo inizia a deformare quest’immagine così carina degli inizi e a spingere i coniugi a replicare i loro meccanismi altrove. Con la parrocchiana. Il merito principale dell’altra donna, quella amata, è di essere “priva di cedimenti, di gonfiori, di ciccia e di rughe, un’apparizione di vitalità in un vestitino attillato”. Se la figura pubblica del protagonista potrebbe portarne a supporre la capacità ultraterrena di superare la volgare questione dei corpi – chi se non un pastore di anime può farlo? – le sue pulsioni non sono diverse da quelle di un operaio, di uno sportivo o di un banchiere. Il merito di Franzen è precisamente la descrizione, affilata e precisa, della mediocrità interiore del desiderio in toto.
In Crossroads, la famiglia funziona come copertura del desiderio carnale che si prova per coloro che sono esterni alla coppia legittima. Il desiderio è mascherato dalle incombenze quotidiane e dall’incomunicabilità. La critica femminista degli anni Settanta vede la famiglia come un’istituzione arcaica e intrinsecamente nociva per le donne, il frutto di un contratto sessuale – secondo la fortunata espressione di Carole Pateman – ideato per generare diseguaglianze patriarcali. Il romanzo di Franzen, invece, suggerisce che la ricetta eterosessuale della rispettabilità sociale funzioni come una gabbia per l’erotismo e il desiderio di tutti i generi. Secondo uno degli incipit letterari più citati, tutte le famiglie felici si assomigliano, ma ogni famiglia infelice lo è a modo suo. Il nodo dell’infelicità coniugale degli Hildebrandt, però, risulta comicamente universale, perché non è dettato da traumi o tragedie pregresse, ma è intrinsecamente sessuale e connesso alla sfera dell’osceno. Il coefficiente di indicibile e di imbarazzante è però perfettamente visibile: il corpo di Marion, la moglie, è letteralmente osceno, nel senso di off-scene, fuori scena, ovvero lontano dagli occhi e dal cuore del marito. Nonostante le qualità intellettuali, l’ironia e il buon carattere dimostratogli dalla moglie, la narrazione romantica di Russ segue una grammatica semplice, dipende dalla circonferenza delle cosce della donna bramata. La sovrapposizione di fisicità e sentimenti distilla un apprezzamento romantico ma spersonalizzante, improntato alla corrispondenza perfetta dell’amata con il canone estetico dominante. Per innamorarsi di una donna è necessario che questa sia convenzionalmente attraente, snella ed elegante. Vista l’importanza delle apparenze, la cura estetica di sé è il collante dei rapporti di coppia, destinati a naufragare se una dei due “si lascia andare”. Se il matrimonio di Russ è in crisi, la colpa è di sua moglie Marion, sovrappeso, con un taglio di capelli fuori moda e in abiti eternamente dimessi. Se Russ non le rivolge una parola gentile da dieci anni, è perché Marion ha commesso un errore imperdonabile: è invecchiata. La conseguenza di questa deformazione impressa a impulsi che non hanno niente a che vedere con i sentimenti è di portare in scena, fino alla fine, tutta l’ipocrisia delle norme: il declino dell’amore coincide ben poco misteriosamente con il collasso del desiderio sessuale. Ti amo, sussurra Russ a una donna che non è sua moglie, passandole le dita sulla pancia piatta e guardandole le gambe. Il fatto che non la conosca bene, che non gli sia nemmeno particolarmente simpatica, non gli impedisce di dichiarare ti amo. Ciò suggerisce che il desiderio sia dettato dai soliti biechi standard che impongono corpi snelli, armoniosi ed eternamente giovani. Quello che Russ scambia per amore si nutre di una certa idea di bellezza, senza mescolarsi con cose banali e ordinarie come l’invecchiamento.
Il nodo dell’infelicità coniugale degli Hildebrandt, però, risulta comicamente universale, perché non è dettato da traumi o tragedie pregresse, ma è intrinsecamente sessuale e connesso alla sfera dell’osceno.
Ma il secondo, innegabile merito di Crossroads è quello di raccontare la solitudine di Marion. Madre di quattro figli, colta, intelligente e psicologicamente instabile, è vittima di un senso di colpa che riguarda la sua poca desiderabilità, inestricabilmente connessa al peso che aumenta. Marion è una donna affamata di autocompiacimento, e dunque affamata di quello stesso male gaze che è ciò che la fa sentire in pericolo. Lo stesso male gaze che le femministe sue contemporanee denunciano e combattono. La situazione di stallo in cui si trova, per il fatto di cercare di piacere a quello stesso sguardo che è la causa del suo dispiacere, come molte donne, non posso fare a meno di condividerla.
Circa un anno fa, complici la pandemia, lo stress e un metabolismo poco collaborativo, lo spazio fra le mie cosce si è drasticamente ridotto, il mio viso naturalmente spigoloso si è arrotondato, e ho scoperto con un certo fastidio che alcuni conoscenti non riuscivano a trattenersi dal definirmi “burrosetta”. Come Marion, ho iniziato a indossare abiti informi e rigorosamente neri, a saltare pasti davanti agli altri per mangiare da sola di notte, a evitare accuratamente piscina, palestra e altri terreni di confronto con leggings, costumi di lycra e donne più in forma di me. I miei chili di troppo sono diventati il mio principale assillo, pronti a tallonare e, nei momenti più bui, a superare questioni più stringenti – l’affitto, il lavoro, persino la salute. Il peso ha iniziato ad apparirmi come la causa di tutti i miei mali, la necessità di dimagrire è diventata il nodo focale da risolvere per sistemare la mia vita, esattamente come per il personaggio di Franzen. Come Marion, anche io faticavo a concepire il mio desiderio di rientrare negli standard dell’estetica lecita in termini simbolici. Dovevo perdere peso assolutamente, dovevo ricominciare ad apparire appetibile.
Perché sto portando il mio peso in un discorso sul romanzo di Franzen? Trovo interessante, come ho detto, il ritratto che Franzen fa della monogamia come luogo che nasconde la bassezza, la mediocrità, la banalità del desiderio. Il progetto di famiglia basata sulla monogamia – una monogamia quantomeno di facciata – vuole far sembrare eroico il desiderio, perché crea una trama che dal flirt all’atto sessuale alla creazione di una famiglia può raccontare una trasformazione, un riciclaggio del desiderio in qualcosa di “sano”, la famiglia. Ma prendere da solo questo attacco a certe forme di normatività che ormai, pur ancora vive e vegete, sono date apertamente per reazionarie, sarebbe troppo facile: lasciare quel conflitto tra famiglia e libertà negli anni settanta di Crossroads equivarrebbe ad allestire la sfilata vittoriosa di chi rompe schemi che non funzionano più; invece credo si possa fare qualcosa di meglio con il tema e la trama di questo libro.
Bisogna considerare il punto di vista di chi legge oggi il libro, negli anni Venti del Ventesimo secolo. Cosa deve fare Marion con la sua liberazione? Se fosse una serie tv sarebbe facile: cominciare a fare le cose per se stessa. Liberarsi. Diventare femminista.
Gli imperativi sociali cercano di creare soggetti perfettamente prevedibili, che sanno sempre scegliere un lato della barricata e non conoscono insoddisfazione o ripensamenti.
Torniamo a me: il mio bisogno di essere rassicurata sul mio aspetto era malvisto negli ambienti femministi che avevo sempre frequentato, dove si sottolineava l’importanza di rivendicare la visibilità di una pluralità di corpi in grado di rompere gli standard. Io pensavo che il mio desiderio di piacere agli uomini – ai Russ Hildebrandt di oggi – fosse un diritto alla stregua dello scegliere di non depilarsi: invece strideva. Percepirsi belle o, con le parole di Franzen, “sentirsi visibili dall’angolazione di un uomo” è moralmente sbagliato: proprio per il fatto che donne come Marion si sono affamate per compiacere lo sguardo maschile, ogni forma di liberazione sarebbe dovuta passare per tutt’altro. Cercare di compiacere gli standard mainstream significa essere asservite allo sguardo maschile e alle logiche del patriarcato, come se una brava femminista non avesse il diritto di desiderarsi canonicamente, banalmente attraente.
Apparentemente quella femminista è l’unica via d’uscita sensata dal dilemma: se mio marito pastore arriva a desiderare delle cosce magre altrui come forma dissimulata di parafilia, di feticismo, io – Marion, Sofia – non posso offrire come soluzione il mio disperato dimagrimento. Sembra evidente. Dovrò inventarmi un altro modo di desiderare, scavalcando l’ennesimo modo per distruggere le complessità e le ombre dubbiose dell’autoconsapevolezza. La mentalità femminista avrebbe condannato Marion per il suo desiderio di piacere e di rientrare nei canoni patriarcali, esortandola, come d’altronde fa la sua terapeuta, a rivendicare la realtà del suo corpo.
Questo rovesciamento delle carte in tavola, secondo me, è solo un’altra versione della mentalità familista di Russ: chiedere a una donna di conformare la concretezza del suo corpo a ideali astratti, alti, nobili e gelidamente distanti non ne garantisce la riappropriazione, né, tantomeno, riesce a spostare il fulcro del discorso dal dovere sociale alla soddisfazione personale. Non solleva le donne dal senso del dovere: che sembra infatti comparire regolarmente sia nell’impegno familiare che in quello politico.
In Il soggetto delle norme, Pierre Macherey racconta con quanta dolcezza e razionalizzazione gli imperativi sociali accerchiano e asserviscono gli individui (senza bisogno di ricorrere alla violenza e alla coercizione della legge): basta restringere la percezione del campo di intervento. Se le persone si muovono in un contesto di socialità razionalizzata, dove ogni impulso, sentimento e decisione deve raggiungere il vaglio dell’accettabilità sociale, sgarrare, in un modo o nell’altro, significa ritrovarsi soli. Gli imperativi sociali cercano di creare soggetti perfettamente prevedibili, che sanno sempre scegliere un lato della barricata e non conoscono insoddisfazione o ripensamenti. Guardandola da questo punto di vista, possiamo immaginarci una Marion contesa da Russ (e il patriarcato) e dalle femministe. La scelta di dimagrire o no viene strappata a Marion per diventare un semplice terreno di scontro tra Russ e la visione femminista. Questa lotta per un tipo o un altro di normativizzazione finisce con l’imporsi anche a chi preferirebbe non prendervi parte.
È la stessa linearità che viene richiesta quando a ogni comportamento sessuale (dalla dieta al desiderio di sottomissione) viene richiesto di esaminarsi e riqualificarsi, gentrificarsi, diventare più credibile, più utile, più sano.
La battaglia sul corpo è un mondo fatto per gli estremismi, dove c’è poco spazio per le ambiguità e i dubbi. Che è il motivo per cui mi sono messa al centro del pezzo. Leggendo la storia di Marion Hildebrandt ho sentito che la sua voglia di dimagrire e la mia ci venivano strappate da una battaglia politica che non lasciavano né a me né a lei nessuno spazio di libertà ed espressione.
Dov’è il confine fra gusto personale e influenza sociale? Bruciare i reggiseni e non depilarsi è davvero l’unico modo di non oggettificarsi?
Come la casalinga infelice di Franzen, segretamente riluttante a far passare le frustrazioni personali per una battaglia sociale, in questi mesi ho riflettuto sul legame sottile che c’è fra estetica, identità e senso d’appartenenza. Bisogna trovare un compromesso fra gli standard estetici impossibili della società patriarcale e l’automortificazione? Davvero è impossibile decostruire le norme della bellezza imposta dallo sguardo maschile senza rifiutarle in blocco? Se il male gaze in cui siamo cresciute (e i modi variamente creativi con cui a volte l’abbiamo fatto nostro), va rifiutato in blocco, l’abiura riguarda anche noi. Nel condannare ogni forma di eroticizzazione delle cosce magre, si strappa anche a noi ciò che ne abbiamo fatto. Cosa resta alla agency delle donne? E se l’oggettificazione sessuale potesse essere un piacere?
Ma allora a chi appartiene l’istanza di liberazione del corpo? L’impossibilità di portare in scena anche la fatica, l’ambiguità e le contraddizioni di tutte le donne che non possono aderire alle regole ferree dello stile di vita femminista suggerisce l’esistenza di un divario incolmabile fra le lezioni di vita femministe di chi se le può permettere – magari anche solo perché non è pazza come me – e le vere regole del gioco. Nelle discussioni fra amici, nella mia bolla social e nella cornice rassicurante delle mie radici culturali, femministe e inclusive, la body positivity è un must have, un elemento distintivo che conferisce il diritto a prendere la parola e a essere riconosciute. Ma è davvero sempre possibile e auspicabile essere fieri di sé? Cosa rimane a chi manifesta dubbi, rivendica ambiguità e insicurezze, a chi non si identifica, a chi non è felice nel suo corpo?
A Marion si chiede di rispettare la logica che sta silenziosamente a monte dell’ordine sociale, di ponderare le sue decisioni e di arrivare a sentimenti intensi per gradi, ostentando una certa linearità. È la stessa linearità che viene richiesta quando a ogni comportamento sessuale (dalla dieta al desiderio di sottomissione) viene richiesto di esaminarsi e riqualificarsi, gentrificarsi, diventare più credibile, più utile, più sano.
Essere accettati significa poter essere decodificati, anche se questo comporta l’appiattimento della realtà, la fine del piacere a favore del senso compiuto. Che si vada col male gaze o si vada con le femministe.
Io preferisco una Marion allo sbando, insensata nei suoi desideri e incapace di fornire spiegazioni, perché il desiderio è irrazionale, spontaneo e tendenzialmente distruttivo. Pretendere un’adesione – estetica o politica che sia – a un qualsiasi canone, sia pure uno che si racconta in contraddizione (contro il canone di bellezza del patriarcato), significa solo inserire l’individuo in un’ulteriore logica di performance, propagandando la convinzione che imporre un guinzaglio corto fra sentimenti e senso logico (be sex positive!) possa proteggere dalla delusione, dall’infelicità e dalla fragilità dei sentimenti.
Il punto diventa solo seguire alla lettera la ricetta per poter essere accolti nelle fila di una delle due fazioni: l’attrattività educata e aggraziata della madre di famiglia ancora avvenente per il piacere del marito o la femminista scarmigliata e senza trucco. Il corpo, in questo frangente, non è un terreno di scontro, ma il biglietto da visita della comunità di riferimento e come tale è esente da istanze liberatorie.
Ripeto: partecipare allo scontro tra le parafilie del pastore Russ e i reggiseni bruciati vuol dire rinunciare alle proprie istanze liberatorie.
Marion non sceglie di dimagrire per il marito, né cerca di assumere simbolicamente il controllo della sua vita: il suo impulso è senza strategia, anti-ideologico e abbastanza egoistico da restituirle una vaga sensazione di benessere. Non è una buona causa – il benessere del suo matrimonio né la presa di autocoscienza – a determinare il rigore della sua dieta, ma un becero desiderio di essere guardata.
La società puritana e americana, delle questioni poste sempre come questioni di giustizia, è una società che ha a cuore solo la standardizzazione. È la dialettica dell’illuminismo. Trouble-shooting. Risolvere i problemi. Uniformare. Pastorizzare. Essere accettati significa poter essere decodificati, anche se questo comporta l’appiattimento della realtà, la fine del piacere a favore del senso compiuto. Che si vada col male gaze o si vada con le femministe.
In famiglia, in società, nei collettivi, il corpo delle donne è un terreno di scontro prima ancora di essere un involucro di carne e sangue: un oggetto teorico su cui si pontifica alla disperata ricerca di un bene superiore.
Il messaggio del libro di Franzen, è che soffocare la mediocrità delle nostre pulsioni non ci proteggerà dal giudizio altrui.
Per me, la riappropriazione di Marion – ricominciare a fumare, dimagrire, diventare più “bella” e “pericolosa” – è un atto intrinsecamente politico proprio perché si situa così lontano da discorsi politici espliciti e dagli schemi rigidi dell’attivismo facile. Se ci si riconosce nel più grande personaggio mai inventato da Franzen, una donna di mezza età con una giovinezza psicotica e abusata presa di peso dal noir di Los Angeles anni Quaranta, è un’identificazione senza giudizi di merito, ancorata all’empatia che segue l’amarezza, l’insoddisfazione, la verità noiosa della via di mezzo.
Il messaggio (nemmeno così subliminale) del libro di Franzen è che soffocare la mediocrità delle nostre pulsioni non ci proteggerà dal giudizio altrui. Come Marion che si culla nei ricordi, siamo alla deriva fra il delirio di onnipotenza e le vette dell’autocommiserazione, senza che questo riveli davvero qualcosa di noi e della nostra essenza profonda. Non dobbiamo “diventare buoni”, ma sfuggire dalla logica della performance, smettendo di vendere l’ansia da prestazione come una spinta benefica all’automiglioramento. Non esistono pulsioni addomesticabili: i grandi ideali sembrano lasciare spazio al tempo che trovano. Come scriveva David Foster Wallace nel suo celeberrimo Questa è l’acqua, non c’è spazio per qualcosa come la laicità nel mondo reale, in cui è meglio trovare un’ancora di salvezza qualsiasi che smettere completamente di navigare. Scegliamo tutti di credere in qualcosa (il lavoro, il grande amore, il femminismo, la famiglia), quello che conta è la consapevolezza di quanto tutto sia caduco e fragile.