L a storia pop della scienza è piena di aneddoti classici, talvolta pericolosamente confinanti con la leggenda, in cui un caso fortunato porta a scoperte sensazionali, dalla penicillina di Fleming ai raggi X di Roentgen, dalla radiazione cosmica di fondo ai corn flakes, passando per il forno a microonde scoperto per caso nel 1945 da Percy Spencer mentre armeggiava con i componenti dei radar. Per non dire degli scaffali di fossili in cui ci si è imbattuti andando a zonzo tra vallate e praterie. Queste storie proliferano all’interno della comunità scientifica e talvolta vengono sfruttate nella divulgazione. Piace l’idea democratica che nella scienza nessuno debba mai darsi troppe arie, giacché la fortuna gioca un ruolo fondamentale nelle scoperte più rilevanti.
La serendipità però non è puro caso. Richiede di essere pronti e ricettivi nei confronti di un risultato sorprendente. Bisogna capire subito di avere per le mani una scoperta inaspettata e non soltanto un esperimento malriuscito. Chissà quanti esempi di serendipità sono finiti dritti nel cestino della spazzatura e dunque nel dimenticatoio della storia. (…)
Dall’importanza quantitativa della serendipità dipende per esempio la giustificazione o meno dei fondi dati alla ricerca di base, cioè quella non finalizzata a priori a un risultato applicativo, bensì guidata dalla sola curiosità di conoscere la natura.
Se capiamo le circostanze in cui la serendipità fiorisce, potremmo promuoverla con misure e finanziamenti adeguati. Il tema non è di intrattenimento. Dall’importanza quantitativa della serendipità dipende per esempio la giustificazione o meno dei fondi dati alla ricerca di base, cioè quella non finalizzata a priori a un risultato applicativo, bensì guidata dalla sola curiosità di conoscere la natura, un tipo di indagine che a prima vista sembrerebbe più consona alle gioie della serendipità.
Già Francis Bacon, cantore della rivoluzione scientifica moderna, sosteneva che gli “esperimenti apportatori di frutto” non erano sufficienti: bisognava coltivare anche gli “esperimenti apportatori di luce” (la luce della ragione e della conoscenza), cioè quelli senza applicazioni immediate, essendo gli uni e gli altri utili a rendere il mondo un posto migliore in cui vivere. Thomas Sprat, nella sua Storia della Royal Society del 1667, scrisse che lamentarsi di una scienza che non porta risultati immediati nella pratica è sciocco e vano come lamentarsi del fatto che non tutte le stagioni dell’anno siano di raccolto e vendemmia. È evidente che la serendipità richiama subito alla mente l’idea di una ricerca libera che non sia asservita né alla contabilità economica né alla programmazione politica.
Qui tuttavia incontriamo un paradosso. Auspichiamo e vogliamo una ricerca anarchica e serendipitosa, ma come si fa a prevederla? Una sorpresa programmata smette di essere tale. Non si calcola l’inatteso. Gli accidenti desiderati hanno prerogative particolari, non progettabili a priori. Inoltre, abbiamo visto che questi felici incidenti devono essere importanti, avere implicazioni per il corpo delle nostre conoscenze, essere ripetibili. Non basta insomma mollare la presa, allentare le regole, affinché la serendipità nasca come per generazione spontanea. Se la serendipità è l’inatteso che irrompe, non potrà mai essere costruita, pianificata a tavolino.
Possiamo dirigerci verso obiettivi che conosciamo, ma che fare se gli obiettivi più importanti sono quelli che ancora non conosciamo? Un modo per uscire dal paradosso sarebbe rinunciare, in effetti, a qualsiasi programmazione della ricerca. La pensava così Medawar, secondo il quale non esiste un metodo scientifico inteso come una procedura unica, automatica e infallibile, né un tipo di inferenza privilegiato, ma strategie molteplici di ricerca, di esplorazione razionale, a base di intuito, immaginazione, audaci congetture, connessioni impreviste. Insomma, la scienza come una poiesis artigianale, un’avventura del pensiero. L’immunologo inglese sosteneva che se la politica è l’arte del possibile, la scienza è l’arte del risolvibile, del rendere solubile ciò che prima non lo sembrava.
Parlava per esperienza. Grazie al suo lavoro e a quello di altri su come prevenire le reazioni di rigetto, i trapianti di organo divennero un problema risolvibile, e poi effettivamente risolto. Dimostrarono che la soluzione non era tecnicamente impossibile e a loro volta aprirono nuove opportunità esplicative e terapeutiche prima impensate. Quindi Medawar si era fatto l’idea che le scoperte scientifiche non potessero mai essere decise a priori. Nessuna commissione governativa di oggi ossessionata dai risultati tangibili – scrisse – avrebbe mai finanziato i trastulli di Roentgen con i tubi catodici per analizzare il comportamento delle scariche elettriche nel vuoto spinto. Poi sappiamo come andò a finire: quei giochi rivoluzionarono la medicina. Nessuno avrebbe stipulato un contratto di ricerca a priori per scoprire il complesso maggiore di istocompatibilità umano da ricerche sui trapianti di tumore nei topi.
Possiamo dirigerci verso obiettivi che conosciamo, ma che fare se gli obiettivi più importanti sono quelli che ancora non conosciamo?
Arrendiamoci al paradosso: se dico che in futuro la scienza raggiungerà una certa nuova idea o scoperta, devo esprimere adesso quell’idea, quindi non è più futura ma presente. Ciò che sta davvero dentro quel futuro è ignoto. I commentatori, che ogni tanto (di solito nei bilanci di fine anno) si mettono a vaticinare su ciò che resta da scoprire in una data disciplina, prima o poi sbagliano e sempre vengono smentiti. Nell’anno 1900 l’illustre fisico William Thomson, Lord Kelvin, oltre a sostenere che la teoria darwiniana era sbagliata, vaticinò che alla scienza mancavano pochi dettagli per arrivare alla comprensione completa della realtà tutta. Cinque anni dopo vennero due cosucce chiamate teoria dei quanti e relatività ristretta. Allo stesso modo non bisogna credere agli antiprofeti che dicono che un certo risultato è per principio irraggiungibile.
Il Nobel per la Chimica del 1932, Irving Langmuir, che convinse per anni la General Electric a investire in ricerca di base libera e non pianificata, era dello stesso avviso: nel 1947 suggeriva di promuovere la ricerca non programmata, le connessioni accidentali, le circostanze impreviste, tanto nel pubblico quanto nel privato. Se la vera ricerca è libera come il vento, allora come velisti bisogna mettersi nella posizione favorevole per trarre profitto da brezze e folate inattese. Libertà di indagine e libertà di opportunità sono due espressioni gemelle di democrazia, aggiungeva Langmuir. La serendipità quindi è interesse della scienza, ma più in generale delle società democratiche.
Due anni prima, in un libro che fece epoca, Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita, Vannevar Bush dettava proprio questa linea alla strategia di sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica statunitense. Il progresso scientifico, scriveva Bush, nasce dal libero gioco di liberi intelletti, che lavorano su argomenti di loro scelta, nel modo suggerito dalla loro curiosità di esplorare l’ignoto. La libertà di ricerca deve essere quindi garantita e promossa da ogni piano governativo sulla scienza. La ragione ispiratrice, per Bush, è proprio la serendipità. Molte delle più importanti scoperte sono arrivate infatti come risultato di esperimenti progettati con obiettivi completamente diversi. Dunque i risultati di una particolare linea di investigazione non possono essere previsti con accuratezza. Nel caso di Bush, non sono solo parole edificanti: abbiamo la controprova storica che la gestione del paradosso della serendipità ha funzionato. Grazie al suo approccio, gli Stati Uniti divennero in pochi anni i leader mondiali della scienza che sono ancora oggi.
Questo però significa che la serendipità, se non possiamo programmarla, possiamo almeno favorirla, coltivarla, aumentarne le probabilità, ovvero generare le condizioni appropriate affinché possa prosperare. Ma come esattamente? Promuovere istituti di ricerca di base (non “pura”, giacché non sappiamo bene cosa possa essere la purezza nella scienza) è una soluzione, ma anch’essa paradossale. Creiamo questi istituti interdisciplinari proprio perché, sotto sotto, speriamo e crediamo che qualcosa di pratico e di utile scaturisca nel corso di una libera e disinteressata investigazione! Potrebbe funzionare anche l’inverso: partire con un problema concreto e poi permettere alla ricerca di aprirsi in direzioni di maggiore generalità, come hanno fatto molte aziende in passato con discreti successi. Un fatto interessante, già notato da Merton, è che le scoperte serendipitose giungono sia da scoperte puntuali, inaspettate, di singoli scienziati, sia da linee di ricerca finalizzate e applicate. Anche grandi industrie hanno massimizzato i profitti a medio termine finanziando ricerca di base disinteressata. Dipende da quanto ci si può permettere di attendere e da come si convincono gli azionisti sull’investimento. Sembra che gli unici fattori determinanti per la serendipità siano il tasso di finanziamento e il numero di ricerche. In altri termini, la quantità di ricerca.
La serendipità, se non possiamo programmarla, possiamo almeno favorirla, coltivarla, aumentarne le probabilità, ovvero generare le condizioni appropriate affinché possa prosperare.
Dunque, più si fa scienza e più emergono scoperte serendipitose, il che è abbastanza ovvio e permette di ribadire che le spese in ricerca sono sempre un buon investimento. Ohid Yaqub è giunto alle stesse conclusioni dopo il riesame dell’archivio di Merton. La serendipità non scaturisce soltanto e necessariamente dalla ricerca di base, come si sarebbe intuitivamente portati a pensare. Riguarda entrambe: ricerca di base e applicata. Prima di tutto, perché la distinzione stessa è permeabile e sfrangiata: molte scoperte fondamentali per le loro ricadute applicative sono nate da linee di ricerca di base, ma vale anche l’inverso. Scoperte inaspettatamente significative per la ricerca di base sono scaturite da linee applicative su problemi di natura pratica. Basti pensare all’impatto sulla batteriologia del lavoro di Pasteur per l’industria francese del vino, a quello sulla termodinamica delle ricerche di Sadi Carnot per migliorare l’efficienza dei motori a vapore, oppure, come abbiamo visto, a quanto la nascita della radioastronomia sia debitrice del lavoro ai Bell Labs per rimuovere i sibili dalle comunicazioni telefoniche. Tutti interessi economici concreti e impellenti che alimentarono poi la ricerca di base.
Nel 1848, fu studiando i cristalli dei sali dell’acido racemico sui fondi delle damigiane di vino fermentato che il giovane Pasteur scoprì per caso la chiralità delle molecole (cioè la non sovrapponibilità delle immagini speculari delle loro strutture tridimensionali). Se pensiamo alle tipologie di scoperte serendipitose discusse sin qui, la ragione di questa trasversalità emerge chiaramente. Sia la serendipità di Merton in senso debole sia quella forte di Walpole si basano infatti su un percorso di indagine che inizialmente nasce da una domanda di ricerca mirata. Nel primo caso, si arriva alla soluzione auspicata per vie inaspettate. Nel secondo, si giunge a scoprire qualcosa che non c’entra nulla. Quindi le ricerche mirate possono condurre o a osservazioni impreviste o a risultati inattesi rispetto all’obiettivo di partenza. Ma quell’obiettivo c’era. Tutte le strade portano alla serendipità.
Estratto da Serendipità (Raffaello Cortina, 2021).