Ivan Carozzi
/ IMMAGINE TRATTA DA “LOVELY BOY” DI FRANCESCO LETTIERI
16.11.2021
Nun me toccà Truce Baldazzi
Ascesa e declino di Lovely Boy, il trapper in comunità di recupero del secondo film di Francesco Lettieri.
Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di "Figli delle stelle" (Baldini e Castoldi, 2014), "Macao" (Feltrinelli digital, 2012), "Teneri violenti" (Einaudi Stile Libero, 2016) e "L'età della tigre" (Il Saggiatore, 2019).
Lovely Boy narra la storia di autodistruzione di un giovane cantante romano. Interpretato da Andrea Carpenzano, Lovely Boy lavora in coppia con un secondo artista, detto Borneo. Borneo è cinico, Lovely Boy è sempre in bagno a pippare. Il manager è un certo Padella, rapper della vecchia generazione. Piccoletto e nervoso, a suon di “Ma’ llevate dar cazzo!” Padella si fa spazio tra il pubblico di un club, mentre gli FK Satellite si esibiscono nella hit Ansia No e Taxi B urla nel microfono un verso sghembo e colmo di estatica ammirazione per la merce: “Dentro il bomber di Moncler che fa più luce, il polo nord”. Padella, personaggio chiave, ricorda il Joe Pesci dei film di Martin Scorsese. Tuttavia la grinta di Padella non è all’altezza delle ambizioni di Lovely Boy e Borneo, che vedono in lui un vecchio rottame del rap romano anni Novanta. Nel frattempo Lovely Boy sniffa cocaina e polverine varie. È sempre “’ncartavetrato”. Passa dagli psicofarmaci ad altre sostanze, la cui natura Francesco Lettieri e il cosceneggiatore Peppe Fiore hanno preferito non precisare, forse per sottolineare uno stile di assunzione agnostico, che non ha alle spalle nessuna specifica inclinazione, ritualità o codice sottoculturale. Il racconto di Lettieri si sposta tra club, feste in giardino, il set di un videoclip e la comunità terapeutica Stammer, sulle Dolomiti, dove viene mandato a curarsi Lovely Boy, poliassuntore burbero, afasico, col cervello danneggiato dagli abusi.
Lovely Boy, secondo lungometraggio di Francesco Lettieri, in onda su Sky Cinema, è la storia di una persona, ma è anche la prima rappresentazione cinematografica di una nuova stagione dei linguaggi e degli immaginari della musica italiana. Lovely Boy comunica con il proprio pubblico attraverso stories e dirette. Si esprime con brevi sentenze e con un romanesco plumbeo, scarno, fitto di neologismi provenienti dalla rete. Il momento dell’ospitata in tv in un contesto giornalisticamente curato e opportunamente illuminato, così come la cover sul magazine di settore corredata da un virgolettato, hanno ceduto spazio alla sgrammaticatura e allo spezzatino caotico di Instagram e TikTok. La novità di un ecosistema musicale e culturale generato nella semiotica dello spazio digitale, è annunciata anche dal disuso in cui è caduta l’onomastica consueta di un tempo. Niente più “Francesco Baccini”, “Irene Grandi”, “Daniele Silvestri” o “Carmen Consoli”. Il suono delle desinenze cognominali in –anni\eni\oni o in –ali\oli, che si diffondeva dai televisori a febbraio durante una serata del festival di Sanremo, agiva come un rassicurante richiamo a piani di realtà noti, giornalieri, oggettivi, a un reame di volti e cose banali, famigliari. Non è più così. Al loro posto sono fioriti decine di pseudonimi cyber, posthuman, fluorescenti e cinetici, sintetici e a volte sentimentali: Sfera Ebbasta, Dark Pyrex, Taxi B e, nel caso del film di Lettieri, Lovely Boy. La musica pop italiana è entrata in una nuova era. È un po’ come nella cosiddetta esplosione del cambriano, quando nel breve giro di tempo si svilupparono centinaia di nuove forme di vita. Di Lovely Boy e del film abbiamo parlato con il regista Francesco Lettieri.
Come ci si documenta per scrivere un film come questo? Insomma, che cosa hai letto? E che cosa hai guardato, ascoltato?
In generale ho cercato di tenermi sempre aggiornato rispetto alle nuove tendenze musicali. Credo che la musica sia l’ultima arte in grado davvero di avere impatto sulle nuove generazioni, per cui ascoltare e capire la nuova musica significa capire un pezzo della cultura contemporanea. Poi ho letto qualche saggio sul trattamento delle nuove tossicodipendenze, per quanto riguarda la parte del film girata nella comunità. Ho intervistato qualche psicoterapeuta per cercare di raccontare in modo realistico il mondo delle comunità e delle nuove tossicodipendenze in Italia.
So che hai passato molto tempo su Instagram per preparare e pensare questo film…
La prima fonte di informazione su quello che succede nel mondo musicale è sicuramente Instagram. Ho sempre seguito i personaggi più estremi, un po’ per divertimento, un po’ per interesse. Quando ho cominciato a lavorare alla sceneggiatura, Ig è diventato uno strumento vero e proprio. Sui social, al contrario di quello che si può immaginare, molti di questi personaggi non hanno filtri. Più sei vero, più follower ti seguono e la quotidianità viene mostrata in maniera quasi pornografica. Studiare le storie di Ig mi ha dato le basi per creare un mondo, un linguaggio e delle dinamiche reali e credibili.
15 secondi è il tempo di durata di una story, ma pure il tempo di attenzione di Lovely Boy, stando a una battuta pronunciata dalla fidanzata…
Credo sia una coincidenza. La battuta non era in sceneggiatura. La maggior parte dei dialoghi del film è stata improvvisata, sempre per lo stesso obiettivo: rendere credibili e naturalistiche le scene.
Che ne pensi della story come formato?
I social mi annoiano sempre di più. Vorrei poter dire che li utilizzo solo per lavoro, ma se devo essere onesto c’è anche una componente di utilizzo compulsivo e automatico. Farsi un giro sui social e mettere un paio di like è un po’ come un tempo era fare zapping in TV. Sono davvero poche le cose interessanti.
C’è qualche profilo pazzo, speciale, che consigli di seguire?
C’è un passaggio molto breve, nel film, in cui il padre del protagonista fotografa il figlio e poi armeggia con la macchina fotografica. Che tipo di legame padre-figlio volevi raccontare scrivendo questa scena?
Volevo raccontare il contesto di Nic (Lovely Boy), borghese e intellettuale, di sinistra. Il padre di Nic, per quel poco che si vede, sembra una brava persona, anche se un po’ distratto. Con quella scena volevo escludere, ma non del tutto e fino in fondo, che il problema di Nic fosse dovuto al rapporto con i genitori. Al cinema spesso è tutto nero o tutto bianco, ma nella realtà le cause dietro i comportamenti delle persone sono molteplici e complesse.
La mamma è una figura chiave nella biografia e nelle canzoni di alcuni artisti degli ultimi anni. Penso a Ghali, a Tedua, a Sfera Ebbasta etc.
Il rapporto con la madre è un archetipo della trap. La figura del bad boy autodistruttivo e arrogante, ma con il cuore tenero, legato alla madre e in alcuni momenti infantile, è un personaggio tipico di quel mondo. Lovely Boy – lo dice anche il nickname – appartiene al genere.
Contrariamente a certo immaginario, quella di Lovely Boy è una famiglia tranquilla, borghese. Come mai questa scelta?
Ci tenevo a sottolineare che le ragioni del malessere di Nic non fossero del tutto chiare, agli occhi del pubblico, così come agli occhi del personaggio stesso. Raccontare un personaggio cresciuto in un contesto di disagio avrebbe reso la storia più piatta e prevedibile. Credo invece che ambientare la vicenda in un contesto borghese e colto sia un modo più originale e contemporaneo di affrontare certi temi.
Parliamo di Padella, il manager di Lovely Boy e Borneo. È un personaggio fantastico, uno dei rari personaggi di rapper del nostro cinema e probabilmente uno dei più riusciti. Padella a un certo punto, durante un pranzo, pronuncia la battuta “Aò, nun me toccà Truce Baldazzi chè me rode er culo… quello è dadaismo puro!”, il che magari è una frase fatta, ma rivela in Padella un briciolo di senso dell’umorismo, di cultura e di capacità riflessive e critico-musicali, che invece sono completamente assenti in Lovely Boy e in Borneo. Sembra che gli artisti, in questo mondo che racconti, siano più freddi, cinici, sgamati e pure più ignoranti dei manager…
Padella è uno dei miei personaggi preferiti. Oltre al fatto che Riccardo De Filippis è stato bravissimo a interpretarlo, è la tragicità del personaggio a renderlo umano e di cuore. Padella rappresenta il mondo del rap underground romano, di chi è cresciuto nei centri sociali, di chi ha creato la scena rap e, nel suo caso, di chi ha visto gli altri crescere e avere successo, mentre lui è rimasto sempre sconfitto. La voglia di riscatto frustrata e destinata al continuo fallimento è un tratto tipico di alcuni personaggi della “tragicommedia” all’italiana, dal Sordi di Una vita difficile di Dino Risi, al Nino Manfredi di C’eravamo tanto amati. È il genere di personaggi a cui siamo più affezionati io e Peppe Fiore, con cui ho scritto la sceneggiatura. Padella è un personaggio anacronistico rispetto agli altri che ruotano intorno a Nic. Come dice lui stesso in un’altra battuta: “c’è chi ce mette er core e chi ce mette la testa. Generalmente chi ce mette er core se lo prende nel culo”.
In alcune scuole di sceneggiatura consigliano d’immaginare il protagonista della propria storia da bambino. Che bambino era stato, secondo te, Lovely Boy?
Non ho mai studiato sceneggiatura, in realtà, però in questo caso ho pensato a Lovely Boy bambino, perché a un certo punto avrei voluto inserire nel film delle scene di Nic da piccolo. Lo vedevo come un bambino felice, che amava giocare da solo, protetto da dei bravi genitori. L’idea era raccontare che all’origine di una sofferenza non c’è per forza un trauma. Alla fine, però, ho pensato che fosse troppo didascalica come scelta e ho preferito non aggiungere altre scene.
Perché dici che questo non è un film sulla trap? Perché la trap non esiste più?
Per me non è un film sulla trap, perché il punto del film non è la trap o la musica. Non sarebbe giusto neanche dire che il film è ambientato nel mondo della trap, perché mezzo film è ambientato in una comunità per tossicodipendenti. La trap non viene mai nominata nel film. Nic e Borneo fanno la musica del 2021, che viene dalla trap, ma sfocia nell’emo e nel pop. Oggi la trap è stata inglobata e ibridata da altri generi, per cui non si può più parlare di trap pura, anche se ancora siamo in un momento di passaggio in cui non è facile inquadrare le nuove tendenze.
Nella scena della festa in giardino mi ha colpito una ragazza che indossa guanti di pizzo bianco, lunghi fino al gomito, un po’ come nel vecchio stile new romantic. Ho l’impressione che ci sia stata una grande ricerca dal punto di vista delle facce, delle tipologie umane, degli abiti, dello stile…
Mi fa piacere che hai notato questo dettaglio. Tutti i film sono fatti di cose minime, dietro le quali c’è il lavoro di tante persone. In questo caso il nostro è stato un lavoro di ricerca di persone reali, anche per le comparse. Molti ragazzi indossano i loro abiti e sono collocati in contesti realistici. Così come nella realtà è possibile incontrare personaggi fuori contesto, così doveva essere anche nel film, dove si racconta un mondo che ha nei suoi codici proprio il fatto di romperli.
Da dove vengono invece gli attori che interpretano gli ospiti della comunità di recupero?
Nella comunità dello Stammer c’è un mix di attori professionisti e personaggi reali. Daniele, il tutor di Nic, è un mio carissimo amico che ha lavorato tanti anni in comunità e che mi ha raccontato tante storie che sono poi finite nel film. Martino invece era uno dei personaggi di Bianca Neve, un vecchio documentario cult. Al tempo Martino era un tossicodipendente e il documentario raccontava la sua vita assurda. A dieci anni da quel documentario ho cercato Martino e dopo diverse ricerche sono riuscito a trovarlo. Ora sta bene, ha una vita serena ed è una delle persone più belle che abbia mai incontrato.
C’è poi una specie di fantasma che si aggira nel tuo film, quello di Vasco Rossi…
Vasco è per me semplicemente l’unica rockstar italiana. Alcune delle sue canzoni sono state dei veri e propri inni per chi ha avuto una vita difficile o ha fatto uso di sostanze: Siamo solo noi, Vita spericolata… Nell’Italia bigotta degli anni ’80, Vasco Rossi è stato l’unico ad affrontare queste tematiche e a “fottersene” del giudizio degli altri. In un film come questo ho pensato che aveva senso fargli un omaggio con Canzone, il suo pezzo che amo di più.
Come nasce il tuo rapporto con lo scrittore e sceneggiatore Peppe Fiore?
Ho conosciuto Peppe a Roma, credo quindici anni fa. Lui lavorava a Wildside, la casa di produzione, io avevo fatto dei cortometraggi improbabili, che però piacquero a Peppe. Scrivemmo una sceneggiatura per un corto ambientato in una periferia, poi siamo diventati amici inseparabili. Oggi non credo che sarei in grado di scrivere un film senza Peppe.
Una scena di Lovely Boy è ambientata alle spalle del complesso del Corviale, dove natura e architettura si fronteggiano in un modo suggestivo e potente. Da dove viene questo grande amore per l’architettura e la periferia, che abbiamo imparato a conoscere nei tuoi videoclip per Calcutta e Liberato?
Non ho studiato architettura e non ne capisco molto, in realtà. Semplicemente sono un osservatore, cerco delle location interessanti e credo che sia un aspetto fondamentale per costruire un’estetica del film. Le architetture che compaiono nei miei film e nei miei video spesso sono belle solo all’occhio, mentre nella realtà sono invivibili o abbandonate. Il caso di Corviale è un esempio lampante.
Che cosa pensi quando leggi “degrado” e “periferia” nella stessa frase?
Per me ci sono tre cose che considero brutte e scontate: la prima sono i corti o i film che cominciano con la sveglia che suona; la seconda sono le scene in cui succedono delle cose, c’è un sacco di gente e alla fine si scopre che il personaggio era solo ed era tutto frutto della sua immaginazione. La terza sono le storie di degrado ambientate nella periferia.
Oggi dove vivi?
Dopo anni di Pigneto, a Roma, mi sono trasferito a Pozzuoli.