Čapek
/ Immagine: Ritratto di Jan Švankmajer, di Filicio.
12.11.2021
Un surrealista di terza generazione
Intervista a Jan Švankmajer, regista, burattinaio, maestro indiscusso del cinema d’animazione.
Čapek è una rivista aperiodica di fumetti, reportage, interviste, indagini, stranezze. Nasce da cinque realtà indipendenti, con storie diverse, che decidono di incontrarsi e fecondarsi.
Strade Bianche: l’ultima reincarnazione della storica Stampa Alternativa, guidata da Marcello Baraghini.
Puck magazine: rivista indipendente di fumetti, diretta da Hurricane Ivan.
CTRL magazine: rivista e casa di editrice di reportage narrativo.
Uomini Nudi Che Corrono: collettivo di artisti visivi maceratesi.
AFA: Festival milanese di autoproduzioni underground.
J
an Švankmajer è uno degli ultimi surrealisti rimasti al mondo: regista, burattinaio, maestro indiscusso del cinema d’animazione. La sua opera costellata di simbologie ha influenzato registi come David Lynch, Tim Burton e Terry Gilliam, tanto da essere considerato oggi quasi una sorta di essere mitologico, un alchimista dell’immagine in grado di viaggiare negli angoli più disturbanti dell’inconscio e dare vita alla materia inanimata. Siamo riusciti a rintracciarlo, nella sua Praga, e ci siamo fatti svelare i suoi oscuri segreti.
Questa intervista è a cura di Ivan Manuppelli, Giuditta Grechi, Marco Taddei e Gianluca Lo Presti, per il terzo numero di Čapek, rivista di “fumetti, reportage, interviste, indagini, stranezze, amenità, vita campestre”.
Abbiamo costruito questo numero della rivista intorno a tre parole chiave: vita, morte, miracoli. E siamo incappati in una tua intervista; parlavi del tuo “Decalogo ad uso dei registi”, e facevi derivare il termine “animazione” dalla stessa radice di ’“animismo”, ovvero il dare vita agli oggetti. Come cambia la tua sensibilità di regista, quando lavori con un attore in carne ed ossa e quando dai vita a un oggetto con la stop motion?
Con i film immaginari qualsiasi cosa ha la stessa importanza: gli attori, i loro costumi, gli attrezzi di scena, l’ambientazione, i fantocci, gli oggetti. Tutto può essere un simbolo e di conseguenza tutto può essere portatore di un significato, come nei sogni. Quindi, il mio approccio verso gli attori è lo stesso che ho verso le animazioni. Così come cerco di “sciogliere il linguaggio” delle storie di questi soggetti umani, mi diletto anche a lavorare con vecchi oggetti che sono stati toccati da persone in diverse situazioni, con diverse tensioni ed emozioni, e dunque sono carichi di queste emozioni. Con gli attori vivi ricerco queste emozioni principalmente nei loro occhi e nella bocca. Scelgo gli attori in base agli occhi e alla bocca perché sono le porte principali della loro anima, nella quale si riflettono sia le loro sofferenze che le aggressività. Questo è il motivo per cui nei miei film mi piace lavorare con i dettagli ingranditi di volti umani – occhi e bocca – e la struttura delle cose.
Collezioni ancora oggetti? Ce n’è uno che ti ha particolarmente colpito nell’ultimo periodo?
Per me non c’è molta differenza tra gli oggetti che colleziono e quelli che ho creato. La mia Wunderkammer è varia e ordinata in modo analitico. Allo stesso modo per me non è importante il “valore” delle cose, ma il potere del loro immaginario. Tengo gli oggetti che mi stanno più a cuore nel mio studio a Knovìz e dormo insieme a loro. La mia ultima acquisizione sono stati due disegni di Scottie Wilson e un piccolo quadro di Joseph Crepin. Li ho scambiati per diversi disegni di spiritualisti cechi.
Guardando i tuoi film, anche gli oggetti più banali diventano protagonisti di scene comiche o inquietanti. Perdonaci una domanda un po’ ingenua: che rapporto hai con gli oggetti che usi tutti i giorni, come la caffettiera, lo spazzolino o le posate?
È necessario rendersi conto che tempo fa tutti gli oggetti di uso quotidiano erano oggetti di culto; e in fondo ogni attività umana aveva un carattere rituale. Le persone si avvicinavano alle cose come se fossero esseri viventi. È stato solo a partire dal Rinascimento che abbiamo dissacrato le cose e le abbiamo rese schiave (anche gli animali). Il culmine è nella società consumistica di oggi. Tutto ciò deriva dall’antropocentrismo, imposto soprattutto dal cristianesimo. Nei miei film cerco di ridare vita alle cose. Sfortunatamente, devo usare la tecnologia per farlo. Oggi non abbiamo più la capacità intrinseca, innata, per farlo, quella capacità che avevano invece i nostri antenati, a cui bastava solo il potere della mente e quello dell’immaginazione.
Come procede la tua ricerca tattile? Hai scoperto nuove superfici in questi anni?
Mi sono occupato intensamente del tatto in relazione all’immaginazione negli anni Settanta e Ottanta. Ora ritorno a questo tipo di immaginazione solo occasionalmente. Quest’anno ho realizzato due oggetti tattili: un labirinto tattile e una poesia tattile.
Tutto quello di cui abbiamo dialogato finora – il potere della mente, dell’immaginazione, dell’animazione – ci ricorda la magia. O, meglio, l’alchimia, di cui sappiamo che sei interessato…
Per me l’alchimia rappresenta soprattutto il meraviglioso e più antico sistema interpretativo del mondo e della vita in generale. Non m’interessa la produzione della pietra filosofale o la pratica alchemica in sé. Non sono un alchimista praticante. Ma ho comunque un laboratorio alchemico attrezzato a Šumava, nella selva boema, con un Athanor.
Spesso sei stato accostato al surrealismo ceco. Ma è ancora possibile essere un surrealista oggi? E come?
La maggior parte delle persone, anche molti storici dell’arte e artisti, guarda al surrealismo come a un movimento che ha dominato la scena artistica tra le due guerre e che ora è al pascolo. Oggi scriviamo e dipingiamo in modo completamente diverso, no? Ma questo è un malinteso. Innanzitutto, il surrealismo non è solo arte. È una visione fantasiosa e magica della vita e del mondo. Non c’è pittura surrealista o film surrealista, ma c’è surrealismo nella pittura o surrealismo nei film. I surrealisti hanno sempre indicato i loro predecessori in Sade, Lautréamont, Rimbaud, Bosch, Arcimboldo, Carroll e molti altri. Breton non ha “inventato” il surrealismo, lo ha solo definito; e ha “raffinato” questa definizione per tutta la sua vita, insieme ad altri. Il surrealismo è un movimento collettivo. Non esiste un’estetica surreale. Questa è stata “inventata” dagli epigoni, che lo hanno dissezionato, a partire dall’estetica di Dalì, soprattutto dal suo periodo commerciale decadente. Ma cosa ha in comune questo “surrealismo” con Miró, Ernst, Lam, Péret, Bounour, Toyen, Štyrský, Teig, Effenberger e molti altri autentici surrealisti? Faccio parte del gruppo surrealista di Praga dal 1970 e il gruppo è ancora attivo. Mi considero un surrealista della terza generazione. Il gruppo comprende anche pittori, poeti, registi di cinquant’anni più giovani di me. L’appartenenza al gruppo non è una questione generazionale, come nel caso della maggior parte dei gruppi artistici. I membri non sono uniti dall’età, ma da un’idea. Pertanto, “diventare un surrealista” non significa nulla. Non esiste una “scuola” surrealista. O lo sei o non lo sei. Non puoi “scegliere” il surrealismo perché il surrealismo sceglie se stesso.
Hai avuto modo di scontrarti sia con la censura sovietica che con quella, più subdola, del capitalismo, per cui la libertà artistica è condizionata dai finanziamenti. Se per assurdo, in questo momento, dovesse nascere un Libero Stato Surrealista, e tu ne venissi nominato consulente tecnico, che suggerimenti daresti al nuovo governo?
Domanda stupida. Il surrealismo non ha mai cercato potere politico.
A chiusura del tuo Decalogo si legge che l’artista non deve mettere mai la sua opera al servizio di qualcosa di diverso dalla libertà. E la libertà di espressione in che condizioni si trova nel 2021?
La questione non è tanto legata alle condizioni esterne, ma all’atteggiamento interiore. Per esempio, la censura nella Repubblica Ceca è finita nel 1989, ma molti di quelli che al tempo chiedevano la libertà di parola, oggi sono al servizio del commercio e della pubblicità. Quelli che incolpavano i propri padri di servire un regime totalitario, ora tranquillamente girano spot pubblicitari, e si giustificano come i loro padri nel regime precedente: ho una famiglia e devo supportarla economicamente. Ma la libertà è invisibile. Girare pubblicità è come girare un film celebrativo per la 15esima convention del Partito Comunista.
I tuoi film sono sempre stati un punto di riferimento per noi, si può dire che ci siamo riuniti in un collettivo artistico grazie ai tuoi film, erano una sorta di parola chiave, un segno di riconoscimento. Ci puoi indicare alcuni dei tuoi registi preferiti?
Méliès, Bouwers, Frigo, Buňuel, Fellini, Lynch, Čechách, Karel Vachek, Luděk Šváb, David Jařab.
Alla tua carriera cinematografica hai affiancato una ricchissima attività artistica a tutto tondo. In particolare, ci piacerebbe approfondire la tua produzione di collage. Ne realizzi ancora?
Sì, continuamente. Quest’anno (2020 ndr) ho pubblicato il libro “A Unified Stream of Thought alias Life is Born in My Mouth”, sottotitolato “A Great Adventure Novel”. La maggior parte del libro è un romanzo collage. Allo stesso tempo, sto preparando un altro libro, “Švank-meyers Blderlexikon”, che è una specie di dizionario pittorico del mondo alternativo. Ho iniziato a incollare i primi collage di questo volume all’inizio degli anni Settanta. Ma a quel tempo era impensabile che potesse essere pubblicato come libro, quindi ho convertito dieci collage di zoologia in un’acquaforte e poi ho scritto un commento alla maniera di Brehm su due stampe. Mi sto ora preparando a pubblicare l’intero pacchetto di questi collage: architettura, antropologia, botanica, cartografia, geologia, tecnologia, zoologia e sto scrivendo un commento “scientifico” su ciascuno. Ma non dovrebbe uscire fino al 2022.
Nello scorso numero della nostra rivista abbiamo proposto ai lettori un “Censimento degli amici immaginari”, chiedendo a ciascuno di raccontare la propria esperienza. Non possiamo fare a meno di chiederti se anche tu, da piccolo, hai avuto a che fare con un amico immaginario. Sarebbe un onore inserirlo nel nostro censimento!
Nonostante io fossi un introverso da bambino, ed evitassi i miei amici, non ho mai avuto un amico immaginario. Ma ho un teatrino delle marionette che mio padre mi regalò per Natale quando avevo otto anni. È stato uno degli incontri più importanti e che hanno dato una definizione alla mia vita. Questo teatrino mi ha permesso di ripetere scenari di vita reale ma con un finale diverso, che fosse per me più accettabile.
Hai più volte sottolineato l’importanza che il mondo onirico e la scrittura automatica ricoprono nel tuo lavoro cinematografico. In che modo questi due elementi contribuiscono a definire la struttura narrativa delle tue storie?
Fin dal principio i miei film sono stati dominati dalla logica del sogno. Nonostante io abbia una sceneggiatura tecnica redatta prima di iniziare a girare, molto difficilmente la consulto durante le riprese. Improvviso. Ma te lo puoi permettere solo se hai tutto il resto del film in testa e se ci sei immerso completamente, 24 ore al giorno. Giro delle varianti ad alcune scene e poi la versione finale viene create in sala di montaggio. Il montaggio è lo strumento più fantastico di un film. Sei qui, poi tagli, e sei da un’altra parte. Puoi farlo solo nei sogni. In poche parole, quando giro penso solo al montaggio.
E invece, quando elabori un soggetto, pensi già al ruolo che avrà la componente sonora?
Faccio molta attenzione al suono, ma lo creo dopo il montaggio. Ho un bravissimo tecnico del suono con il quale ho lavorato nella gran parte dei miei film e con il quale registro tutti i suoni necessari per il mixaggio. Non uso suoni da archivio. Registriamo tutti i suoni, anche i più semplici, come quello di quando ci si pettina i capelli, e quindi aggiungiamo un livello immaginativo mixando, con una proporzione “irreale”, i singoli suoni con quelli che ricordo dai miei sogni.
Da Jídlo (Food) a Zamilované maso (Meat Love) a Možnosti dialogu (Dimensions of Dialogue): spesso nei tuoi film l’atto di nutrirsi non viene visto come un’esperienza piacevole, appagante, ma come un atto dovuto di sopravvivenza, se non addirittura una forma di prevaricazione. Perché sei così ossessionato dal cibo?
Quando guardi alle persone mentre mangiano hai un’impressione di aggressione assoluta, a volte erotica. Quelle persone sono consapevoli che stanno distruggendo qualcosa per sempre. Mangiare è il simbolo perfetto dell’aggressività di questa civiltà. Ho una personale relazione idiosincratica con il cibo. Sono stato un bambino con un’avversione per il cibo. I miei genitori erano disperati. Mi hanno imbottito di ferro, olio di pesce e altre schifezze del genere. Mi hanno mandato a dei “campi di ingrasso”. Alla fine, ero così debole che sono finito in sedia a rotelle e non mi hanno nemmeno accettato a scuola. Questa relazione “infantile” con il cibo si riflette spesso nei miei film.
Con il tuo ultimo film, Hmyz (Insect), hai annunciato il tuo ritiro dall’attività cinematografica. Ma se avessi a disposizione una macchina del tempo e un budget illimitato, c’è un progetto che ti sta a cuore, che avresti voluto realizzare, ma non ci sei mai riuscito?
Non ho questo genere di frustrazione. Non ho ancora chiuso con la regia, ma solo con quella di film. Non ho mai pensato di essere solo un regista. Seguo il motto surrealista che dice che c’è solo una poesia ed è indifferente il mezzo con cui la comprendiamo.