C ome si ridistribuiscono le forze in un edificio quando crolla un pilastro? Avendo sufficienti dati a disposizione, un ingegnere o un fisico saprebbero rispondere. È molto più improbabile, invece, che qualcuno abbia un’idea delle conseguenze che si producono quando un elemento viene sottratto da un sistema tecnologico e sociale, che non si affida a leggi della fisica ma alla partecipazione spontanea di miliardi di persone in tutto il mondo.
Lunedì 4 ottobre, un problema tecnico ci ha regalato un esperimento forse irripetibile: i social media di Facebook Inc. (l’azienda prossimamente nota come Meta), cioè Facebook, Instagram, Messenger e WhatsApp, sono stati irraggiungibili per circa sei ore in tutto il mondo. Tanto è bastato a diversi altri social media per registrare sensibili incrementi nel tempo di utilizzo: Sensor Tower ha rilevato un +23% per Snapchat rispetto alla settimana precedente, +18% per Telegram (il cui fondatore ha anche detto di aver acquisito 70 milioni di nuovi utenti in un giorno), +15% per Signal, +11% per Twitter, 2% per TikTok.
Paradossalmente, lo scarto più interessante è l’ultimo, il più basso. In termini di funzionalità, Snapchat, Telegram e Signal possono essere considerate alternative alle altre app di messaggistica, e Twitter non è incomparabile a Facebook. A quanto pare, invece, TikTok fa storia a sé: mentre le app concorrenti sono vasi almeno in parte comunicanti e l’utenza si sposta dall’una all’altra secondo le contingenze, il social di origini cinesi è una camera a tenuta stagna. Il 4 ottobre nessuno sembra aver pensato “se non posso usare Instagram, userò di più TikTok”. Sarebbe molto interessante sapere cosa accadrebbe a parti invertite, se a diventare inaccessibile per sei ore fosse TikTok, ma non c’è ingegnere o fisico che possa predirlo.
In cinque anni TikTok ha registrato una crescita rapidissima ed è entrato di recente nel ristretto circolo di social che contano oltre un miliardo di account attivi, nonostante sia stato bloccato in India e abbia dovuto rinunciare così a un bacino di utenza enorme. Per raggiungere lo stesso traguardo, nel 2012 e nel 2018, a Facebook e Instagram di anni ne erano serviti otto. Certo, erano altri tempi: altre connessioni, altri device, altre abitudini.
Mentre le app concorrenti sono vasi comunicanti e l’utenza si sposta dall’una all’altra secondo le contingenze, TikTok è una camera a tenuta stagna.
Erano anche tempi in cui il potere economico e l’attrazione magnetica di Facebook sembravano irresistibili. Un miliardo di dollari qui, diciannove lì, e le concorrenti Instagram e WhatsApp erano state fagocitate, rispettivamente nel 2012 e nel 2014. Quando Snapchat aveva iniziato ad alzare la testa, nel 2016, era stato sufficiente che Instagram ne copiasse le Stories e i messaggi “a scadenza” per metterla in un angolo. Sembrava una dinamica necessaria: se Instagram inizia a offrire le stesse funzionalità di Snapchat, e in più ha già le proprie (i post permanenti), l’utente sceglierà Instagram. Tornerà su Snapchat il giorno in cui Instagram smetterà di funzionare, come confermano i dati del 4 ottobre. Palline che scivolano lungo piani inclinati, leggi immutabili della natura.
E invece nì. Ad agosto 2020, per contrastare l’ascesa di TikTok, Instagram ne ha copiata la funzione principale, introducendo i video Reels, ma stavolta l’effetto non è stato lo stesso. La crescita di TikTok non si è fermata. Il consenso comune è che i Reels di Instagram non offrano altrettanta libertà di editing all’interno dell’app e che il vero irreplicabile vantaggio competitivo di TikTok sia l’algoritmo, capace di tenere l’utente incollato allo schermo somministrandogli video sempre nuovi perfettamente calibrati sugli interessi espressi in precedenza. “Nì” e non “no”, dunque, perché la scelta degli utenti di continuare a iscriversi a TikTok piuttosto che a Instagram è stata inattesa, per com’erano andate le cose in passato, ma non irragionevole: forse avevamo solo una mappa troppo poco dettagliata del piano inclinato sul quale si muovevano le palline.
Quando Snapchat a novembre 2020 ha lanciato Spotlight, una funzione simile al feed video di TikTok, la giornalista di Axios Sarah Fischer ha messo a confronto le funzionalità offerte dalle diverse piattaforme social. Ha rilevato che ormai diverse non sono poi tanto: le possibilità di utilizzo sono sempre più simili (messaggistica, dirette video e stories sono le più diffuse) e così anche gli incentivi economici per i creator (con “mance”, condivisione di ricavi, etc).
Nonostante la rincorsa serrata, come abbiamo visto, ciascuna compagnia e ciascuna piattaforma investe di più o con più successo solo su alcune delle feature che mette a disposizione: i menù sembrano tutti uguali, ma lo stesso piatto ha un sapore diverso in uno o nell’altro ristorante. E il sapore non dipende solo dal cuoco o dalla cura del locale, ma dalla clientela con cui ci troviamo a condividere lo spazio.
La composizione anagrafica degli utenti di un social è un fatto da interrogare, più che una spiegazione.
È luogo comune che su TikTok l’utenza sia composta da ragazzini, a differenza del più maturo Facebook. Lo si sente ripetere spesso ma è un fatto da interrogare, piuttosto che una spiegazione utile a capire qualcosa. Per esempio, lo si potrebbe accostare al malloppo di documenti e rivelazioni pubblicati prima dal Wall Street Journal, sotto il titolo-ombrello di Facebook Files, e poi da un consorzio di altre 17 testate statunitensi come Facebook Papers. Tra gli elementi più interessanti, hanno rivelato quanto poco Facebook e Instagram abbiano a cuore la salute e il benessere psicologici dei propri utenti più giovani, in particolare delle ragazze.
Da ricerche durate tre anni era emerso che quasi un terzo delle adolescenti che provavano disagio verso il proprio corpo sentivano questo disagio aggravarsi a causa di Instagram. Si può discutere della lettura da dare a questo dato e delle soluzioni efficaci a un problema del genere: se emergesse, com’è probabile, che quelle stesse ragazze si sentano a disagio in spiaggia, difficilmente chiederemmo agli stabilimenti balneari d’intervenire. Ma sarebbe comunque un tema da affrontare. La compagnia di Mark Zuckerberg invece non ha fatto trapelare i dati, fuoriusciti solo grazie alla whistleblower Frances Haugen, e non ha preso iniziative in materia.
In un contrappasso esemplare, gli stessi Papers rivelano quanta preoccupazione ci fosse in azienda per la perdita di utenti giovani su Facebook a vantaggio degli altri social. Persino Instagram ha problemi: i teenager statunitensi passano su TikTok una quantità di tempo tra il doppio e il triplo rispetto al tempo che passano su Instagram, e l’app che preferiscono per comunicare con gli amici è proprio Snapchat. Per giunta, secondo i dati di ReputationUp, le piattaforme dove più utenti hanno subito cyberbullismo nel 2020 sono un’altra volta Instagram (42%) e Facebook (37%). La questione riguarda anche TikTok, ma la percezione comune è senza dubbio quella di un ambiente più allegro e spensierato, dove l’algoritmo non premia le interazioni in un modo che finisce per favorire la litigiosità.
Ma è difficile per Zuckerberg rassegnarsi al fatto di non riuscire ad attrarre gli adolescenti sulle sue piattaforme e accontentarsi di avere miliardi di utenti dai 20 anni in su, perché includere la platea più ampia possibile significa offrire agli inserzionisti, cioè alla principale fonte di introiti dei social media, la piattaforma più efficace ed efficiente su cui pubblicare i propri annunci. E perché agli azionisti deve promettere una crescita virtualmente infinita: a costo di ricominciare da capo su un metaverso parallelo alla realtà materiale e alla stessa rete Internet.
Includere la platea più ampia possibile significa offrire agli inserzionisti, cioè alla principale fonte di introiti dei social media, la piattaforma più efficace su cui pubblicare i propri annunci.
Il drenaggio dei giovani verso le altre piattaforme è stato appunto al centro dell’ultimo messaggio agli azionisti di Zuckerberg, la settimana scorsa, dopo l’ultima relazione trimestrale sui risultati aziendali. “Nell’ultimo decennio”, ha detto Zuckerberg, “poiché il pubblico che utilizza le nostre app si è ampliato così tanto e ci concentriamo sul servizio a tutti, i nostri servizi sono stati selezionati per essere i migliori per la maggior parte delle persone che li utilizzano, piuttosto che specificamente per i giovani adulti”. Per andare incontro all’utenza adolescente, ha detto Zuckerberg, e per competere direttamente con TikTok, Facebook si concentrerà sui già citati Reels. Ha aggiunto che “questo cambiamento richiederà anni, non mesi, per essere portato a compimento”. Giorni, non mesi, dopo questo comunicato, Zuckerberg ha annunciato il cambio di nome dell’azienda, in una mossa generalmente letta dai commentatori come un tentativo di distogliere l’attenzione mediatica dai Papers.
Se in filigrana riusciamo a vedere l’inadeguatezza dei piani di Facebook per recuperare attrattività tra i teenager, è anche grazie alle rivelazioni di Haugen. Come ha ben sottolineato Philip Di Salvo su Domani, l’apporto dei whistleblower è essenziale e coraggioso, ma non è qualcosa su cui si possa fare affidamento per risolvere in via permanente il problema dell’opacità di corporation che ormai hanno una presa saldissima sulle nostre vite. Per esempio, il fatto che TikTok non sia ancora stata oggetto di scandali non significa che la compagnia madre ByteDance abbia un’attenzione materna per il benessere degli utenti. E probabilmente è solo per via del livello di indagine giornalistica senza pari a cui è sottoposta Facebook, che nel suo edificio si aprono più spesso delle crepe e possiamo finalmente guardare all’interno.
A breve, Facebook Inc. cambierà nome in Meta, con l’obiettivo di rilanciarsi e comunicare una nuova prospettiva: l’azienda di Zuckerberg non sarà più concentrata sui social media ma sulla costruzione di un grande spazio virtuale connesso, il “metaverso”. Nelle intenzioni di Facebook e degli altri colossi della tecnologia che stanno cercando di realizzarlo, si tratterà di un mondo parallelo nel quale gli utenti si muoveranno con un proprio avatar e dove potranno lavorare, fare acquisti (reali e virtuali), studiare, socializzare, giocare e così via, senza dover uscire di casa. Un progetto avveniristico che richiederà tempi lunghi, difficilmente preventivabili. Intervistato da Reuters il 2 novembre, il vicepresidente con delega ai Global Affairs e alla Comunicazione di Facebook, Nick Clegg, ha detto che potrebbero volerci anche quindici anni.
Ha detto anche un’altra cosa significativa, parlando di tutela della sicurezza e della privacy degli utenti del metaverso: “Stavolta potremo lavorare con gli accademici, con i legislatori e con i regolatori del mercato, collaborando per introdurre le protezioni prima che la tecnologia sia matura”. Perché solo “stavolta”? Fino a oggi, la compagnia non si è mostrata incline a garantire trasparenza e collaborazione nei confronti di quegli stessi soggetti, nei modi già visti e arrivando per esempio a bannare dalla piattaforma un gruppo di ricercatori della NYU che raccoglieva dati sulle inserzioni di propaganda politica su Facebook. La promessa di Clegg sul metaverso potrebbe persino essere mantenuta dall’azienda, ma sembra implicare che i social media invece saranno, oltre che un business secondario, anche una tecnologia obsoleta e un ambiente sociale e culturale destinato al declino. Una battaglia persa.