C he cos’è questa musica per un anno? Zaffiri, all’epoca della composizione, presentava il lavoro così: “Musica elettronica per la sonorizzazione di ambienti. È musica nel tempo, concepita per la durata di un anno. L’evento sonoro si trasforma impercettibilmente, ma continuamente, in relazione ai mesi, ai giorni, alle ore, ai minuti. Ogni istante ha la sua musica irripetibile che si fonde con la luce e con l’aria dell’ambiente. È una presenza. (…) È una musica che risponde alle necessità dell’uomo contemporaneo, che nella visita a un’esposizione o a un museo, assorbe esperienze multiple in un discorso attivo e adeguato alle esigenze culturali del nostro tempo”.
Leviamoci il peso: impossibile non pensare a Brian Eno che teorizza la sua Discreet Music da un letto d’ospedale, quando non potendosi mettere in piedi per alzare il volume di un disco in riproduzione, lascia che il suono si mescoli con lo spazio circostante e pone le basi per la rivoluzione dell’ambient. Zaffiri però scrive queste parole nel 1968.
Enore Zaffiri, scomparso il 29 ottobre del 2020, nasce a Torino nel 1928, si diploma al conservatorio della città e si specializza in quello di Parigi. Interessato al lavoro di rivoluzionari come Stravinskij, Schoenberg e Varèse, si avvicina poi alla musica elettronica di Berio e Maderna. Sarà quella la sua strada d’elezione. Nel 1964, oltre ad accostarsi all’uso degli oscillatori, fonda lo SMET (Studio di Musica Elettronica di Torino), insieme a Roberto Musto e Riccardo Vianello; inizia a frequentare musicisti come Pietro Grossi e Vittorio Gelmetti, ma anche artisti di diversa estrazione come il pittore Sandro De Alexandris e i poeti Arrigo Lora Totino ed Edoardo Sanguineti.
Zaffiri muove alla ricerca una nuova prospettiva musicale, in cui il tempo si estende all’inverosimile e viene controllato dalla matematica e dalla geometria
È nel 1968 che allo Studio di Formazione Estetica, fondato da Zaffiri (ormai anche scultore) con De Alexandris e Lora Totino per “un esperimento di sintesi estetica tra le sintassi musicali, poetiche e visive”, viene affidata la sonorizzazione di una mostra a Monaco di Baviera. Zaffiri comincia a lavorare intorno all’idea di musica di ambiente: attraverso l’elettronica, muove alla ricerca una nuova prospettiva musicale, in cui il tempo si estende all’inverosimile e viene controllato dalla matematica e dalla geometria. Una prospettiva basata sui principi dello strutturalismo e derivata dalla geometria euclidea, che determina i vari parametri di suono come pure le dimensioni formali e spaziali delle sue composizioni.
“Questo progetto, basato su un ciclo di 360 giorni, è stato concepito come una possibile colonna sonora per ambienti. L’intero evento musicale è stato strutturato usando i 360 gradi di un cerchio, diviso in dodici parti, come il quadrante di un orologio. Seguendo lo stesso principio, ho deciso che l’intera circonferenza corrisponde alla durata di un’ora, e l’intervallo tra ogni punto a cinque minuti. La frequenza di base è stata scelta prendendo in considerazione l’anno 1968, quindi la frequenza di 1968 Hz, che è stata attribuita ai punti del diagramma corrispondenti alle ore zero (12) e 6. Le frequenze corrispondenti agli altri dieci punti sono state ottenute aggiungendo o sottraendo 360 Hz alla frequenza di base”.
Questo è solo l’inizio e le indicazioni continuano con estrema precisione, ma la poetica di Zaffiri è meno rigida di quanto possa sembrare e le note si concludono con un’avvertenza: “Questo progetto deve essere considerato soltanto un tipo di organizzazione di partenza del suono, sulla quale ognuno è libero di operare attraverso elaborazioni personali aggiuntive”.
Dopo la parte teorica c’è anche la messa in opera del lavoro, ovviamente non realizzato di fatto per un intero anno di musica ma solo per alcune giornate, e di cui sono state effettivamente registrate e cristallizzate un paio di ore – un’ora è stata meritoriamente pubblicata nel 2008, a 40 anni di distanza dalla registrazione, dalla sempre ottima etichetta milanese Die Schachtel e nel 2017 una nuova edizione di Musica per un anno curata da Andrea Valle è uscita per Mazagran Records.
Si tratta di un lavoro fatto a mano, analogicamente, con nastri misurati e tagliati pezzo per pezzo
Si tratta di un lavoro fatto a mano, analogicamente, con nastri misurati e tagliati (“nastrini” li chiama Zaffiri, ora conservati a Firenze) pezzo per pezzo, glissando eseguiti a mano con un oscillatore sinusoidale: un lavoro di sei mesi per registrare un’ora di materiale lavorando tutte le sere, con due registratori a bobine Tandberg a quattro piste, quattro oscillatori (un Philips e tre fatti costruire appositamente), un generatore di rumore bianco e un filtro per regolarlo e un frequenzimetro.
“Era un lavoro fatto con molta emozione, per me non era un fatto tecnico-acustico, ma musicale. Spontaneo, anche, molto basato sulle intuizioni, perché al di là di tutte le teorizzazioni non è che avessi chissà quali basi scientifiche”. Zaffiri si serve anche di un eco a nastro, per generare l’effetto di riverbero su alcuni suoni singoli. “Dà profondità, colore: sono un po’ romantico”.
Il lavoro viene presentato per la prima volta a Firenze, al palazzo dei congressi, in occasione di una rassegna alla quale è invitato anche Stockhausen: viene fatto ascoltare solo un breve estratto in mezzo agli altri concerti. Zaffiri “espone” comunque il grafico del progetto, lungo circa sei metri. Non è in ogni caso un’opera pensata per l’esecuzione pubblica, quanto, di nuovo, come musica di ambiente. “La vedo proprio come l’armonia delle sfere, suoni che ci arrivano da lontano. Ma l’ho pensato dopo, allora non ci pensavo a questo. […] È come la luce del giorno che varia, così sono queste variazioni di suoni. Quasi non percepiamo la differenza però la luce del mattino non è la luce di mezzogiorno e non è quella della sera. Allo stesso modo c’è una variazione continua ma lenta di questi suoni come quella della luce che gradatamente si trasforma o cambia di intensità”.
Una figura il cui lavoro è stato spesso accostato a Musica per un anno è quella di LaMonte Young: lunghi bordoni di suono, impercettibili trasformazioni di suono, piccolissimi movimenti, vibrazioni… Il tutto, ovviamente, senza che Zaffiri conosca le più o meno coeve sperimentazioni dell’americano.
Negli anni Settanta Zaffiri si innamora del sintetizzatore e cambia completamente approccio. Vuole che questa musica un po’ da laboratorio venga trasferita dal vivo, ai concerti. Riesce con modalità rocambolesche a farsi portare dall’Inghilterra un Synthi A (versione portatile dello storico VCS3, il primo sintetizzatore modulare) e decide allora di abbandonare lo strutturalismo e tutti quei numeri in favore di un approccio più umano, più caldo, “una cosa viva”. Seguono lavori per voce e synth (tra cui i Cinque Paesaggi su testi di T.S. Elliott), progetti vicini all’improvvisazione e all’aleatorietà di Cage, lavori teatrali d’avanguardia messi in scena in luoghi talvolta assai distanti dai Conservatori, come il Beat ’72 di Roma (uno spettacolo per musica e immagini dal significativo titolo Teleorgia).
Nei decenni successivi, Zaffiri si dedicherà sempre più alla computer music e anche alla computer art, senza trascurare ulteriori progetti come la realizzazione di film sperimentali e policromie sonore. Nel 2009, a 81 anni, ha realizzato un disco collaborativo, Through the Magnifying Glass of Tomorrow, con gli impro-noiser torinesi (nonché amici dei Sonic Youth) My Cat Is an Alien.
Fedele alla sua vocazione divulgativa (Zaffiri ha insegnato per tutta la vita), nel corso degli anni ha digitalizzato tutta la sua produzione sia audio che video che è ora archiviata presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della sua città.
Questo articolo è solo un’introduzione – anche perché, tranne rarissime eccezioni, le opere che abbiamo citato non sono visibili o ascoltabili se non andandosele a cercare negli archivi dell’Università – e tocca appena la punta dell’iceberg della produzione sterminata (e multimediale) di un artista ancora in buona parte da riscoprire. Lontano dalle due grandi città e dalle loro accademie, meno noto e celebrato dei Berio e dei Maderna, meno istituzionale e meno popolare, Enore Zaffiri ha potuto lavorare con un assoluto senso di libertà e di originalità; ben oltre i confini di quel contesto accademico al quale la vulgata non trova di meglio che relegarlo.
“Non so se quello che lascio nella mia opera rientri nella sfera di opere che segnano la fine di un’epoca, cioè il tramonto della civiltà occidentale, oppure, forse, la speranza di una nuova rinascita”. Enore Zaffiri, 2011.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata originariamente sul sito Pixarthinking; l’autore desidera ringraziarne l’editor Mattia Coletti.