P er intraprendere il nostro progetto di costruzione di esseri viventi che rispondano alle “leggi” della biologia, e allo stesso tempo non abitino sulla Terra, è necessario iniziare con una definizione di cosa sia un essere vivente. (…) Descrizioni o definizioni di cosa sia “vita” sono presenti in tutti i libri di biologia, ma anche nei sussidiari, nei manuali, nei trattati: ognuna ha un punto di vista differente, un approccio obliquo o diretto, una visione idiosincratica della vita stessa. Purtroppo gli unici esseri viventi che conosciamo abitano con noi su questo pianeta, e da questi dobbiamo partire.
(…) Il punto fondamentale nello studio della vita è stato storicamente uno solo: il mondo vivente è – o ha – qualcosa di speciale rispetto al non vivente? Oppure la sua nascita, lo sviluppo e la storia non sono altro che conseguenze ovvie e quasi scontate delle “proprietà” della materia? Esiste una “forza vitale” che informa di sé ogni individuo e che non è invece presente nelle rocce, nei ruscelli e nelle stelle? Oppure semplicemente la vita è sorta dal non vivente perché nelle giuste condizioni gli atomi si connettono in modo tale da costruire strutture autonome, diverse dai materiali di partenza, ma non certo suffuse di misteriosi afflati, spiriti o forze? Nel passato nessuno metteva in dubbio che gli esseri viventi possedessero un qualche tipo di forza (definita di volta in volta vis viva o vis vitalis, da cui deriva la dottrina del vitalismo) che li distingueva dal non vivente.
La forza poteva essere infusa dall’esterno, dalla o dalle divinità, o essere addirittura una qualità propria solo del vivente, che distingueva uomini, polpi e alghe dalle rocce, dal vento e dagli oceani. Da dove provenisse, non è mai stato chiaro. Non era neppure una questione di dimensioni o complessità, dato che il sistema climatico o la galassia sono più grandi e forse più complessi di alcuni esseri viventi. Il fatto era però che – esclusa la qualità proveniente dall’esterno – l’unico modo per seguire il vitalismo era presupporre che la vita non seguisse le leggi della fisica e della chimica, e che la forza vitale fosse fuori dal dominio delle leggi conosciute, o forse una nuova legge ancora da scoprire.
Il punto fondamentale nello studio della vita è stato storicamente uno solo: il mondo vivente è – o ha – qualcosa di speciale rispetto al non vivente? Oppure la sua nascita, lo sviluppo e la storia non sono altro che conseguenze ovvie e quasi scontate delle “proprietà” della materia?
La vana ricerca di questa “legge vitale” ha portato infine al dubbio sulla sua esistenza. Il dibattito proseguì a lungo, e ancora nel XX secolo l’embriologo Hans Driesch poteva essere definito vitalista. Tutti gli studiosi sono invece oggi d’accordo che questa posizione non abbia una base scientifica robusta. Anche perché il vitalismo presupporrebbe un’altra serie di proprietà degli esseri viventi che l’evoluzionismo darwiniano e le sue successive elaborazioni hanno totalmente distrutto, come lo slancio della vita verso un determinato scopo, la lotta verso la perfezione o l’esistenza di una scala che va dagli esseri più semplici e primitivi a quelli più complessi, intelligenti e vicini a Dio.
Perché questa mini-introduzione storica? Perché, a modo loro, i vitalisti un po’ di ragione ce l’avevano. Quando cerchiamo di definire il vivente ci rifacciamo sempre a esempi concreti: una sequoia, un batterio, un Corallochytrium, un essere umano o un pesce luna. Questi esseri della vita hanno le caratteristiche, perché la stessa vita non è una “cosa in sé”, ma una proprietà o una serie di proprietà collegate, possedute da alcuni complessi estremamente grandi di molecole. Proprietà che, ribadiamo, nascono dalle caratteristiche della materia. Dimenticata la vis vitalis, oggi ci si concentra quindi sul vivente come conseguenza delle interazioni tra materia e ambiente – energia in particolare.
Passo successivo: è la vita un esito obbligato, una conseguenza inevitabile, oppure tutto ciò che è accaduto è stato un estremo colpo di fortuna ed è avvenuto solo sulla Terra? Secondo la prima ipotesi, dovunque si possano incontrare elementi chimici e fonti di energia, non ci sono motivi per cui non possa sorgere la vita. Se la vita è inevitabile, significa che le speranze di trovarla su altri pianeti sono piuttosto alte: prima o poi, qualche struttura che potremmo definire vivente la troveremo. Magari faremo fatica a riconoscerla e a descriverla. Potrebbe avere proprietà molto diverse da quelle che conosciamo, ma con una prospettiva abbastanza ampia la faremmo rientrare nel vivente. Se invece la vita è un colpo di fortuna del nostro pianeta, possiamo anche smettere di cercare segni della sua presenza su altri corpi celesti. In realtà la convinzione della maggior parte di biologi e astrobiologi è che la vita in sé sia un fenomeno relativamente frequente nell’universo, mentre a essere piuttosto rara sia la possibilità di una vita complessa o addirittura intelligente: è la cosiddetta ipotesi della Terra rara. L’intuizione è tutt’altro che peregrina e ha numerosi appoggi. Si parte sempre dall’unico esempio di vita che abbiamo a disposizione, quella terrestre.
La vita è un esito obbligato, una conseguenza inevitabile, oppure tutto ciò che è accaduto è stato un estremo colpo di fortuna ed è avvenuto solo sulla Terra?
Gli esseri viventi dalla struttura piuttosto semplice, dicono Ward e Brownlee, sono presenti praticamente ovunque sulla superficie terrestre, mentre altre forme di vita sono in numero inferiore – sia come specie sia come individui – e hanno bisogno di precondizioni nello spazio circostante. Prima di tutto la presenza del pianeta in una regione galattica abitabile, con stelle dotate di acconcia metallicità. Poi una densità stellare non altissima, che protegga la vita da esplosioni o altri fenomeni che accadono nelle stelle vicine. Poi una stella e un sistema stellare con requisiti quasi speciali, come alcuni pianeti di grandi dimensioni, Giove e Saturno nel nostro sistema solare, che stabilizzino le orbite delle comete e di altri possibili “pericoli” per il pianeta abitato. E soprattutto la presenza di un pianeta roccioso non dissimile dalla Terra. I proponenti presumono che su pianeti gassosi (Giove e Saturno nel sistema solare sono i più evidenti, ma ci sono anche Urano e Nettuno) la vita non si possa sviluppare. Vedremo come anche il pianeta stesso debba essere dotato di particolari attributi per poter ospitare la vita. Nonostante il fascino – o la disperazione? – di un’ipotesi come quella della Terra rara, altri ribattono che stelle, pianeti e regioni abitabili sono così frequenti nella galassia che in un modo o nell’altro ci devono essere angoli del cosmo in cui la vita, anche quella intelligente, possa esistere.
Quest’ultimo approccio vede il nostro pianeta non come un corpo speciale, ma uno dei tanti presenti nell’universo: un pianeta medio, in un sistema planetario dalla struttura non particolare, in una parte della galassia come tante altre. Una specie di aurea mediocritas cosmica. Diamo quindi per scontato che la vita sia, se non inevitabile, almeno estremamente frequente nell’Universo. Il dibattito sulla vita si sposta anche su altri terreni, di nostro interesse per la definizione e per come ne tracceremo la storia e la presenza nei capitoli successivi. Siamo certi che l’impostazione dell’odierna ricerca scientifica sia corretta? Siamo cioè sicuri che frammentando fino alla più piccola molecola si arrivi a capire “il segreto della vita”? E che soprattutto riusciremo a riconoscere un essere vivente, se lo vedessimo altrove, con gascromatografi, microscopi e PCR? Non è meglio vedere la vita come un tutt’uno? Il primo approccio è definito riduzionismo, il secondo olismo. Possiamo affermare che il riduzionismo ha dei limiti evidenti, così come l’olismo, e che l’unione dei due approcci, o il loro utilizzo alternativo, possa essere il modo migliore per studiare il vivente. Dando così per scontato che la cellula funziona al suo meglio solo se è intera, e che per capire la sequenza delle molecole di cui sono fatte le proteine non si può non estrarle e determinare i singoli elementi.
Siamo certi che l’impostazione dell’odierna ricerca scientifica sia corretta? Siamo cioè sicuri che frammentando fino alla più piccola molecola si arrivi a capire “il segreto della vita”?
Torniamo alla definizione di vita. Dopo secoli di tentativi, alcuni biologi sono arrivati alla conclusione che non esista una definizione semplice delle proprietà che caratterizzano la vita; anzi, che non esista proprio una definizione, corretta o meno. Forse, come affermano Cleland e Chyba, non è neppure filosoficamente possibile arrivare a una definizione di vita che metta tutti d’accordo. In un modo o nell’altro, però, un recinto in cui racchiudere gli alieni dobbiamo trovarlo. L’impostazione che userò è racchiudere i viventi in un’apposizione di varie particolarità differenti, un accumulo che non è mai finito e che potrebbe essere totalmente rivisto, se incontrassimo qualcosa di realmente nuovo su un pianeta a qualche decina di anni luce dalla Terra. Da certi punti di vista, definire e delimitare l’ambito della vita è come costruire un’equazione di Drake aggiungendo un elemento all’altro: alcuni sono noti, altri poco conosciuti. Quale di questi sia indispensabile e quale accessorio sta ai gusti di chi scrive, o alla teoria generale che informa il proprio metodo di conoscenza, anche perché la vita può essere giudicata con approcci molto differenti, niente affatto esclusivi. Proverò quindi a elencare informalmente le definizioni di vita senza farmi prendere dalla disperazione filosofica di Cleland e Chyba.
(…) Almeno sul nostro pianeta, gli atomi che compongono i viventi sono relativamente pochi, una scelta particolare rispetto al resto degli atomi nell’universo e in particolare sul pianeta Terra. Gli elementi più importanti che compongono la vita sono: carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, zolfo. Con l’aggiunta di altri come sodio, calcio, potassio e fluoro. E tracce di altri ancora: ferro, iodio, magnesio, zinco, selenio, rame, manganese, cromo, molibdeno. Questi atomi si combinano in innumerevoli strutture, dalle più semplici ad altre estremamente complesse. Le interazioni tra le singole strutture e gli atomi che le compongono, mosse dalla necessaria energia assorbita dall’esterno, sono anch’esse straordinariamente articolate e contribuiscono all’enorme varietà di forme viventi sulla Terra. L’approccio chimico, per tornare a noi, ci dice che tutte le forme di vita sono costituite dagli elementi che abbiamo elencato sopra. È quindi possibile che combinare carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto sia l’unico modo per avere la vita? O ancora, come è stato proposto, che i determinanti della vita stessa siano solo alcune molecole speciali, cioè particolari combinazioni di atomi?
È una delle ipotesi, ma forse sarebbe oltremodo sciovinistico pensarla così. Oppure, guardando il tutto allo specchio, si potrebbe dire che qualsiasi pianeta che abbia una certa percentuale di carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo e zolfo, e le condizioni adatte, deve ospitare la vita. Vista la frequenza nell’universo di questi elementi chimici, si potrebbe arrivare a dire che la vita è praticamente ovunque, e andare contro l’ipotesi della Terra rara. Quest’approccio è però limitato e ha un grave difetto, poiché non riconosce come viventi forme composte da atomi differenti da quelli elencati sopra, forme che non esistono sulla Terra ma non si possono escludere altrove.
È possibile che combinare carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto sia l’unico modo per avere la vita? O ancora, come è stato proposto, che i determinanti della vita stessa siano solo alcune molecole speciali, cioè particolari combinazioni di atomi?
L’esempio classico che si fa a questo punto è quello della contrapposizione silicio/carbonio. I due atomi sono relativamente vicini nella tavola periodica, e quindi le loro proprietà non sono così distanti. Vediamo prima le proprietà di quello che secondo Anna Denning è il re degli elementi, il carbonio. È il quindicesimo elemento più abbondante nella crosta terrestre e il quarto più abbondante nell’universo per massa, dopo l’idrogeno, l’elio e l’ossigeno. Ha numero atomico 6, quindi – semplificando – sei protoni nel nucleo e sei elettroni, di cui quattro nello “strato” (orbitale) più esterno. Grazie a questa struttura i quattro elettroni esterni possono essere facilmente condivisi con altri atomi, per formare un cosiddetto legame covalente, una forma piuttosto stabile di unione fra elementi. Può legarsi in questo modo ad altri atomi semplici e abbondanti (idrogeno, ossigeno, fosforo, azoto) e formare una straordinaria quantità di composti; almeno una decina di milioni sono stati descritti finora – ma il numero rappresenta una minuscola percentuale di quelli teoricamente possibili.
Il carbonio, grazie alla sua struttura atomica, ha molte proprietà particolari. Per esempio, il fatto che i legami covalenti siano stabili, ma anche molto forti rispetto ad altri tipi di legami, e allo stesso tempo elastici. L’atomo di carbonio è inoltre debolmente elettronegativo: ciò significa che cede e acquista elettroni da altri atomi abbastanza facilmente. Ma soprattutto, i composti del carbonio (definiti composti organici) hanno una buona facilità di interazione con una delle molecole più abbondanti nell’universo e sul pianeta Terra, cioè l’acqua. L’acqua (la cui formula è H2O) è una molecola polare, cioè gli elettroni che circondano i nuclei dell’idrogeno (H) e quello dell’ossigeno (O) sono distribuiti in maniera leggermente diversa: l’ossigeno li attrae più di quanto non facciano gli idrogeni e, di conseguenza, la distribuzione degli elettroni è asimmetrica. Questa asimmetria si traduce in regioni di leggera carica negativa o positiva in parti diverse della molecola. Poiché, come tutti sanno, le cariche positive e quelle negative si attraggono, una molecola come l’acqua tende ad attrarre, con un legame più debole del covalente, altre molecole che hanno una distribuzione di cariche disuguale, altre molecole polari. Molte molecole derivate dall’interazione del carbonio con altri atomi sono polari e in acqua si disperdono facilmente. Per questo l’acqua è definita un solvente universale ed entra in tutte le reazioni chimiche della cellula e non solo. Al contrario, quando un atomo di carbonio si lega ad altri dello stesso tipo, o a idrogeno, le molecole che si formano sono non polari, e in acqua tendono a rimanere assieme. Vedremo come questi due diversi comportamenti sono alla base della struttura cellulare.
L’elasticità e la versatilità del carbonio sono alla base del la vita sulla Terra. Versatile, elastico, robusto, onnipresente: sembra che il carbonio abbia tutte le caratteristiche per formare strutture complesse. Ma non solo; che sia l’unico in grado di farlo. Il fatto che si dia quasi per scontato che la vita sia basata sul carbonio ha originato l’accusa di sciovinismo del carbonio, cioè una specie di tunnel vision per cui solo questo atomo può essere la base della vita. E il silicio? Ci sono proposte che si basano su questo elemento ma hanno necessità di condizioni estremamente particolari per realizzarsi. Temperature alte o bassissime, e un solvente che non è l’acqua, per esempio. Le catene formate da atomi di silicio e idrogeno (definite silani) sono possibili, ma il legame tra i singoli atomi è più debole di quello tra quelli di carbonio. Per esempio, le catene si trasformano rapidamente in SiH4, un gas, a temperature così basse che anche i processi vitali di eventuali esseri silanici sarebbero forse lentissimi.
Per ora sono solo fantasie degli sceneggiatori di film e serie di fantascienza, ma la possibilità che esistano alieni “elettromagnetici” non è del tutto escludibile.
A loro volta i silicati (SiO4)4- (tetrossido di silicio) hanno un legame tra silicio e ossigeno particolarmente forte, che richiede temperature molto elevate per dare inizio a reazioni chimiche. Da una parte temperature basse, dall’altra molto alte. Inoltre, e questo sembra risolvere la questione, nonostante il silicio sia uno degli elementi costitutivi dei pianeti rocciosi (il 90% della crosta terrestre è costituita da silicio), il nostro pianeta non ospita nessuna “vita silicica”. Nonostante l’accusa di sciovinismo carbonico, escludiamo quindi i silani e altri composti del silicio dal novero delle possibili basi per la vita nell’universo. Ciò non significa scartare però altre possibilità per una base fisica della vita. Possibilità che per ora sono molto ipotetiche e senza grandi basi scientifiche. Immaginiamo per esempio una vita non basata sugli atomi ma su campi elettrici o magnetici. Per ora sono solo fantasie degli sceneggiatori di film e serie di fantascienza, ma la possibilità che esistano alieni “elettromagnetici” non è del tutto escludibile. Anche se costruire una loro biologia compiuta è per ora abbastanza lontano dalle possibilità degli studiosi. E inoltre, come ho spiegato nell’introduzione, mi interessa il giusto speculare su forme di vita che non siano basate su condizioni simili a quelle terrestri. Non riuscirei probabilmente a costruire scenari complessi quanto plausibili. O forse sarebbero voli pindarici che lascio ad altri.
Estratto da M. Ferrari, Come costruire un alieno, (codice edizioni, 2021).