I l DDL Zan è un disegno di legge che propone alcune modifiche alle norme vigenti per tutelare le vittime dei crimini d’odio per motivi di identità e orientamento di genere, di appartenenza etnica e di disabilità. Presentato alla Camera nel 2018, è stato approvato dalla stessa nell’aprile di quest’anno per poi proseguire il suo iter in Senato, dove è giunto lo scorso luglio. Qui la discussione, i cui toni si erano già scaldati nel corso delle audizioni del mese precedente, si è ulteriormente inasprita. I Senatori contrari all’approvazione hanno provato ad appellarsi al concetto di “natura”, sostenendo che l’introduzione della legge avrebbe alterato le – appunto – differenze naturali tra l’uomo e la donna. È il caso della Senatrice Faggi, esponente della Lega, che nell’ambito del dibattito ha affermato che “Dio non ci ha voluto interscambiabili”.
A ben guardare, ci appelliamo a una presunta naturalità delle nostre azioni più o meno quotidianamente e su questo assunto fondiamo gran parte dell’educazione, più o meno formale, che impartiamo ai più piccoli. Coi bambini, ad esempio, tendiamo a giustificare le differenze nei loro gusti affermando che è “normale” che un bambino sia attratto dai camioncini, dai mostri e dai giochi di ruolo perché naturalmente i maschi sono interessati a quelle attività che prevedono azione e movimento. Al contrario, riteniamo che sia normale per le bambine indossare abiti vezzosi (e scomodi) o divertirsi con bambole e orsacchiotti: è il loro istinto a richiamarle verso questi giochi che a loro volta rappresentano una palestra d’apprendimento per un’altra tappa, quella della genitorialità.
Anche nei confronti degli adulti tendiamo a leggere le azioni sempre alla luce dello stesso paradigma. Ancora oggi è consuetudine giustificare determinati atteggiamenti, come ad esempio la propensione al tradimento (degli uomini), o quello verso la cura e la maternità (tipicamente femminile) attraverso delle lenti biologiche. Secondo Sally Hines, autrice de Il genere è fluido? “un approccio comune sostiene che i ruoli sessuali, oggi, seguano lo stesso modello ‘naturalmente prescritto’: gli uomini cacciano mentre le donne si dedicano ai bambini”. L’evoluzione, in sostanza, ha definito per ciascun sesso determinate caratteristiche (fisiche, ormonali, biologiche) che consentono lo svolgimento di specifici compiti assegnati a quel ruolo. Come uomo, quindi, sarò facilitato nel muovermi nel mondo, usare attrezzi, provvedere al sostentamento della mia famiglia; come donna, la biologia mi sosterrà nei lavori domestici e nelle pratiche di accudimento di bambini e parenti anziani.
Possono sembrare posizioni molto semplificate e un po’ anacronistiche (ha ancora senso, nel 2021, parlare di un maschio breadwinner?), ma se consideriamo il successo che continuano ad avere nel sentire comune volumi come Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, sembra evidente che questo genere di “letture facilitate della realtà” piacciano ancora. Traslato su un piano più contemporaneo rispetto agli esempi che ho proposto precedenza, il volume di Gray, del 1992, spiega che non è un caso se gli uomini siano portati per i lavori di bricolage e le donne invece appaiano più competenti nel parlare di emozioni; la sostanza del ragionamento è identica e si può riassumere con il concetto di essenzialismo. Chi sostiene questa posizione (la Senatrice Faggi ad esempio) ritiene che le disparità di genere non esistano, perché in realtà sono frutto di differenze biologiche innate. Per sintetizzare: non è vero che vi siano disparità ingiustificate tra uomini e donne, poiché i due appartengono a ordini diversi, che implicano di conseguenza differenze di ruoli.
Le posizioni essenzialiste sostengono che le disparità di genere non esistano, perché in realtà frutto di differenze biologiche innate
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Per gli essenzialisti, quindi, il legame tra sesso (dimensione biologica) e genere (attributi culturali) è univoco: dall’uno discende l’altro. Nell’essenzialismo i due concetti si sovrappongono in maniera così netta da rendere impensabili molte discriminazioni: ad esempio, non trattiamo i bambini e le bambine in modo diverso, semplicemente assecondiamo la biologia. Ma è davvero così? Possiamo leggere nei nostri cervelli, attraverso tomografie e altre scansioni, un messaggio genetico così evidente, in grado direzionare i nostri comportamenti? Per rispondere può essere opportuno osservare sia i contributi delle neuroscienze che la ricerca in ambito sociale.
Secondo Cordelia Fine, psicologa e docente di filosofia della scienza a Melbourne, quando diciamo che una certa differenza – come quella che direziona la scelta dei giochi di bambine e bambini – sia innata, in quella parola mettiamo tre differenti assunti. “Primo, intendiamo che le differenze (…) riflettano un adattamento evolutivo. Secondo, quando definiamo una cosa come innata la riteniamo fissa. Terzo, riteniamo queste preferenze, se non universali, almeno ‘tipiche’ per i bambini o le bambine.” Richiamando gli studi di Paul Griffiths, Fine sostiene che le posizioni essenzialiste combinino in modo univoco queste tre proprietà biologiche, quando in realtà la scienza comportamentamentale ha chiarito che non sempre tali requisiti si richiamano reciprocamente. “Lo sviluppo dei tratti adattivi – continua Fine – dipende del sistema evolutivo nella sua interezza, non solo dai geni”, per questo, se agiamo importanti modifiche nel sistema evolutivo esteriore esse incidono e trasformano un comportamento adattivo.
Questa tesi è ciò che spiega la morte del “Testosterone Rex”, termine coniato dall’endocrinologo Richard Francis per criticare la supposizione – espressa dal neuroscienziato Joe Herbert in Testosterone: Sex, Power and the Will to Win – che quest’ormone sia alla base del successo maschile, in ambito biologico, competitivo e sociale, giustificando altresì le iniquità di genere. Anche se è vero che il testosterone è onnipresente nelle specie che si riproducono sessualmente, esso si muove in un sistema multistratificato che fa variare i gradi di associazione tra ormoni e comportamenti, rendendo di fatto impossibile decifrare il livello di influenza di un elemento sugli altri.
A supporto di questa considerazione, Fine cita numerosi esempi tratti dalla ricerca nel mondo animale, uno dei più interessanti è quello sull’Haplocromis burtoni, un pesce della famiglia dei ciclidi che vive nei laghi africani. In questa specie, solo pochi maschi hanno il compito di proteggere il territorio e inseminare le femmine. I “maschi alpha” – li chiameremo così – sono riconoscibili anche visivamente perché, a differenza degli omologhi non territoriali, hanno colori accesi, vistose striature nere intorno agli occhi (che dovrebbero spaventare i nemici) e testicoli di un volume maggiore rispetto agli altri maschi. Alcun ricercatori hanno posto un pesce territoriale, castrato, in una vasca con un maschio non territoriale intatto. Nonostante la sua condizione, esso ha continuato ad avere un comportamento dominante. Un altro maschio territoriale non castrato, invece, è stato posto in un contenitore con suoi omologhi, più grossi e a loro volta non castrati. Nel giro di qualche tempo, il nostro ha perso le colorazioni vistose, i neuroni della regione cerebrale interessata all’attività genitale si sono ridotti così come le dimensioni dei testicoli. Per questo, sostiene Fine, facendo eco a Francis, “gli eventi sociali regolano quelli gonadici”.
“Gli eventi sociali regolano quelli gonadici”
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Si potrebbe obiettare che questi sono studi condotti sui pesci. Cosa succede quando l’oggetto della ricerca è l’essere umano? Richiamando gli studi del primatologo Agustin Fuentes, Fine sostiene che “quando pensiamo agli umani, è sbagliato credere che la nostra biologia prescinda dalle esperienze culturali”. Per dare sostegno a questo concetto l’autrice richiama vari esperimenti condotti su uomini e su donne, in cui appare evidente come i livelli di testosterone siano connessi al comportamento manifestato in sede di test.
In un caso è stato richiesto a tre gruppi di uomini di rapportarsi con una bambola. Il compito assegnato al primo gruppo è stato quello di sedersi e ascoltarla piangere. Gli altri due gruppi, invece, hanno ricevuto la consegna di interagire con la stessa, solo che era stata programmata in modo diverso: in un caso il pianto si arrestava grazie alle cure parentali ricevute, nell’altro il pianto appariva inconsolabile, indipendentemente dalle azioni compiute dagli uomini. I ricercatori hanno scoperto che i livelli di testosterone degli uomini che erano riusciti a calmare il “bambino” si erano abbassati mentre negli altri due gruppi erano aumentati. In un altro esperimento lo stesso team di studiosi ha chiesto a un gruppo di attrici e attori di inscenare un monologo, ambientato in un contesto lavorativo, in cui avrebbero dovuto esercitare il potere di licenziare un loro sottoposto. Al termine sono stati rilevati, tramite apposite analisi, i livelli di testosterone nel sangue dei partecipanti: mentre negli uomini non sono stati segnalati cambiamenti significativi, nelle donne i valori erano aumentati in modo importante. Secondo Fine le variazioni dell’ormone sono collegate alle costruzioni di genere: esse modificano la reattività del testosterone poiché esso non è immune agli stereotipi che determinano le aspettative verso un dato comportamento e il suo esito (di successo o fallimentare).
Se Fine (come anche altri, ad esempio il biologo Jean-Jacques Kupiec) ci insegna a non dare per assodata l’esistenza di un nesso causale univoco tra aspetti biologici e comportamenti sociali, sono gli studi sociologici a metterci in guardia dai pericoli che si celano dietro l’essenzialismo, primo tra tutti il fatto che quest’approccio impedisce la discussione e il riconoscimento dei problemi connessi alle discriminazioni di genere, la cui presenza in forme e modalità diverse, a qualsiasi latitudine, è purtroppo innegabile. Se osserviamo da un punto di vista storico come si sono evolute le società, scopriamo infatti alcuni elementi interessanti in relazione ai ruoli dei genere. Gli antropologi Borshay e DeVore hanno osservato che la ripartizione binaria dei ruoli non è presente nelle società (ancora esistenti) di cacciatori-raccoglitori.
Mark Dyble, proseguendo il lavoro dei colleghi, ha sostenuto che l’uguaglianza è stata evolutivamente vantaggiosa perché favoriva il mantenimento di reti sociali, indispensabili alla sopravvivenza. È solo con lo sviluppo dell’agricoltura, che rende stanziali le comunità e favorisce l’accumulazione, che comincia a diventare fruttuoso per gli uomini accumulare ricchezze. Queste comunità, nel corso dei secoli, hanno rafforzato la ripartizione binaria di genere anche attraverso il supporto di norme culturali e religiose. La ripartizione dei ruoli di genere si è mantenuta senza particolari intoppi fino alla rivoluzione industriale, che inizialmente ha approvato e richiesto manodopera femminile (così come quella dei bambini, perché economicamente vantaggiosa) per poi tornare a rifiutarne la presenza, sulla base di un presunto canone di “rispettabilità” che il lavoro infrangeva.
L’uguaglianza è stata evolutivamente vantaggiosa perché favoriva il mantenimento di reti sociali, indispensabili alla sopravvivenza
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Un certo filone dell’antropologia sostiene quindi che i ruoli attribuiti a uomini e donne siano sorti da una commistione di fattori mutevoli, di natura sociale e religiosa, e non come un processo evolutivo biologico: sulla base di questo assunto si sono costituiti, nel secolo scorso, gli studi, in ambito pedagogico e sociologico, sulla socializzazione di genere. Tali studi hanno posto l’accento sul modo in cui le rappresentazioni mediatiche e le opinioni diffuse codifichino le differenze di genere. Le diverse idee in merito a come sia giusto esternare la propria femminilità o mascolinità – espresse in ogni ambito, dai media alle agenzie formative – vengono interiorizzate da bambini e bambine fin dalla più tenera età.
Secondo la filosofa femminista Iris M. Young, qualità tradizionalmente “femminili” come debolezza e passività, vengono introiettate a tal punto da far esperire alle ragazze il proprio corpo come più debole. Di conseguenza, esse si avvicinano meno a gli sport in cui è richiesta elevata forza o buone capacità competitive, prediligendo un atteggiamento più dimesso che si riflette anche nelle scelte formative e professionali. A risultati analoghi sono giunte, più di trent’anni dopo, le docenti Luisa Stagi e Emanuela Abbatecola, che attraverso una ricerca qualitativa condotta in alcune scuole dell’infanzia genovesi hanno dimostrato la pervasività degli stereotipi di genere e la loro influenza non solo nel presente ma anche nel futuro immaginato.
Se una differenza biologica, seppur più sfumata di come ci sia stato insegnato, risulta innegabile, dunque, quello che è importante rifuggire è la ripartizione causale, rigida e binaria, dei ruoli di genere. Secondo Fine, l’essenzialismo ha tra i suoi obiettivi quello di differenziare sempre di più i comportamenti maschili e femminili, ma in realtà dovremmo anche chiederci perché maschi e femmine possano comportarsi in modo simile nonostante le differenze biologiche: “quando ci rendiamo conto che le persone posseggono mescolanze idiosincratiche di ‘maschilità’ e ‘femminilità’ nelle caratteristiche cerebrali e di genere, diventa chiaro che il sesso biologico non può avere sul comportamento maschile e femminile un effetto altrettanto definitivo come sull’anatomia del maschio e della femmina”. Se spostiamo l’angolo di parallasse da ciò che ci divide a ciò che ci unisce, quello che appare davanti a noi non sono sentieri diversi e paralleli ma mosaici mutevoli, multidimensionali e sovrapponibili prodotti da “un’azione combinata e continua di numerose piccole influenze sociali”.