Q ualche mese fa il discorso di tre laureande della Scuola Normale di Pisa ha colpito il sistema accademico italiano dal suo epicentro “d’eccellenza” scatenando un lungo dibattito che dai commenti sui social si è dipanato nei giorni successivi sulla stampa nazionale.
Condivido quasi tutti i tremolii della voce e le parole lucide delle tre laureande che hanno criticato con toni severi il sistema accademico italiano, che segue troppo spesso la logica del profitto, manipolando la retorica del merito e accentuando disuguaglianze e divario di genere. Eppure penso che mancasse qualcosa in quei discorsi. Non voglio entrare nel merito di un ambiente che non conosco come quello della Normale (raccontato bene da Giovanni Zagni) e delle complesse logiche di un sistema che un giovane che si approccia alla carriera accademica può evidentemente soltanto percepire e non padroneggiare (come ha voluto precisare Claudio Giunta nella sua replica). Ma mi sembra importante riflettere sulle cose che non sono state dette: non c’era un vocabolario crudo che mettesse in prima linea le parole che ritornano più spesso nella descrizione del mondo universitario: vassallaggio, depressione, psicofarmaci, scandali sessuali. Parole che sono state invece alla base di alcuni dei testi narrativi di “denuncia” più conosciuti, come il volume di Nicola Gardini dal titolo emblematico I Baroni, uscito nel 2009. O come il più recente e ironico ritratto degli atenei italiani scritto da Tim Parks, Italian life. Una fiaba moderna di amori, tradimenti, speranze e baroni universitari, che ricorda come nell’ambiente la parola “raccomandato” sia sulla bocca di tutti, mormorata tra i lunghi corridoi del sapere.
Tra la scrittura storica e quella narrativa si staglia una forma linguistica errante, di frontiera, che Fernanda Alfieri definisce “libertà vigilata”.
I discorsi delle “normaliste” andrebbero allora completati con un racconto di quello che accade quotidianamente tra le mura di una delle maggiori istituzioni italiane, che ha come compito quello di educare le nuove generazioni a pensare. Che cosa vivono gli studenti che vogliono imparare? E imparare meglio di tutti? Manca il racconto schizofrenico di che cosa significhi davvero studiare per anni e perdersi, nel bene e nel male, nel “fare ricerca”: i vuoti, il silenzio, la solitudine fisica e intellettuale che contraddistingue il lavoro dello studioso. Le giornate passate dentro biblioteche e archivi polverosi, cercando volumi e documenti caduti nell’oblio del tempo. Ma anche delle intuizioni folgoranti sopraggiunte quasi per caso, mentre si passeggia per strada, di quella sensazione paradossale, che ha descritto così bene di recente, in occasione della riedizione del libro frutto della sua tesi di dottorato – alla Normale ovviamente – Carlo Ginzburg: “ero circondato da insegnanti da cui imparavo moltissimo; da amici con cui parlavo fittamente della mia ricerca. Eppure, quel senso di isolamento – come di chi percorra da solo una strada dove non passa nessuno – era reale, e inebriante”.
“Fare ricerca” ti lascia idiosincrasie reali sulla pelle, sui polpastrelli delle dita, nella scrittura. Questo ultimo punto mi è sembrato essere la traccia segreta di un libro, uscito per Einaudi pochi mesi fa: Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma.
Esorcismi e scrittura
Scritto da Fernanda Alfieri, ricercatrice dell’ateneo di Bologna, Veronica e il diavolo non parla esplicitamente di Università ma permette di farsi un’idea di che cosa significhi scrivere dopo tanti anni dedicati al mondo accademico. L’argomento, indagato attraverso una forma letteraria ibrida indefinibile, un racconto a più voci tra fonti storiche eterogenee (diari, lettere, fascicoli…) e appunti personali della studiosa, è un fatto di cronaca realmente accaduto nella prima metà dell’Ottocento. La vicenda dell’esorcismo della diciannovenne Veronica Hamerani. La giovane donna è inspiegabilmente preda di violente e improvvise convulsioni “demoniache”, mentre al suo capezzale si prodigano i genitori ma anche gesuiti, dottori ed esperti, uomini, che intendono “liberarla” dal suo male. Un male che ha preso in ostaggio il suo corpo, che le è entrato dentro e che per la medicina dell’epoca non ha un nome preciso (nevrosi? Isteria? Eccesso di bile nera?) ma per la chiesa e la sua fedele giurisdizione, sì: demonio.
Questa storia è però tracciata da due percorsi paralleli. Da un lato, la trascrizione di carte ingiallite e documenti rinvenuti nel mare magnum di archivi e, dall’altro, la volontà di chi scrive di ripercorrere le tappe del proprio lavoro. Si legge così l’emozione dello scartabellare esperto delle sue mani, ma anche il timore e le esitazioni di chi si accinge a usare una scrittura diversa: forse più rischiosa, di certo più accessibile, senz’altro lontana da quella usata quotidianamente da uno studioso. È in questo modo che, insieme alla ricostruzione minuziosa e articolata dell’esorcismo e delle diverse voci narranti che ne scrissero, si ritrova il racconto odierno di che cosa significa “fare ricerca”. Partire da un documento ritrovato in un giorno piovoso d’inizio inverno e avanzare a tentoni, cercando memorie forse perdute, tastando i ricordi celati in manoscritti e testi difficili da reperire, in nome di un’ostinata rincorsa della verità.
Una verità che però, riconosce la studiosa sin dalle prime pagine, può essere soltanto un’illusione:
Non posso far rivivere quella carnalità perduta, far vedere la luce riflessa nell’iride dell’occhio che ha guardato, far sentire il sapore nelle bocche, il freddo sui volti e sulle mani lungo la strada nell’andare a vedere. Tutte cose – gesti, corpi, sentimenti, intenzioni, parole parlate e pensate – enormemente importanti, e che oltretutto stanno bene in un romanzo, perché danno umanità e un che di vero. Mentre le si legge, si sentono e si vedono, e così arrivano la tristezza, l’entusiasmo o la pena, e intanto la salivazione aumenta, il battito cardiaco accelera, il fiato si fa corto. Ma questo accade al lettore quando chi scrive possiede interamente le vite di quelli di cui scrive, le orchestra in una vitalità respirante, sofferente, amante. Li fa muovere, decide i tempi e i luoghi. In sostanza, li tratta da personaggi, non da persone che sono state e non sono più. Questa, mi sono detta spesso, deve essere una delle essenze del raccontare. Il romanzo è libero, la storia no.
Mi sembra di leggere, tra le righe di questa testimonianza sofferta – e più avanti, nella tormenta di questo narrare –, due storie diverse ma contigue. C’è naturalmente la storia di reclusione di Veronica Hamerani, costretta in un corpo dal quale strabordano vita e parole, segregata tra le mura di una casa in cui chi varca la porta a suo piacimento è quasi sempre un uomo. Ma anche l’avventura discreta di una ricercatrice che vuole conoscere e che tuttavia sa quanto sia impossibile, dal punto di vista storico e filologico, immaginare liberamente un tempo sommerso, abitato da persone che per noi rischiano di diventare soltanto figurine:
Ogni dato di cui dispongo è un naufrago che galleggia nel grande mare del dimenticato, dell’andato perduto, o del mai scritto. So che, benché mi affanni a rintracciare ogni naufrago meticolosamente (metus è il timore, qui è il timore di non recuperare tutto, o di recuperarlo male), non posso spostarlo a piacimento da una parte all’altra dell’arcipelago, cambiargli abito, fargli fare – tantomeno pensare – quello che mi piace o potrebbe piacere al lettore.
La scelta lucida dell’autrice cade così su una forma intermedia. Una lingua nuova che prova a intromettersi in una conversazione difficile tra le carte perse, bruciate, le parole sussurrate, spesso taciute e la narrazione libera – prepotente – che può nascere tra questi spazi. Una conversazione quasi utopica per uno studioso che conosce bene gli strumenti e i limiti di una disciplina, e di se stesso. Che conosce le proprie paure (sarò capace di immaginare?), le proprie fobie (sarò, o sarò tacciato di essere, superficiale?), il prurito eccitato che corre lungo la nuca (perché ho questo desiderio di raccontare?). Per Fernanda Alfieri le domande sono tante e la risposta una sola: adottare la “lingua della congettura”, una congettura però, ci tiene a rimarcarlo, plausibile e verificabile attraverso le fonti.
La forma che ne scaturisce è quella di una narrazione suggellata di informazioni con la perizia di cui, forse, solo un ricercatore dopo tanti anni di studio è capace, ma non per questo estranea a un gusto letterario e malinconico. Anche il modo e il luogo scelti dall’autrice per dichiarare le sue fonti storiche e archivistiche sembrano raccontare un trafficato compromesso: se il corpo della narrazione è liberato dal flagello delle note al testo, le prove e i riferimenti di ogni informazione (anche meteorologica!) vengono esiliati in una sorta di secondo libro liminale, oltre ottanta pagine di note discorsive che ripercorrono ogni capitolo. L’insieme di queste soluzioni stupisce per la sua eleganza e soprattutto per un’umiltà raramente rintracciabile nel mondo accademico, che suona insieme come un’ammissione di colpa e un desiderio inespresso di immaginazione: “questo non posso saperlo”, “fra le carte non vi è traccia”, “non posso dire”.
Di questa lingua, figlia dello scrupolo eppure consapevole della sua manchevolezza – non è storia e non è narrativa – si gode dell’ambizione, dell’urgenza e soprattutto dell’intrinseca umana fragilità. Tutto molto diverso dalle consuetudini della lingua accademica, che non prevede di fatto alcuna preoccupazione per il gusto della lettura e della narrazione e dà invece la priorità a un apparato castrante (come la “scheda di referaggio cieco”, compilata di norma da due luminari che non sanno il tuo nome e che osservano e giudicano la ricerca attraverso numerosi criteri, tra l’altro piuttosto vaghi, come “rilevanza” dell’argomento, “novità e originalità” dei contenuti affrontati, “coerenza” della metodologia impiegata nella narrazione, “chiarezza e stile” della scrittura). Attraverso gli spiragli di questo panorama dissociato – e che spesso porta alla dissociazione dal mondo reale e dal suo racconto – si staglia così una forma linguistica errante, di frontiera che Fernanda Alfieri definisce “libertà vigilata”.
Mostruose
La cautela del raccontare viene forse vissuta con meno struggimento da parte di un’altra autrice che quest’anno ha scritto di donne e demoni, la giornalista americana Jude Ellison S. Doyle. Il mostruoso femminile, uscito per Tlon editore (con la traduzione di Laura Fantoni) saltella difatti da una storia all’altra, con il gusto spensierato di un collezionista che compone la propria personalissima Wunderkammer, creando un originale percorso tra gli stereotipi della donna in quanto creatura malefica e aberrante. La galleria oscura che l’attivista femminista ci esorta a percorrere, attraversando liberamente le forme artistiche più disparate – cronaca nera, narrativa, cinema – rintraccia le origini culturali e ideologiche del patriarcato occidentale. La scrittura più divagante usata ne Il mostruoso femminile e la complessa lingua della congettura messa a punto da Fernanda Alfieri, anche se giungono da strade visibilmente e sostanzialmente opposte, viaggiano in una direzione non così lontana l’una dall’altra.
La figura femminile, scrive Jude Ellison S. Doyle, appare sempre come il frutto di una funzione alla quale deve sottostare rispetto a un’altra presenza, maschile. È una figlia, una moglie, una madre. Ma è anche definita e inquadrata come fantasma delle fantasie che l’altro proietta, consciamente o inconsciamente, su di lei. Una dea, una fata, un’arpia. La donna si mostra come il prodotto finemente costruito e tramandato da storie ed epoche differenti. Miti, fiabe, leggende, serie tv si mescolano così in un grande calderone, in cui realtà e fantasia – storia e racconto – sebbene non siano fatte della stessa pasta, vengono entrambe a galla. In questo senso le donne realmente vissute e i personaggi inventati sono utilizzati, secondo l’autrice, in egual misura
per soddisfare gli scopi della cultura, vengono rielaborati e ridefiniti nelle nostre narrazioni, affinché le paure che nutriamo riguardo al mondo femminile possano in essi trovare conferma, e la nostra idea di “donna” possa continuare a essere plasmata.
Ed è ancora attraverso un esorcismo, nel suo caso mediale più celebre, che Doyle mostra come questa controversa negoziazione si giochi sul – e dentro – il corpo della donna. L’esorcista, romanzo di William Peter Blatty che trae spunto da un caso di possessione sopraggiunto nel Maryland, diventa un film che all’inizio degli anni Settanta sconvolge il pubblico proprio per la sua violenza visiva, che si raccoglie quasi completamente nel corpo di Regan, la ragazza posseduta dal demonio. Per Jude Ellison S. Doyle non è tanto l’adolescente la vera protagonista della narrazione, ma le sue membra “assatanate” esposte come mai prima e i liquidi che ne sgorgano: sangue, pus, vomito, urina. Sono i fluidi che rappresentano il “problema” della pubertà femminile, un’energia vitale fuori controllo, che straborda nella rabbia, nella promiscuità sessuale, nella trasformazione in qualcosa che non ha nome e che perde le fattezze umane sino a diventare un vero e proprio mostro.
Regan, ma anche Veronica Hamerani, sono allora, a seconda di come le si voglia osservare, femmine “esposte” e orfane, oppure figlie di tante madri e tanti padri. Nate da storie di appropriazione, da ladri di memorie di donne realmente vissute, raccontante di bocca in bocca ma anche trascritte, riscritte, e poi ritrovate, rilette, possedute di nuovo e infine liberate in altre forme. Sono parte di un testo secolare in cui un comportamento fuori dagli schemi, dai canoni religiosi, dal buon costume, per una donna, non è semplicemente previsto. Sono tasselli di un mosaico, in cui testo e immagine si condensano in una miriade di quelli che Bram Dijkstra ha definito “idoli di perversità” e che impazzano nell’immaginario artistico passando attraverso il profilo più mansueto, da Cassandra a Ofelia, sino a quello più minaccioso e seducente di menadi, amazzoni, giuditte e le innumerevoli vamp dei film hollywoodiani.
La donna indemoniata è forse allora una tra le tante figure femminili che hanno sperimentato una libertà nuova, vivendo da sole ai limiti di una foresta, desiderando qualcosa che non conoscevano ma che provavano instancabilmente a immaginare. Ribellandosi, quasi sempre, a una violenza silente di cui non resta traccia. A un ordine prestabilito – la più grande istituzione del sapere, per esempio – da superare, di cui molte fra noi studiose hanno ormai introiettato la lingua e i roboanti silenzi.
È da questo punto di vista che Il mostruoso femminile e Veronica e il diavolo, anche se sono libri distanti, possono essere accostati. Mi sembra che entrambi possano confluire nel “grande regno dei racconti” che, secondo Walter Benjamin, è abitato indistintamente dalle due stirpi originarie della famiglia dei narratori: quella dei “mercanti viaggiatori” che ci consentono di godere della brezza che solo i viandanti conoscono, guidandoci in un numero vorticoso di luoghi, persone e voci che ci circondano senza un ordine preciso; e quella degli “agricoltori sedentari” che scavano la terra ogni giorno, e che nascono ancora, nonostante tutto, tra le aule dall’odore raffermo delle Università, e che riescono, come per miracolo, a trattenere il gusto del raccontare e non solo del dire.
Bisogna inventare nuove lingue che possano uscire dalle aule dentro le quali sono nate, per cercare e poi cercare ancora (ricercare), perché qualcuno possa scoprire ciò che abbiamo trovato.
La direzione, o meglio l’intenzione, che sia il frutto di una “prassi” giornalistica, letteraria, storica – microstorica – converge, alla fine, nello stesso punto: la funzione della narrazione. Per Benjamin l’urgenza in quegli stessi anni è affrontare il problema millenario della posizione e del ruolo politico – in senso ampio – degli intellettuali e, naturalmente, degli scrittori. E lo fa con una domanda diretta: “per chi scrivete?” Benjamin non pensa in questi termini dualistici. Dobbiamo rinunciare al binario che vede, da un lato, la libertà creativa che vaga come cieca in preda alla fantasia e, dall’altro, il condizionamento che deriva dalla classe, dall’istituzione e dal genere ai quali si appartiene, che sfocia in una forma rigida, forse sterile. Entrambe le parti dipendono l’una dall’altra, si plasmano in quel “rapporto sociale vivo e produttivo” in cui il narratore deve imparare a sopravvivere. Il ruolo di chi racconta è quello di passare dal sapere all’agire e di aprire nuovi spazi critici e, soprattutto, autocritici, di inventare nuove lingue che possano uscire dalle aule dentro le quali sono nate, per cercare e poi cercare ancora (ricercare), perché qualcuno possa scoprire ciò che abbiamo trovato.