È il 26 aprile 1986. Mi trovo nel vagone letto di un treno notte, in viaggio da Mosca alla città di Anapa, nel sud della Russia, sulle rive del Mar Nero. Sono a bordo di questo treno da quasi due giorni e le provviste che abbiamo portato da casa cominciano a scarseggiare. Il treno è fermo a Rostov sul Don, a milleduecento chilometri dalla città in cui vivo. Dalla mia cuccetta in alto guardo fuori dal finestrino e una scena vivace si dispiega dinanzi ai miei occhi: il viavai tipico delle grandi stazioni; signore anziane che vendono pasticci caldi di carne e patate, pollo fritto e cetrioli; gente che sale e scende di corsa dal treno. Nessuno ha idea di cosa stia accadendo a ottocento chilometri a nord-ovest.
È questo il vero significato di un evento: accade senza che ce ne accorgiamo, accade, cioè, come se non accadesse, confinato nella cosa stessa, sì, nella cosa stessa che nondimeno ci include, ci avvolge, ci unisce in assemblea, senza chiederci consenso. La pioggia radioattiva di Chernobyl e le informazioni ufficiali sull’incidente, l’una il riflesso speculare distorto delle altre, non ci hanno ancora raggiunto, e non lo faranno per alcuni giorni. Ma l’evento è in corso. Ci travolgerà prima che noi avremo la possibilità di affrontarlo, se mai lo faremo. Nel frattempo, la vita continuerà a scorrere col suo corso “naturale”. Posso osservare i suoi flussi e riflussi sulla banchina della stazione di Rostov sul Don, dal treno su cui viaggio.
Perché, sul finire dell’aprile 1986, mi dirigevo per la prima volta a sud, per quello che nei tre anni successivi sarebbe diventato uno strano pellegrinaggio annuale, in compagnia di mamma o papà? Questo viaggio, come quelli a venire (di nuovo ad Anapa nel 1987 e, più tardi, ancora più lontano, nella città di Sukhumi, in Abcasia, regione dell’ex repubblica sovietica della Georgia), era una fuga, prescritta dai medici e finanziata dal sistema sanitario sovietico. Poiché soffrivo di gravi allergie stagionali ai pollini di betulla, quercia e altri alberi, che mi lasciavano letteralmente senza fiato, il medico mi prescrisse questi soggiorni in “zone climatiche diverse”, in cui non fioriva nessuna delle piante tipiche della Russia centroeuropea.
Dovetti dunque trascorrere parte della primavera tra palme e cipressi trapiantati. La ragione di tale condizione, condivisa in misura minore con la maggior parte dei miei coetanei, era chiara: nella periferia di Mosca, il mio condominio era situato tra un’enorme foresta e un grande stabilimento inquinante. Come racconto in Through Vegetal Being: “A seconda della direzione del vento, potevamo sentire sia l’odore dei fumi tossici emanati da quel mostruoso complesso industriale sia l’aria fresca del bosco”3. In modo indiretto, sono stato tagliato fuori dal mondo vegetale nel momento del suo rinnovamento, a opera delle forze inconsulte dell’industrializzazione e di un’ideologia del progresso, pericolosamente ingenua, così diffusa in Unione Sovietica come in Occidente. E ciò significa che la mia fuga, prescritta dal medico, doveva avere a che fare con il dominio tecnologico esercitato sull’ambiente naturale, dominio che ha reso il mondo insostenibile e in definitiva invivibile.
Ma l’impressione che si possa sfuggire a quella calamità che è la nostra civiltà non è di per sé meno semplicistica della rutilante ideologia del progresso stesso. Non c’è scampo o via di fuga. Il treno mi stava portando ad alta velocità verso una catastrofe ancora più grande, catastrofe generata dallo stesso sistema totale (non mi riferisco al “totalitarismo” sovietico, ma alla medesima, perniciosa ubiquità di una strumentalizzazione della natura che insidia la vita e predomina nei sistemi economici sia capitalisti che socialisti). Respirando liberamente a pieni polmoni, non più affetto da asma allergica, avrei trascorso il resto di aprile, maggio e parte di giugno sulle rive del Mar Nero, dove, a mia insaputa, sarei stato esposto a quantità pericolose di radiazioni, per effetto del fallout di Chernobyl. Jean Baudrillard l’ha chiamata la logica della seduzione, della fuga proprio verso ciò a cui cerchiamo di sfuggire. La seduzione della tecnologia? Dell’essere umano? O questi due termini sono del tutto intercambiabili?
Di solito, quando filosofi e artisti illuminano la natura straordinaria dei fenomeni ordinari, lo fanno rilevando un’inaspettata angolazione concettuale o estetica del quotidiano. Per esempio, sottraggono gli oggetti al loro contesto abituale, come fece Duchamp nel 1917 con l’orinatoio intitolato Fontana, oppure fanno assurgere frammenti di realtà al rango di idee metafisiche, al pari di Hegel che nel XIX secolo interpretò persino “la realtà ordinaria” – l’aria e la terra, la famiglia e lo Stato… – come incarnazione dello Spirito.
Tuttavia, non sono queste le immagini appropriate della straordinarietà dell’ordinario che ho in mente. Penso, soprattutto, alla mendace apparenza di un’esistenza tranquilla e banalmente ordinaria all’indomani dell’incidente di Chernobyl: nelle immediate vicinanze della centrale nucleare prima delle evacuazioni di massa; a Kiev e a Minsk, dove le manifestazioni del Primo maggio si svolsero come da programma; e ad aree di ricaduta più remote, come Anapa, dove, secondo le misurazioni ufficiali, all’inizio del maggio 1986 la rilevazione delle radiazioni emesse aveva raggiunto i 60 mR/h (milliRoentgen per ora4), un valore circa 300 volte superiore al livello “normale” di 0,2 mR/h.
L’invisibilità di gigantesche quantità di radiazioni è stata raddoppiata, occultata e ingigantita dall’offuscamento politico del disastro, la cui reale portata iniziò a emergere soltanto quando furono rilevate letture anormalmente elevate in Svezia, due giorni dopo il rilascio dei detriti radioattivi nell’atmosfera. Fino al 6 o 7 maggio il giornale “Pravda” non aveva fornito alcun resoconto accurato dell’incidente.
Impercettibile e imprevisto, con le sue profonde ripercussioni l’evento Chernobyl si è rivelato, subito dopo il suo accadimento, indistinguibile dal corso della vita quotidiana. Lo stato di eccezione che aveva provocato non era eccezionale, dal punto di vista di chiunque l’abbia vissuto. Tutto era cambiato, inavvertito e inosservato, almeno all’inizio (e lo stesso si può dire della caduta dell’Unione Sovietica che seguì prontamente il crollo di Chernobyl). L’atmosfera, l’aria, l’acqua, il suolo, le piante, gli animali, gli uomini: tutto sembrava esattamente uguale al giorno prima, sebbene fosse radicalmente mutato. È proprio quando ogni cosa appare cristallina, al suo posto, il più ovvio e banale, che ci è totalmente impenetrabile, relegata nell’oscurità dal nostro stesso senso di ovvietà e chiarezza assoluta. L’unica cosa eccitante per il bambino di appena sei anni che ero allora consisteva nell’essere, per la prima volta nella vita, in riva al mare, in quello che mi sembrava un caldo paradiso, con le sue spiagge di ghiaia e la vegetazione mediterranea a fare capolino qua e là.
La vita vegetale è un eccellente contrappunto alla nostra modalità predefinita di produrre energia, culminata nell’evento di Chernobyl. Le piante processano la luce solare sulle superfici estese delle loro foglie. La loro energia è, come ho notato nel mio precedente lavoro, essenzialmente superficiale, fedele all’esteriorità e del tutto innocua per le altre specie (con l’eccezione di alcune varietà carnivore, incapaci di fotosintesi). Le piante ricevono dagli elementi tutto ciò di cui hanno bisogno per prosperare: umidità e nutrienti minerali dal terreno e luce solare in superficie.
Gli animali e gli esseri umani, invece, si procurano l’energia in altre maniere, a cominciare dal loro peculiare modo di nutrirsi. Mordono qualsiasi cosa li alimenti, ne distruggono l’integrità, scavando nella “riserva di energia” in cui si converte tutto ciò che viene ingerito, integrando i nutrienti e le calorie che contenevano nel loro corpo. Per ottenere energia, spezziamo e bruciamo, riduciamo a componenti di base estraendo il nucleo prezioso dall’oggetto dei nostri bisogni e desideri.
Per quanto possa sembrare lontana da questi processi fisiologici, la ricerca dell’energia nucleare esaspera i loro principi di funzionamento, scomponendo ciò che sembrava indivisibile (cioè l’atomo) e scrutandone così le profondità più remote, l’abisso della potenza e del potenziale.
Mentre i metodi convenzionali di “produzione” di energia distruggevano la materia formata delle cose, il nucleare devastava la loro stessa essenza, i principi materiali che le avevano rese quel che erano. Sublimata, e perfettamente sublime, la digestione trasmuta. Man mano che perfezioniamo la disgregazione della materia, rendendola più completa e annientando la materialità stessa della materia, i suoi derivati diventano virtualmente indigesti. I materiali radioattivi impoveriti sono i nuovi escrementi di un’umanità affamata di energia, che contaminano l’ambiente per i secoli a venire.
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Un sogno ricorrente. Galleggio in mare, trasportato dalle onde verso un’altra riva, quell’altra riva dove, torreggiando in alto, un reattore nucleare esploso brucia senza sosta, sputando nell’aria un fumo color lampone. Scivolata in modalità notturna, in cui il passato è distorto, si trasforma e si intreccia con fantasie e desideri, la mia vita psichica intraprende un viaggio a ritroso, verso la fonte delle radiazioni che mi avevano raggiunto ad Anapa. E lungo il percorso modifica la geografia. Naturalmente, la città di Pryp’jat’, responsabile della centrale nucleare di Chernobyl, era situata sulle rive del fiume omonimo e non sul Mar Nero. Ma i sogni seguono una loro logica, semplificando o rendendo più complessa la realtà, a seconda dei casi.
Estratto da Chernobyl Herbarium (Mimesis, 2021). Tutti i fotogrammi sono di Anaïs Tondeur e sono tratti dal libro.