P artiamo, naturalmente, dal principio. A, la prima lettera, una vocale. “Se dei deboli si mettessero a pensare alla prima lettera dell’alfabeto, si contorcerebbero presto nella follia!”. È la seconda Lettre du Voyant di Arthur Rimbaud, che forse accennando al Dictionnaire celeberrimo del Littré, o al Bescherelle (“Bisogna essere accademici, – più morti d’un fossile, – per completare un dizionario, di qualsiasi lingua sia”) vira al calor bianco la polemica antiaccademica, e in genere anti-letterati, dell’ardennese (autore dell’esplosivo sonetto delle Vocali) che avrebbe rivoluzionato la poesia moderna: la stessa postura polemica gli aveva fatto dire, appena due giorni prima, scrivendo al suo giovane professore Izambard: “lei non è Insegnante per me”, deplorando il suo aspirare alla “mangiatoia universitaria”, chiedendogli poi di non sottolineare troppo le frasi della lettera con la matita, “né troppo col pensiero”. Il ventiduenne Izambard risponderà: “Non le dico che lei è diventato matto perché la cosa le darebbe troppa soddisfazione”. Non doveva essere un lavoro leggero quello di professore del liceale Arthur Rimbaud.
Esiste, come si sa, un livello complesso di scrittura dove l’arte è anche intrecciata a un gioco coperto: a un ammicco sottile a un lettore “iniziato”. In questo spazio, senza nulla togliere al valore della decodifica legittima da parte del lettore “ingenuo”, un altro tipo di lettore con una intenzione accesa da segnali ben precisi disseminati nel testo può trovare, disseppellire o finanche creare sensi ulteriori, che sulle prime rimandano al gioco in absentia (per dirla con Freud) ma poi si diramano sottotraccia fino a svelare nuove possibilità di interpretazione affidate al lettore stesso, e che scavallano da una lingua all’altra, da una suggestione all’altra. Movimento che obbedisce a quella che potremmo chiamare una “allucinazione della lettera”. E anche dell’immagine trovata: malgrado lo stesso Verlaine abbia detto che a Rimbaud così come lo aveva conosciuto lui non poteva importare nulla del colore delle vocali, molti tentativi sono stati fatti per indagare l’origine di quelle attribuzioni: esoterica, mistica, alchemica, ma anche semplicemente ludica, a partire cioè dai colori di un abbecedario. E Rimbaud assorbiva voci dialettali e gergali carpendole negli scritti e nei discorsi intorno a sé, in vista di una lingua universale e aperta, ma poi nella sua enciclopedica polymathie i dizionari li sfogliava e li compulsava, estraendone gemme corrusche o terragni reperti lessicali. Aprendo il Bescherelle nelle edizioni ottocentesche si vede subito la lettera A nera, incorniciata da fronzuti motivi vegetali (quanto pesa la prairie, selvaggia o erotizzata, nell’opera di Rimbaud!), e tradotta in immagine come una sorta di paramento sacerdotale, di stola o corsetto, o bendaggio.
Ecco allora il terzo verso di Voyelles: “A, noir corset vélu de mouches éclatantes”. In una invenzione libera, con gli occhi aperti sull’ignoto, ma “ragionata”, Rimbaud sembra convocare una postura mentale da traduttore, per un’operazione verbale scatenata da associazioni ambigue e resistenti alla decodifica semplice, operazione “innescata da elementi linguistici minimi, arbitrari, privi di significato, antipoetici” (come scrive il curatore Olivier Bivort nel commento alla più recente edizione in italiano, tradotta da Ornella Tajani per Marsilio). Qui sul piano iconico-analogico il corset può essere – ne è teste il dizionario – sia un indumento che un busto (correlato idealmente alla A di ’armature’), ma anche una protezione metallica intorno ai tronchi degli alberi nei parchi, ma anche un certo tipo di bendaggio, una fasciatura pettorale per le fratture della clavicola: e sappiamo quanto Rimbaud, “prodigioso linguista” secondo la formula di Verlaine, abbia attinto a piene mani dai lessici tecnici, medici, scientifici, a base greca (clysopompe [“clistere”], hydrolat [“liquido distillato”], ithyphallique [“con il membro eretto”]…), piegandoli non di rado a un fine di satira. Sempre il dizionario, alla lettera A, riporta la locuzione “ne pas avoir fait une panse d’a”, cioè “non saper scrivere” o “non aver scritto ancora nulla”: e non è questo l’ “orribile lavoro” di cui si incarica il poeta nuovo? Reimparare un sistema, una lingua (quella ereditata dagli avi), disarticolandone le giunture irrigidite; reinventare il sistema-base (l’alfabeto) dall’Alfa all’Omega, come chi ha disimparato un’abitudine di sguardo e prende in mano per la prima volta gli elementi costitutivi del mondo, imponendosi inciampi studiati, indifferente al “già scritto”, lanciando in avanti nel futuro il vagito di una vocale primigenia. Verso una re-visione dell’Universo e delle sue specie verbali.
Rimbaud assorbiva voci dialettali e gergali carpendole negli scritti e nei discorsi intorno a sé, ma poi i dizionari li sfogliava e li compulsava, estraendone gemme corrusche o terragni reperti lessicali.
Spesso si è ipotizzato un gioco fra parola e immagine nelle formulazioni più vertiginose di Rimbaud: un gioco vòlto al rovesciamento della metafora convenzionale, alla sovrapposizione di campi immaginali stridenti: Valéry nota che nel passato “la poesia era scritta nella lingua del senso comune”, ma Rimbaud per primo lavora verso una “incoerenza armonica” che nel testo accoglie – cioè provoca – pluralità, indeterminazione e contraddizione (lasciando mano libera al lettore come mai prima). Altrettanto spesso si è pensato che le sue immagini impreviste si riconducano all’hashish, all’assenzio, a gerghi occulti condivisi con pochi, alla fatica delle camminate interminabili, delle notti passate lungo le stradine di campagna à la belle étoile, delle allucinazioni semplici provocate: il protagonista dei Poètes de sept ans si pigia le dita sulle palpebre per scatenare un turbinio di fosfeni (e se ne ricorderanno Burroughs e Brion Gysin con la loro Dream machine).
La furia caricaturale del primo Rimbaud si scatena nel gioco degli intrecci fonici, feroci o di abissale ambiguità, in modo scoperto: nell’entusiasmo comunardo del Chant de guerre parisien, il “salmo di attualità” che inaugura la Lettre du Voyant (siamo nel maggio 1871) ecco il volo (vol, che è anche un “furto”) di parodici amorini, due politici: “Thiers et Picard sont des Éros”, sono Cupidi, oppure “des héros”: sono eroi ma anche “zeri”, per ulteriore perfidia fonica (zéros). “Voici hannetonner leurs tropes…. / Ils sont familiers du Grand Truc !..!” – Le loro truppe (in una grafia arcaica; o i loro tropi, figure retoriche) vagano all’intorno sulla Parigi in rivolta come maggiolini in primavera, e “conoscono bene il Grande Trucco!” (il Grande Turco che diviene un “imbroglio”, truc).
Questa postura giungeva a Rimbaud anche da Baudelaire, nei cui scritti non sono infrequenti calembours e giochi di parole, e si riverbera poi nelle punte di diamante della poesia francese di fine Ottocento. Lo stesso Marcel Duchamp dirà di aver sempre amato i giochi e le invenzioni di Jules Laforgue (dominato dal démon de la néologie), a cui si ispirerà per il Nu descendant un escalier, o ancora per il sarcasmo nascosto in disegni giovanili come quello intitolato Dimanches: dove si vede una coppia a passeggio con un bambino nella carrozzina, e la pointe è ben chiara quando si pensi che dimanches (domeniche, come quelle dei “compianti” laforghiani) è omofono con dix manches (“dieci erezioni”).
Tipica è poi, fin dal 1871, nel ragazzo prodigioso delle Ardenne, la ricerca lessicale in ambito tecnico e nomenclatorio: pensiamo a quella enorme parodia fondata sul lessico vegetale che è Ce qu’on dit au Poète à propos de fleurs – sfida beffarda lanciata al “Maestro” Banville. Certo, in quella lettera-manifesto in cui Rimbaud parodia la famosa definizione parnassiana (l’art pour l’art) proiettando il desiderio sulla lingua nuova, che dovrà scaturire dalla distruzione del “vecchiume poetico” (lingua che sarà de l’âme pour l’âme), segnala lui stesso di fare attenzione ai giochi di parole: non si dovrebbe dire je pense, ma on me pense: e non si tratta tanto di scivolare nel passivo (“io sono pensato”), ma dell’ambiguità con panser (“strigliare”, o “bendare”), tipica di un calembour molto frequente e ripetuto nella storia. Prendendo questa deviazione potremmo indovinare dietro il jeu de mots un je de mots, un io fatto di linguaggio, disegnato momentaneamente dalle parole, e da esse tenuto momentaneamente fermo, ma sempre pronto a metamorfosarsi in altro, a deformare e contraffare la sua faccia. Coltivando volontariamente quella “mostruosità”, “saggiando” le possibilità dell’anima, agendo senza sosta sul corpo del pensiero.
Più avanti, con l’approdo alla poesia in prosa, il metodo cambia: un’altra mano, più lieve, più sottilmente enigmatica, tocca le corde della lingua.
Il veggente delle Illuminations, vertice dell’esperienza rimbaldiana, accenna in Nocturne Vulgaire a delle “bêtes de songe”, che sprofonderanno l’io in una “source de soie”. Le “bestie di sogno”, sì, espressione che deforma vagamente, ma con effetto decisivo, le “bêtes de somme”, le bestie da soma della visione comune, con carrozza e cocchiere; poi una “sorgente di seta” la quale potrebbe essere diffrazione di una “fonte di gioia” (“source de joie”): è questa che André Guyaux, curatore della più recente edizione Pléiade di Rimbaud, chiama poétique du glissement. Non mancano nei foglietti delle Illuminations i prestiti da altre lingue – soprattutto, ma non soltanto, l’inglese (embankments, steerage, brick, pier, turf, railways…e poi spunk, wasserfall…). Né manca qualche conio originale da voci inglesi (operadique, inquestionable).
Ma le visioni inaudite consegnate da Rimbaud ai versi e alle prose “illuminate” potrebbero anche, in parte, derivare semplicemente da una permutazione o salto logico, a partire da un dato di vocabolario, da un bisticcio fonetico, uno scivolamento o sovrimpressione bilingue. È forse il caso dell’enigmatico “Baou” nelle Illuminations, caro a Breton, e fatto risalire (fra le mille ipotesi) a un calco fonico su un bow inglese, quindi un inchino di fronte alle due misteriose figure monacali di Dévotion: per André Guyaux è un quasi-anagramma di parte del cognome di “Léonie Aubois d’Ashby”, in cui ritroviamo aube, ma anche “au bois joli”. Per altri è deformazione di ’beau’ pronunciato da un locutore inglese. Ma se volessimo metterci a strologare sui segni e codici occulti, su tutti gli anagrammi e metagrammi rintracciati per acume, per fantasia, per sofisma o per forza nell’opera inesauribile dell’ “uomo dalle suole di vento”, non si finirebbe più di nuotare in una bibliografia oceanica. Questi temi hanno infatti fornito nutrimento a decenni di ricerca e riflessione critica.
Il dizionario, il vocabolario, ritenuto di solito un magazzino passivo del sapere, può diventare invece primo strumento dell’agire poetico, della creazione di nuovi mondi immaginali.
Il salto dell’ultimo Rimbaud, che fa fiorire la sua “prosa di diamante” (Verlaine) eppure così intensa e immediata, è in questo: alcune soluzioni sembrano non coscienti e sfuggono alla meccanica vettoriale del gioco di parole, aprendo, come ha colto Paul Valéry, uno spazio di indeterminazione, un quasi mentale, scatenato dalla instabilità del referente e da accesi accoppiamenti verbali e capovolgimenti di fronte: la formula convenzionale della lingua condivisa si trasmuta in un accordo nuovo, stridente e indistinto sul piano del contenuto ma musicale su quello del suono – qualcosa, appunto, di molto simile a una alterazione musicale, che crea, nella rottura dei rapporti comuni, una nuova intensità: “il notevole potere eccitante” di questa incoerenza, ha notato ancora Valéry con acutezza impareggiabile, “obbliga a creare”. Quindi comunque la provocazione (delle normali attese del lettore) apre a una rottura in vista di un’unione inattesa (“la nuova armonia”) e ha un ruolo essenziale nella creazione della poesia inaudita, delle “invenzioni d’ignoto”.
È stato Verlaine a tramandarci il titolo della raccolta con il suo sottotitolo (“Painted plates”), che rimanda a un’accezione inglese di illumination: stampe colorate. Scrisse anzi che andrebbe pronunciato in inglese ma con accento francese: Illuminécheunes. Non è così strano. Dai soggiorni londinesi di Rimbaud almeno fino al 1874 ci sono pervenute liste manoscritte di parole ed espressioni della lingua inglese, prese da fonti disparate (dizionari, conversazioni, manifesti, carta stampata) e spesso anche non comuni (per esempio relative all’allevamento di piccioni o alla sartoria); anche grazie ai lacerti di quel furore lessicologico possiamo pensare che alcuni lampi delle Illuminations – in grado di imprimersi con forza nella mente sognante di chi legge malgrado la loro apparenza effimera, sfuggente – siano traduzioni meccaniche a bella posta, “infantili”, di termini inglesi: snowflakes (“fiocchi di neve”)può essersi trasfigurato in “éclats de neige” (“bagliori”, ma anche splendori, schegge o scoppi di neve), le “fêtes amoureuses” travisano love feasts, ovvero antichi “banchetti dell’Agápe” cristiani. Imparando la lingua di un altro spazio, compitandone i suoni, Rimbaud ritorna all’infanzia della percezione, a parole selvatiche ancora non domate, barbare, fieramente strane, venute dal fondo oscuro dei sonni, e grazie a torsioni e slogature linguistiche carica il teatro magico delle sue veglie (schiave giocoforza nel mondo della modernità) di visioni primordiali. L’onomaturgo di una lingua abnorme plasma un mondo lessicale inusitato e crea, come scrive la traduttrice Ornella Tajani, “un testo fatto di scarti dalla norma, imperfezioni, eccentricità”. Chi traduce una tale materia incandescente non dovrà trascurare l’effetto di sovrapposizione delle lingue – questione evidenziata con nettezza da Tajani nella sua nota alla traduzione.
Insomma, ai dispositivi noti della visione va annessa l’importanza scatenante della lettera (trovata, distorta, manipolata, cambiata, risperimentata aprendo un canale visionario fra due lingue). Così il caso coltivato (o l’errore provocato) permette di accedere all’inconnu, e si fa necessità, come la forma inerte si fa sostanza, senso, suono aperto alle metamorfosi. Il dizionario, il vocabolario, ritenuto di solito un magazzino passivo del sapere, diventa invece primo strumento dell’agire poetico, della creazione di nuovi mondi immaginali.
Facciamo un gioco forse non inutile: così come Jung interrogò l’I Ching su se stesso e sulla propria essenzas, cerchiamo in un vocabolario la definizione di “vocabolario”, in una sorta di mise en abyme lessicale. Troveremo un’avvertenza di Leopardi: “nessuna lingua viva ha, né può avere un vocabolario che la contenga tutta, massime quanto ai modi, che son sempre (finch’ella vive) all’arbitrio dello scrittore”. Perciò, e a maggior ragione in questa “scrittura-come-traduzione”, il vocabolario non è altro che una porta, da cui si entra per poi intrecciare associazioni di parole e uscire verso gli orizzonti insospettati dell’immaginazione. La lettera morta, in mano al poeta, si tramuta in materia viva, in dispositivo di trasformazione del mondo. C’è dunque nel fare poetico un piacere del gesto gratuito, dell’incalcolabile, dell’enigma che rimane tale, fremito di possibilità, e quindi inesauribile: rilanciato costantemente verso nuovi lettori. È un istinto alla base del rapporto umano con la testualità. “La giocosità stessa – ha scritto Stefano Bartezzaghi – è in sé un ethos testuale: svio la mia parola dalla sua funzione di conversazione per farla giocare e con ciò segnalo la possibilità di un piacere verbale che esuli dal senso, cioè dal carattere ’costruttivo’ del discorso”.
Il Rimbaud “illuminato”, nel suo doloroso gioco senza scopo apparente o con falso scopo, inventa una nuova infanzia dell’espressione, uno stato sorgivo della lingua che sembra non avere antenati, e non ricostruisce la visione concreta ma la ri-crea, rinominando per la prima volta quel che viene visto: vertigine verbale, sfida dell’allusione criptata, traduzione e flusso fra lingue e fra livelli non coincidenti del segno e della percezione, unico metodo per “notare l’inesprimibile”.
Ma questo, per quanto offra agli occhi di lettori e critici una serie di motivi e dominanti riconoscibili, non configura un sistema, non è pervio al faro di una verifica logica in cui tutto torni. La chiave è sottratta. Dobbiamo ancora consentire con André Breton: puoi attraversarlo, rileggerlo, approfondirlo, ma “tu non conoscerai mai bene Rimbaud”. E l’onestà e la responsabilità del poeta è nell’essere sì costruttore di linguaggio ma anche (e prima di tutto) corruttore della trama di parola ricevuta, prendendo il suo bene dove lo trova e volgendo ambiguità, doppi fondi e false piste della lingua a un uso generativo, liberatorio. A supremo scorno dei cliché su cui si regge la verbalizzazione condivisa del mondo e delle conversioni semantiche eccessivamente automatiche, da lui parodiate e sabotate, Rimbaud ci porta a eseguire, in veste di lettori-traduttori, i suoi esercizi per le cinque dita dell’immaginazione, sotto la regia capricciosa di una Nuova Ragione multiforme i cui contorni sembrano crearsi direttamente sotto i nostri occhi.
Il potere generativo delle torsioni lessicali, dell’intreccio di senso (sensi) e suono, è parte notevole dell’operazione artistica di James Joyce sul linguaggio.
Fu il fraterno namico di Joyce, Oliver Gogarty, recensendo il Finnegans Wake uscito il 4 maggio 1939 (data meno casuale di quel che possa sembrare, se è il compleanno di Alice Liddell, la Alice del Paese delle meraviglie: e Joyce era attento al tempo, in tutti i sensi) – fu Gogarty a notare con tono sarcastico che il giovane Joyce aveva avuto fra i suoi modelli anche Arthur Rimbaud. A unire i due, oltre la prodigiosa sensibilità linguistica che li portava a immaginare e forgiare “lingue nuove” rompendo il guscio e il cielo falso della convenzione letteraria, è di sicuro l’implicazione dinamica di metodo e abbandono al caso nella loro peripezia poetica. Ma c’è dell’altro: entrambi, vedendosi “al lavoro” come dall’esterno, si sono descritti volentieri, in maniera eloquente, come inventori o ingegneri.
Questo è Rimbaud intorno al 1874: “Sono un inventore ben più meritevole di tutti coloro che mi hanno preceduto; anzi un musicista, che ha trovato qualcosa come la chiave dell’amore”. (Vies, II, nelle Illuminations).
Qui invece una cartolina di Joyce alla sua mecenate Harriet Shaw Weaver, del 1927: “Tutte le macchine che conosco sono sbagliate. Semplicità. Sto facendo una macchina con una ruota soltanto. Niente raggi, naturalmente. La ruota è un quadrato perfetto. Lo vede dove voglio andare a finire, no?” . Quella macchina (una macchina per pensare cose mai pensate) era un Finnegans Wake in piena gestazione, ancora celato sotto il titolo di Work in Progress.
Il potere generativo delle torsioni lessicali, dello spostamento inconsulto di una lettera, dell’intreccio di senso (sensi) e suono, è parte notevole dell’operazione artistica di James Joyce sul linguaggio. Già nel Portrait il giovane Stephen Dedalus compulsa voracemente il dizionario etimologico dello Skeat, ponendo le basi di quella logodaedaly che troverà la sua foce estrema in Finnegans Wake. Come l’incrocio artatamente “incolto” e “infante” fra due idiomi, anche lo studio dell’etimo ci spinge a pensare la lingua “dall’esterno”, creando inciampi, estraneità, rompendo gli automatismi mentali e scomponendo la parola in sillabe e unità foniche staccate. Anche qui c’è la possibilità di scavare “le parole sotto le parole”, ritrovando un’energia latente che può essere attivata dalla capacità di gioco di un lettore che sappia andare nel profondo delle implicazioni del testo.
La prima frase di Ulysses (ha notato Hugh Kenner) presenta ventidue parole, strette fra State(ly) e cross(ed), due dei padroni contro cui Stephen/Joyce lotta: lo Stato e la Chiesa. Il ’22 è l’anno dell’uscita del libro (Joyce era ossessionato dal 2, il fatidico 2/2/’22 era il suo quarantesimo compleanno ), e il numero 22 diviso per 2 dà 11: i giorni vissuti dal figlioletto morto di Bloom, e gli anni che aveva Hamnet, il figlio di Shakespeare, quando morì.
Nell’episodio di apertura Buck Mulligan dice a Dedalus che deve leggere in greco antico:
“Montò di nuovo sul parapetto per osservare la baia di Dublino, con quei suoi chiari capelli quercia pallida lievemente scarmigliati.
– Dio, fece con calma. Non è così che lo chiama Algy il mare, una grigia dolce madre? Il mare verdemuco. Mare scrotostringente. Epi oinopa ponton. Ah, Dedalus, i greci. Devo istruirti. Bisogna tu li legga in originale. Thalatta! Thalatta! È la nostra grande dolce madre. Guarda qua”.
A questo punto il lettore accorto, e già avvertito, potrebbe anche prendere l’invito come un consiglio rivolto a sé. Cercate il greco. Dov’è il greco antico in questa pagina dell’omphalos? Intanto nella caratterizzazione del mare (epi oinopa ponton) che, se leggiamo tutto il verso omerico da cui proviene la citazione (“navigando sul mare colore del vino verso genti straniere”), segnala la vocazione all’apertura, alla diversità e alla conoscenza dell’Ulisse greco: “di molti uomini vide le città, scrutò la mente”, recita l’esordio dell’Odissea. Qui in Joyce la curiositas non è – come in una tradizione che va dal Genesi a Prometeo ad Apuleio per giungere fino a Dante – una inclinazione pericolosa (fugienda) che infine perderà l’individuo, ma semplicemente il dispositivo che permette di vivere, da nicciano “uomo della conoscenza”, in un mondo mutevole, aprendo gli occhi al buio di ciò che è ancora ignoto, preparandosi a mutare con esso, vale a dire mutando al ritmo in cui mutano le circostanze dell’esperienza.
Se il lettore profondo, il “tradulettore”, volesse fare un gioco – nello spazio di gioco che il testo joyciano (anche) è – potrebbe provare a ritradurre all’indietro certe parole.
Il latino invece, quando ricorre in motivi sonori nella memoria, segnala i rimorsi di Stephen e riporta alla liturgia della Chiesa. Nell’Introibo parodico recitato da Buck (simbolicamente “cervo”, contro Stephen che è “bue” – bous stephanómenos – e nel nome reca la “ghirlanda” del sacrificio, del martirio) sulla falsariga del Salmo 42, cose senza rilievo apparente diventano simboli latenti: la ciotola allude al calice della Messa, il rasoio alla lama di Occam e al mestiere del macellaio, la schiuma alla nascita di Venere dalle acque del mare, lo specchio alla mimesi aristotelica, al narcisismo e all’arte irlandese così come l’ha definita Wilde (“lo specchio incrinato di una serva”).
E allora, tornando alla possibilità di cogliere una scintilla di greco nascosto in piena luce sulla tesa del testo, se il lettore profondo, il “tradulettore”, volesse fare un gioco – nello spazio di gioco che il testo joyciano (anche) è – potrebbe provare a ritradurre all’indietro certe parole. Le prime due: Stately, plump. Ritraducendo plump, con il Liddell-Scott di greco antico a portata di mano, abbiamo polytrophos, un termine che è troppo simile al celebre aggettivo qualificante dell’Ulisse omerico, polytropos. E infatti sul dizionario di greco antico è il lemma subito successivo, tradotto con “well-fed, plump”. Ecco qui, di contro all’eroe omerico “dai molti percorsi”, un anti-Ulisse: un uomo borghese, urbano, che i mostri li trova e li combatte non nelle terre estreme ma nello spazio noto e quotidiano di una sua giornata tipica.
Ritraduciamo all’indietro allora anche Stately; cosa potremmo ottenere? Forse semnos, “augusto” (Augustine era il secondo nome di Joyce), “maestoso” così come sono maestose le statue degli dèi. È un caso – o non lo è troppo – allora il fatto che le prime due parole del libro che si proponeva come rivisitazione enciclopedica del sapere collettivo sulla vita, ma anche come rilettura ironica della commedia umana, incorpori due visioni in contrasto: la maestosità seria dell’arte, e della religione (l’archetipo omerico), ma anche un aspetto “grasso” che rimanda al comico, all’inversione, alla desublimazione di tutto ciò che si vuole grandioso. E rimanda, ovviamente, allo stile joyciano che fagocita, capovolge e rivomita ogni minimo dettaglio in cui si imbatta, intrecciando tutto con tutto: sacro e profano, beffa e preghiera, incenso e olezzi di strada.
Un esempio trascurato di arte allusiva, o un caso particolare di gioco linguistico in absentia, dunque: e lo si vede anche in certe catene di parole-suono che si muovono poco dopo quando Mulligan, davanti al mare della torre di Sandycove, dice “a grey sweet mother” e poi “Our mighty mother”, rifacendosi ai greci e alla loro thalatta. Qui, in background, una serie di associazioni mentali (mer e mère, in francese, poi mum, mummer [mimo, pagliaccio: Mulligan] e memory) cela forse (ha notato parte della critica) un perfido richiamo all’espressione mare grega, tipica del dialetto triestino e non propriamente elogiativa. Del resto la userà lo stesso Joyce, in una lettera scritta tra italiano e dialetto triestino a Svevo nel 1921 per farsi inviare lo scartafaccio del “maledettissimo romanzaccione” a Parigi. “Avendo bisogno urgente di quegli appunti per l’ultimazione del mio lavoro letterario intitolato Ulisse ossia tua mare grega rivolgo cortese istanza a Lei, colendissimo collega, pregandola di farmi sapere se qualcuno della Sua famiglia si propone di recarsi prossimamente a Parigi”.
In questo gioco di specchi fra lingue diverse e sepolte, si profila allora una verità non da trovare ma da creare.
Questa ironia latente, ma non meno preziosa di quella manifesta, è un dono di joyicity consegnato in mano al lettore. È la libertà di abbandonarsi a un fantasticare irresponsabile sulle onde del lessico, e delle traduzioni possibili. Vi si può ritrovare quella stessa “euforia” che distingueva Marcel Duchamp, figlia dell’abbandono al caso: e allora l’umorismo diventa apertura all’ignoto, etimologicamente “entusiasta”, non “tribunale sociale” dove il riso sanziona chi non si conforma.
E se pure, come ha pensato Fritz Senn, con polytropos e polytrophos siamo di fronte a una falsa pista o felice caso che segna una consonanza fra il modo in cui Ulysses riscrive se stesso e il modo in cui vorremmo leggerlo noi, il caso, qui, non è elemento di disturbo o entropia ma esattamente il kairós che dà senso a un accadimento: sottratto a un valore unico, a un rigido scopo, come il gioco. Si apre uno spazio di indeterminazione e di possibilità che è gioco, e ci dice che le letture non sono fisse, le interpretazioni non sono strette nelle quattro pareti di quel che è già detto, ma possiamo puntare, lavorando nelle profondità del testo, su molti sensi ancora a venire.
La poesia involontaria delle cose ovvie è uno dei fili conduttori del romanzo che ha indicato una direzione rivoluzionaria alla ricerca del Novecento letterario. Ma molto più di quel che si crede Ulysses è anche traduzione feriale di resti e lacerti “alti” della tradizione, è “refracted meaning” che rimbalza sull’onda di piste illusorie, “false signifiers”, qui pro quo e fraintendimenti che però hanno senso (o meglio: indicano un senso possibile) per il lettore dubitoso, contribuendo così alla costruzione ermeneutica della sua esperienza.
Nel processo della lettura, che avviene in un dato momento del tempo, in questo gioco di specchi fra lingue diverse e sepolte, si profila allora una verità non da trovare ma da creare. Dietro il cliché verbale si coglie una trasformazione nascosta, un metodo che apre già la strada alle vertigini simultanee di Finnegans Wake. L’accettazione del caso, di una parola “coperta” ricostruita, incerta e congetturale, obbliga anche il lettore a creare. Meglio forse dirlo con la deriva della lingua sognante di Bernardo Soares, semieteronimo di Pessoa: “Tutto ciò che l’uomo espone o esprime è un appunto a margine di un testo completamente cancellato. Dal significato dell’appunto deduciamo più o meno il significato che avrebbe dovuto avere il testo; ma rimane sempre il dubbio e i significati possibili sono molti”.
Le traduzioni da Rimbaud sono di Ornella Tajani, da Opere, a cura di Olivier Bivort, traduzione di Ornella Tajani, Marsilio 2019; le traduzioni da James Joyce sono di Enrico Terrinoni, da Ulisse, Bompiani 2021; le traduzioni da Omero sono di Franco Ferrari, Odissea, UTET 2001.