N el suo secolo e mezzo di vita, Piccole Donne di Louisa May Alcott si è prestato a numerose letture, riletture, reinterpretazioni e adattamenti. È un classico della letteratura che parla a pubblici di epoche diverse e paesi diversi. Come può la traduzione conservare la freschezza senza tempo dell’originale? Ne ho parlato con Stella Sacchini, scrittrice e traduttrice di molti classici – per citarne alcuni: Jane Eyre, Martin Eden, Le avventure di Tom Sawyer e, appunto, Piccole Donne – in occasione dell’uscita della sua nuova traduzione di Piccole donne crescono (Gribaudo).
Nella nota alla traduzione in fondo al libro, sollevi la questione della doppia natura di Piccole Donne in quanto classico della letteratura per ragazzi e classico tout court. Quali scelte stilistiche e traduttive hai fatto per conservare entrambi gli aspetti?
Quando mi proposero di tradurre Piccole donne per la UE Feltrinelli, l’idea editoriale che c’era dietro questa scelta andava proprio in questa direzione: il romanzo di Alcott non andava considerato “solo” alla stregua di un libro per ragazzi, ma come un grande classico, al pari di altri titoli della collana, come Jane Eyre o Ritratto di signora. Perciò, in linea con questa idea, ho deciso di mantenere i riferimenti alla cultura di partenza e, se necessario, di spiegarli con delle note in fondo al testo, cosa che non sempre è stata fatta per un libro come Piccole Donne (in alcuni casi i riferimenti culturali del testo di partenza sono stati del tutto eliminati, in altri lasciati senza però fornire spiegazioni al lettore). In linea generale, poi, non sono d’accordo con chi ritiene che un libro per ragazzi debba essere “semplificato” – razionalizzato e impoverito a livello qualitativo e quantitativo, per usare le categorie di Antoine Berman – allo scopo di renderlo più “accessibile”, più “vicino” al lettore di oggi. Piccole donne è un romanzo complesso, che va inquadrato nel contesto sociale che l’ha prodotto, per preservarne la lontananza e l’alterità. Per questo non si possono eliminare riferimenti storici e culturali, né ridurre la profonda stratificazione linguistica dell’originale a una lingua monocorde e piana. Certo, per il lettore di oggi alcuni riferimenti risulterebbero completamente oscuri e inaccessibili, per questo è fondamentale corredare il testo di un apparato di note. Ad esempio, è probabile che molti lettori non sappiano che cosa sia un Hansom cab o una “raganella”(prendo questi esempi dalla seconda parte di Little Women, in Italia noto come Piccole donne crescono, pubblicato da Gribaudo), per cui quando incapperà in queste espressioni potrà fare due cose: passare oltre per non dovere interrompere la lettura o fermarsi, “inciampare”, e andare a leggere la nota, imparando così qualcosa che non sapeva e acquisendo conoscenze che lo aiuteranno a calarsi meglio nel testo, a comprenderlo più in profondità.
La scrittura per Louisa May Alcott non è un passatempo, è un lavoro molto serio che le consentirà di riscattarsi da una precarietà economica che caratterizzò la sua vita fin dai primi giorni.
La prosa di Alcott è varia, ricca di espressioni vivaci, e il registro si alza e si abbassa a seconda di chi parla o che si tratti di pezzi narrati o discorsi diretti. Come hai affrontato questo aspetto in traduzione? Per alcune espressioni idiomatiche del testo originale esiste il corrispettivo italiano, per altre invece è necessario creare da zero un’espressione idiomatica. Come sei arrivata, per esempio, alla traduzione calzetta e salamelecchi per prunes and prisms dell’originale?
Tuttavia, il testo è stratificato, esistono diversi livelli di fruizione, rimandi intertestuali, isotopie, metafore estese che solo il lettore più consapevole riesce a cogliere. Ovviamente il traduttore può fare molto per restituire al lettore un testo che conservi il più possibile questa complessità, questa stratificazione. Lo può fare con le note, come dicevamo prima, ma è chiamato a farlo anche e soprattutto restituendo la grande varietà della prosa alcottiana, l’ironia che spesso permea la narrazione, i doppi sensi, i giochi di parole, la grande inventiva linguistica. In questo passaggio da una lingua all’altra ci sono cose più difficili da “salvare”, e di certo sono quelle più connaturate, più radicate, più proprie della lingua: i realia, i culturemi, gli idioms, gli errori. La difficoltà sta nel fatto che non c’è mai una vera corrispondenza fra le lingue, e il traduttore opera e si muove cercando di colmare continuamente questa sfasatura, questo slittamento. A volte si riesce a trovare qualcosa che funzioni bene anche nella nostra lingua, qualcosa che esiste già, a volte bisogna “inventarselo”, attraverso un gesto creativo ermeneutico: come a dire che è la lingua da cui traduciamo, con le sue strutture e le sue regole, ad autorizzarci a farlo. Venendo all’esempio, “prunes and prisms” è per l’appunto un idiom che indica un modo di parlare e comportarsi molto formale, cerimonioso e affettato ma anche bacchettone e moralista. L’espressione è stata usata per la prima volta da Charles Dickens nel romanzo La piccola Dorrit per indicare un modo di parlare consono e formale, adatto e consigliabile nel caso in cui il parlante sia una giovane donna.
If you want to become a proper lady, be sure to practice your prunes and prisms.
Un discorso a sé meriterebbe la resa dei dialoghi: nella Nota alla traduzione di Piccole donne dedichi ampio spazio a questo aspetto. Come parlano le sorelle March e i personaggi creati dalla scrittrice? E come hai fatto per rendere la loro lingua?
Nella seconda parte di Little Women (le nostre Piccole donne crescono) la lingua dei dialoghi si fa ancora più ricca e variegata, perché entrano in scena nuovi personaggi, e quindi nuovi mondi linguistici, tra cui Mr Bhaer, professore tedesco che Jo conosce a New York e che poi diventerà suo marito, e i bambini, in primis il piccolo Demi, il figlio maschio di Meg. Friedrich “Fritz” Bhaer, in originale, parla un inglese un po’ zoppicante infarcito di termini tedeschi: trovare, in italiano, una lingua che riproduca questa identità linguistica ibrida, costituita dalla sovrapposizione di lingue diverse, non è facile, e il rischio di ridicolizzare il personaggio facendolo parlare come parlano certi personaggi tedeschi nei film (doppiati), con la “p” al posto della “b” e la “t” al posto della “d” (pampini, tetesco), e quindi riducendolo a una macchietta, è altissimo. Ho quindi optato per una lingua poco fluida e un po’ innaturale, che desse l’idea della fatica di esprimersi in un idioma straniero non perfettamente padroneggiato; a tal fine mi sono servita di alcuni errori che spesso commette chi si trova a parlare in una lingua che non è la propria lingua madre, come i calchi semantici e lessicali. Ad esempio, quando Mr Bhaer propone a Jo di insegnarle il tedesco per ringraziarla di avergli rammendato i calzini di nascosto, Jo gli risponde che non vuole portargli via tempo, visto che è molto occupato, e poi aggiunge che per le lingue lei è un po’ “dura di comprendonio”, al che lui prende alla lettera questa espressione e replica, esordendo con un’interiezione che esprime disaccordo: “Prut! Noi troveremo il tempo, e anche comprendonio faremo più morbido. Ci vedremo la sera per una piccola lezione, e io sarò molto felice di questo perché, vedete, Segnorina Marsch, con voi ho un debito che voglio pagare […]. Sì! Avranno detto l’una con altra le mie signore gentili ‘Quel vecchio ricitrullito non si accorgerà di niente di quello che noi facciamo; lui non noterà che i calcagni di suoi calzini non fanno più buchi; penserà che i bottoni rispuntano per contro loro dopo che cadono, e crederà che le stringhe crescono da sole’. Ah! Ma io ho gli occhi, e vedono anche molto bene. Io ho un cuore e mi sento molto grato per questo. Vi prego, una piccola lezione ogni tanto, o se no… niente più fatine buone che fanno lavori per me”.
E poi c’è la lingua dei bambini, ad esempio quella di Demi, il figlio di Meg, che è piccolo e non sa pronunciare bene le parole. Nella resa della lingua dell’infanzia, che, come ha scritto George Steiner in Dopo Babele, non è “una versione inferiore ed embrionale” della lingua degli adulti, ma una lingua che ha una sua autonomia, una sua compiutezza, ho cercato di riprodurre quel “territorio linguistico” con una serie di espedienti: il raddoppiamento delle consonanti, soprattutto le labiali, e l’alterazione delle vocali (Demi dice “pappo” anziché “papà” – in inglese “parpar” al posto di “papa”); l’uso della terza persona singolare per riferirsi a se stesso (Demi non dice “io”, bensì “Demi”: “Anche Demi vuole tè!”) e delle frasi nominali (“Demi tanto bene pappo”, “adesso Demi buono”); la semplificazione di gruppi consonantici che richiedono un’articolazione più complessa (“biccottino” per “biscottino”, “guaddo” per “guardo”, “quetto” per “questo”, “potta” per “porta”); la difficoltà a pronunciare i fonema /s/ e /r/, spesso sostituiti rispettivamente con i fonemi /t/ e /l/, o in alcuni casi eliminati del tutto (“tì” al posto di “sì”, “ape” per “apre”, “davveo” per “davvero”); parole storpiate, a volte con esiti piuttosto divertenti, come “gnogno” per “nonno”, “cerbellino” per “cervellino”, “lologio” per “orologio”.
Tutto questo va fatto, ovviamente, con l’intento di creare una lingua che sia viva e credibile, anche se si tratta di dialoghi che appartengono a un libro scritto in un’epoca lontana dalla nostra: per rendere quella lontananza, quell’estraneità, non avrebbe senso creare a tavolino una lingua artificiale, che non è esistita in passato né esiste nel presente. Si traduce sempre inserendosi nella fluvialità della lingua in cui viviamo. All’interno di questa fluvialità cercheremo di trovare un equilibrio, perché anche l’estrema modernizzazione può costituire un rischio. Non credo che le sorelle March potrebbero mai dire “scialla” o “fuori come un balcone”, neanche Jo. Insomma, è un lavoro di cesello, un’impresa funambolica. Sbilanciarsi da una parte o dall’altra significherebbe precipitare nel vuoto. Il classico ha una vitalità tale che non agisce solo nel passato, ma anche nel presente, e attraverso il presente contribuisce a costruire il futuro: forte di questa consapevolezza, il traduttore deve essere disposto a correre molti rischi.
Si traduce sempre inserendosi nella fluvialità della lingua in cui viviamo: all’interno di questa fluvialità cercheremo di trovare un equilibrio, perché anche l’estrema modernizzazione può costituire un rischio. Non credo però che le sorelle March potrebbero mai dire “scialla” o “fuori come un balcone”, neanche Jo.
Sono pochi i passaggi in cui utilizzi termini più datati e meno in uso al giorno d’oggi (ad esempio rampognare per tradurre “to peck” o “empito melodrammatico” per il “melodramatic fit” di Laurie quando prende in giro Meg davanti finestra). In questi casi c’era qualche elemento del testo originale che ti ha portata a fare questa scelta?
Il romanzo è costellato di brevi poesie, spesso in rima. Quale strategia hai utilizzato per la traduzione di questi componimenti? Cosa hai ritenuto più importante mantenere alle strette: la musicalità e le rime o il contenuto?
Esistono moltissime traduzioni di questo classico. Prima di imbarcarsi in questo progetto di ritraduzione si è documentata sulle precedenti traduzioni? Cosa ti ha spinta a credere che ci fosse la necessità di dare una nuova interpretazione al romanzo?
Per quanto riguarda invece la necessità di una nuova versione dei due romanzi (Piccole donne e Piccole donne crescono), in questo caso direi che era quanto mai urgente, visto che esistevano poche traduzioni recenti, e le vecchie traduzioni soffrivano un po’ di quel “pregiudizio” di cui soffrono i romanzi cosiddetti “per ragazzi” o “per l’infanzia”. Ma più in generale la pluralità delle traduzioni è sempre un bene, è sempre una ricchezza, soprattutto se si tratta di un classico, un testo per sua natura caleidoscopico. Ogni traduzione è appunto un’interpretazione, e quindi ci restituirà un aspetto, un’idea dell’originale: per questo la traduzione è per sua natura sempre plurale: esistono tanti Martin Eden, tante Jane Eyre, tante Jo March, e sono tutte non solo possibili, ma anche necessarie, addirittura “salvifiche”.