I l panorama era apocalittico con detriti sparsi ovunque. I pezzi di vetro e le macerie degli edifici avevano riempito le strade. Le persone ferite meno gravemente si trascinavano, cercando le autoambulanze che nel caos sfrecciavano in tutti i sensi di marcia”.
Karim Nader
A raccontarlo è il noto architetto Karim Nader, da anni impegnato in progetti di recupero e valorizzazione del patrimonio urbanistico e culturale della capitale libanese. Nel pomeriggio che ha sfigurato il volto di Beirut non si trovava al lavoro nel proprio studio, situato nelle vicinanze del porto, dove il 4 agosto di un anno fa sono esplose svariate tonnellate di nitrato d’ammonio, tenute per anni in un deposito portuale, ma era ospite nell’abitazione di una conoscente colpita anch’essa dalla deflagrazione non atomica più potente mai registrata.
Nel volgere di pochi istanti la città si è trasformata in una zona di guerra. Le investigazioni non hanno delineato lo scenario della gravissima ferita inferta a Beirut e molte domande sull’accaduto restano tuttora insolute. Trecentomila persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni distrutte dall’impatto, che si è esteso per oltre dieci chilometri. La richiesta di verità e giustizia da parte dei famigliari delle 207 vittime e dei circa settemila feriti si scontra, come denunciano i comitati di difesa, con la mancata determinazione politica di acclarare le negligenze o l’atto violento che hanno prodotto tale disastro per i civili, le proprietà pubbliche e quelle private.
Il nitrato d’ammonio era arrivato a Beirut su una nave che avrebbe dovuto condurre il carico dalla Georgia in Mozambico. La Rhosus, battente originariamente bandiera moldava, dal settembre del 2013 non è mai più salpata dal porto della capitale. L’autorità giudiziaria l’aveva posta sotto sequestro per problemi tecnici e finanziari. Nell’ottobre del 2014 le 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio sono state scaricate dall’imbarcazione nell’Hangar 12 su ordine dell’autorità portuale di Beirut. Negli anni alla pericolosità di tale deposito non sono seguiti interventi di messa in sicurezza, seppure l’allarme fosse arrivato alle massime autorità dello Stato fino a pochi giorni prima del boato. L’agenzia di stampa Reuters ha appena riportato la notizia, contenuta in un report del 7 ottobre 2020 dell’FBI, coinvolta dalle autorità libanesi nelle indagini, secondo cui delle 2750 tonnellate del carico sarebbe esplose solo 552. Dove sarebbero scomparse le altre?
Le investigazioni non hanno delineato lo scenario della gravissima ferita inferta a Beirut e molte domande sull’accaduto restano tuttora insolute.
“La situazione era irreale – racconta Nader –. Lo spazio urbano era diventato completamente disfunzionale. L’architettura non aveva più la capacità di proteggere gli abitanti. Il pensiero si è rivolto alla possibilità di un attacco di matrice terroristica. A un anno di distanza non ci sono ancora prove che sostengano l’ipotesi si tratti semplicemente di un incidente dovuto all’incuria. L’esplosione è stata di tale ampiezza e potenza che è spontaneo interrogarsi sull’eventuale regia”.
Gli abitanti di Beirut lottano tutti i giorni. Vivere a Beirut significa sapersi battere, però questo trauma ha scavato in profondità l’anima dei cittadini, provocando oltre ai danni materiali una sensazione, amplificata dalla pandemia, di vuoto, abbandono e freddo: l’effetto dell’esplosione si accompagna alla crisi politica ed economica finanziaria.
Nader, autore di For a Novel Architecture, che ne raccoglie il cui percorso umano, professionale e le idee grazie a un progetto finanziato dall’Agenzia Svizzera per lo Sviluppo e la Cooperazione, si è occupato del recupero dell’agibilità di dieci scuole colpite il 4 agosto e dà il quadro dello stato della ricostruzione: “Per quanto riguarda la zona del porto le opzioni in campo non sono state messe in cantiere. Non sono state assunte decisioni. In Libano è difficile interagire con qualsiasi cosa riguardi il governo a causa della corruzione. Le istituzioni internazionali, disposte a sostenere gli interventi, mostrano una grande esitazione nell’elargire fondi sotto forma di liquidità monetaria. Offrono aiuti materiali, affinché il denaro non si disperda nei rivoli della corruzione. Insieme al vuoto politico, manca ancora un piano urbanistico complessivo per il porto”.
La ricostruzione del porto si inserisce in una sfida urbanistica più ampia per Beirut, che si misura con la carenza delle risorse e il caos che ne ha segnato dallo sviluppo impetuoso e fuori da piani di regolazione dall’alba del Duemila. Nader segnala in questo senso un passaggio normativo fondamentale: “L’assenza di un quadro legislativo preclude la piena preservazione del patrimonio artistico. Manca una vera politica di conservazione dentro a una visione generale dello spazio urbano. Beirut non sarà mai una città omogenea, ma si dovrebbe proteggerla dalla speculazione già fortemente avanzata”.
Lo scenario di distruzione del 4 agosto richiama alla relazione complessa tra la città e le sue rovine stratificate.
Lo scenario di distruzione del 4 agosto richiama alla relazione complessa tra la città e le sue rovine stratificate: “È la questione chiave per ogni architetto. Nel caso di Beirut rapportarsi con le rovine non è una metafora, ma una questione fisica, materiale. Ci si interroga sul tipo di azione, se debba essere prettamente conservativa, di semplice restauro o qualcosa di più profondo. Senza un riconosciuto valore artistico degli immobili, penso che i nostri progetti debbano orientarsi verso la contemporaneità, rendendo più armoniosa la città”.
Mathias Énard
Lo scrittore francese Mathias Énard guarda ai tormenti di Beirut, città crocevia della sua esistenza e produzione letteraria, da Barcellona dove risiede da quindici anni ed è professore di arabo dal quale è anche traduttore dopo un decennio di studi in Medio Oriente. Énard è innanzitutto un grande viaggiatore, che dall’età più giovane ha concretizzato la curiosità dell’esplorazione di mondi considerati erroneamente lontani da noi. Nato nel 1972, dopo aver studiato lingue orientali a Parigi ed essersi formato in storia dell’arte all’École du Louvre, ha vissuto in Iran, Egitto, Libano, Tunisia, Siria. Bussola è il romanzo che nel 2015 lo ha consacrato a livello internazionale con la conquista del Premio Goncourt, e ha concorso per il Man Booker Prize. L’ultimo libro pubblicato in Italia è una raccolta di poesie dal titolo Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona (e/o, traduzione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta), una sorta di autobiografia in versi che corrisponde alla mappa dei suoi viaggi fondamentali in luoghi ricchi di storia e ferite: da Beirut ai Balcani risalendo nel cuore della Polonia, con il suo spirito cosmopolita capace di interpretare la dialettica tra Oriente e Occidente.
Cresciuto a Niort, una cittadina della Provenza, Énard ha considerato il viaggio una sorta di liberazione dai confini della provincia con la passione per il mondo arabo che l’ha mosso, e il suo primo viaggio è stato proprio in Libano: “Da giovane avevo raggiunto Beirut dopo la fine della guerra civile per misurarmi con il reportage, ma mi sono reso conto che non era il giornalismo il mio desiderio. L’ho sempre sentito come un luogo dell’anima. È stato la mia scoperta del mondo. Sono arrivato senza conoscere la lingua e con una conoscenza mediata della realtà, soprattutto dopo un conflitto atroce”.
Trovò un paese distrutto, pieno di mine e confini interni violenti: “Il grande amore per il Libano, come per la Siria, nasce dalle profonde diversità religiose e culturali che lo caratterizzano. È un paesaggio incredibilmente vario dalla costa alle montagne”. Che cosa racconta di noi questo paese? “È una fonte originale dell’umanità – osserva –. È il sogno che ha conquistato gli orientalisti. Il Libano ha anche un rapporto con il passato, che è parte stessa del paesaggio, abbastanza straordinario dai fenici al Medioevo musulmano. Europa è una principessa fenicia rapita da Zeus sulle coste del Libano. Non amo la definizione di mosaico di popolo, perché risponde all’idea di un disegno unico, mentre in realtà tutto è in movimento sull’orlo del precipizio: sono queste le sfide di convivenza che ci appartengono”.
Quasi il 50% della popolazione libanese è sotto la soglia di povertà, aggravata dall’ultima tragedia.
Osservo che nel componimento dedicato Beirut sembra restituirci la condizione odierna della città con un senso di smarrimento, rabbia e paura: “Sì, l’atmosfera assomiglia alla situazione che ho vissuto negli anni Novanta. Si ha l’impressione che la città piombi nell’acqua dalla montagna. L’economia non è stata salvata dal puntare sulla ricchezza del turismo arabo. La città resta divisa in due malgrado se stessa, con il centro ricostruito dove però non va nessuno. Negozi di grande lusso, un bazar per i ricchi stranieri. Le trasformazioni indotte dalla guerra la rendono in eterna costruzione. Beirut brilla di mille luci con lo spirito di accoglienza dei suoi abitanti ma al contempo è buia, non soltanto per la carenza di energia elettrica: perché è la capitale della corruzione e dell’impossibilità della vita libera”.
Quasi il 50% della popolazione libanese è sotto la soglia di povertà, aggravata dall’ultima tragedia. Dal 4 agosto 2020 il valore della lira è crollato. Come spiega Abdallah Alwardat, Direttore del World Food Programme in Libano: “L’esplosione al porto di Beirut non è soltanto il ricordo di qualcosa che è successo un anno fa. È una realtà che ancora perseguita la popolazione libanese in ogni aspetto della loro vita. Nel corso dello scorso anno ho incontrato famiglie che prima dell’esplosione vivevano una vita tranquilla e ora si trovano a doversi preoccupare dei beni di prima necessità come cibo, affitto e medicine”.
Mazen El Murr
Una condizione di crisi che nuoce soprattutto ai più giovani e alle loro prospettive di costruire un futuro nel Paese. Mazen El Murr ha trent’anni e si è laureato in architettura a Beirut nel 2013. Dopo due anni di lavoro ha deciso di trasferirsi a Roma per la magistrale in Restauro e conservazione dei monumenti architettonici presso l’Università La Sapienza, dove ha completato gli studi nel 2018. Il ritorno in patria ha coinciso con un lieto evento personale, il matrimonio, e con il movimento di protesta che ha rotto gli argini nell’ottobre del 2019 e unito trasversalmente i manifestanti al di là dell’appartenenza confessionale, di classe e territoriale.
“Abbiamo trascorso un anno nelle strade contro il governo, chiedendo un cambiamento nel sistema politico corrotto del paese che ancora dipende dai leader politici delle varie comunità confessionali che puntano sempre a controllare i rispettivi gruppi e a governare sulla divisione. Da un decennio il vuoto governativo è assoluto. I criminali e satrapi della guerra civile, rimasti sorpresi dal movimento, pretendono ancora di guidare il Paese in un periodo di pace apparente. Ogni libanese è colpito da questo, indipendentemente dall’appartenenza. Tutto ciò si è protratto fino al disastro del 4 agosto”.
Mazen vive con la famiglia a Geitawi Achrafiyeh non distante dallo studio di Nader e dall’area portuale. La casa ha subito pesanti danneggiamenti a causa dell’esplosione, con le finestre divelte, il portone sbalzato fino al soggiorno pieno di detriti, ma nessuno si è fatto male perché erano ancora nei luoghi di lavoro. Dopo la deflagrazione è scattata la corsa verso casa per rendersi conto di quanto fosse avvenuto. Lungo la strada brancolavano persone sanguinanti, le macchine erano accartocciate e i tre grandi ospedali della zona non riuscivano più a operare. A Beirut è andato in scena il blackout totale; non c’erano cibo, acqua, non funzionava nulla: “I feriti erano portati in braccio o con altri mezzi di fortuna, ma dovevano essere ricoverati in strutture lontane. Negli edifici adiacenti al nostro almeno quindici persone sono decedute. È un trauma che non abbiamo superato: una giornata apparentemente normale ci ha stravolto l’esistenza. In pochi secondi è sembrato che nulla potesse più reggersi in piedi”.
Con l’aiuto di amici Mazen ha liberato l’abitazione dalle macerie e ha cominciato a prendersi cura della situazione dei vicini, molti dei quali sono anziani. Mazen ha reagito al trauma e all’emergenza con il recupero di uno spazio abbandonato da tre anni, ma funzionale, per la raccolta di beni di prima necessità da distribuire a Geitawi Achrafiyeh. I ruderi di una stazione di servizio per il rifornimento di carburante, situata a cinquecento metri dal porto, sono diventati una Civil Society Organisation, che si differenzia dalla classica ONG, registrata con il nome Nation Station: “All’inizio l’avevamo concepita come una misura di intervento a breve termine, mentre ora è diventato strutturale, con la logica di costruire una comunità fondata sulla solidarietà e sulla reazione concreta all’assenza completa dello Stato. Abbiamo attivato progetti di assistenza nel quartiere per assicurare il maggior numero possibile di pasti caldi, fino alla distribuzione di medicinali che scarseggiano ovunque”.
Nei mesi successivi alla tragedia gli attivisti hanno creato un database per coordinare gli interventi nelle abitazioni danneggiate a Geitawi Achrafiyeh. La zona è molto residenziale. Le costruzioni risalgono all’edilizia degli anni Sessanta e Settanta che già richiedevano delle ristrutturazioni. Dall’autolavaggio della stazione di benzina è stata ricavata una cucina con un forno industriale nella quale si alternano cittadini del quartiere: “A livello istituzionale non abbiamo alcun riconoscimento e sostegno. L’Esercito ci ha lasciato carta bianca nell’occupazione dello spazio, perché ha visto che sopperiamo a ciò che dovrebbe fare lo Stato. L’assenza della politica ci ha ridotto in questa condizione: ora dalla protesta in strada siamo passati a un ruolo costruttivo”.
La parola d’ordine per Nation Station è la trasparenza, che manca alle istituzioni, a cominciare dai donatori. Mazen sottolinea che la mobilitazione proseguirà per mantenere alta la pressione, unendo a essa la politica dei piccoli cambiamenti dal basso. Non è pentito della decisione di tornare a Beirut anche se è consapevole che l’emigrazione rimanga la prima opzione per i giovani pure lacerati dal bivio posto davanti: “Non percepiamo la migrazione come una nostra scelta. È il paese che ci sta buttando via. Chi resta per amore del Libano deve resistere e organizzarsi politicamente, perché servirà tanto tempo per cambiare un sistema così corrotto”.
Nation Station, riconoscibile da un telo bianco con la scritta in spray rosso, è collocata lungo un’arteria stradale principale della città, perciò è stata un punto funzionale di raccolta e consegna degli aiuti. “La serie di manifestazioni, partite due anni fa, ha strutturato relazioni umane e politiche nel territorio con esercizi di democrazia di base ramificati nei quartieri ed estremamente concreti. Attraverso Nation Station, sentendo la responsabilità di rendere efficiente il servizio, abbiamo attuato una strategia per la sicurezza alimentare. La condizione psicologica di disperazione non annienta la speranza di cambiare”.