Q ualche settimana fa Ivan Carozzi ha dedicato un intrigato e intrigante articolo su questa rivista alla vicenda di Borante Domizlaff, un ex-maggiore delle SS coinvolto nella strage delle Fosse Ardeatine, che si ritrovò a recitare proprio la parte di un tedesco fucilatore di partigiani nel film del 1961 Una vita difficile di Dino Risi, interpretato da Alberto Sordi e scritto da Rodolfo Sonego. Situazione particolarmente paradossale perché Sonego era stato un importante capo partigiano del bellunese e il film lo aveva costruito in termini largamente autobiografici. Carozzi si è chiesto giustamente come sia stato possibile; ha fatto ricerche, ha intervistato esperti, senza arrivare a una conclusione certa, se non che della circostanza gli esperti non sembravano a conoscenza. “Avrebbe meritato di diventare un fatto noto a tutti – ha commentato – avrebbe potuto ispirare l’inchiesta di un critico cinematografico che gioca a fare lo storico o viceversa”.
Ecco, io credo di essere quel “viceversa”. Sono quasi cinque anni che mi pongo quella stessa domanda, cinque anni che ho cominciato a scavare in quelle biografie, a ricostruire quelle circostanze. Questi anni passati a raccogliere documenti, mettere insieme piccole tessere di un mosaico complesso, che si è via via allargato ad altri personaggi, ad altri nazisti e ad altri film, mi offrono ora la possibilità di rispondere ad alcune delle domande e delle ipotesi del bell’articolo di cui sopra. Non c’è ancora, si badi, “la” risposta. La spiegazione unica e conclusiva di questa “circostanza eccentrica e straordinaria nella storia del cinema italiano”. È tuttavia possibile dare alcune spiegazioni ed escluderne altre, che poi potranno contribuire a disegnare un più vasto quadro d’insieme di un fenomeno che va ben oltre Domizlaff e Sonego.
È possibile che l’ex-comandante partigiano non sapesse che a interpretare il “tedesco cattivo” era un “tedesco cattivo” vero, che solo pochi anni prima, nel 1948, era stato processato accanto a Herbert Kappler per le Fosse Ardeatine, pur uscendone assolto? Carozzi e il biografo di Sonego, Tatti Sanguineti, pensano ragionevolmente di no e avanzano un’ipotesi affascinante: portare Domizlaff nel film, fargli interpretare un personaggio in una commedia, che viene ucciso da una ragazza con un colpo di ferro da stiro in testa era “un modo di vendicarsi dell’invasore”, una vendetta che per di più “si sarebbe consumata in modo occulto”, poiché “il pubblico in sala, probabilmente, non era a conoscenza della reale identità del soldato ucciso da Lea Massari. Domizlaff, quindi, era lì per un gioco che specialmente Sonego avrebbe potuto apprezzare e che tuttavia, in modo recondito, aggiungeva profondità e strati di colore e significato a un’opera che resta tra le più grandi e amate del nostro cinema”.
Carozzi pensa “probabile che la Dino De Laurentiis Cinematografica non ritenne di divulgare la notizia della presenza di Domizlaff nel film” e che per questo la stampa e il pubblico non se ne siano accorti. Quali che fossero le intenzioni della produzione, la paradossale presenza di Domizlaff nel film non fu comunque segreta. Il suo vero nome e il suo vero cognome, così bizzarri e distinguibili, appaiono in bella vista al terzo posto del primo cartello tra gli attori accreditati di parti minori e sono ripetuti da allora in tutte le filmografie. Non sappiamo se l’ex-SS fosse anche presente alla prima del film, il 19 dicembre 1961 al cinema Barberini di Roma, tra attori come Anna Magnani e politici di sinistra come Riccardo Lombardi, primo prefetto di Milano dopo la Liberazione. Ma avrebbe potuto esserci, perché l’uomo delle Fosse Ardeatine in quel film non era solo una “comparsa”. Se quello di Sonego era un raffinato gioco vendicativo, esso appare ancor più audace perché “nascosto in piena vista”, secondo un topos della letteratura gialla.
È possibile dare alcune spiegazioni ed escluderne altre, che potranno contribuire a disegnare un più vasto quadro d’insieme di un fenomeno che va ben oltre Domizlaff e Sonego.
Altrettanto affascinante, la supposizione avanzata dalla storica Anna Foa nel pezzo di Carozzi: Domizlaff “potrebbe aver accettato il ruolo perché spinto da un ‘rivolgimento interiore’, che potrebbe aver portato il vice di Kappler a sottomettersi romanzescamente alla vendetta e all’umiliazione architettata da Sonego”. Per chiarirlo, si legge, sarebbe utile sapere “se dopo la guerra Domizlaff possa essere rimasto in Italia, dove, in tempo di pace, potrebbe aver maturato una riflessione. Sarebbe interessante scoprire dove Domizlaff proseguì la propria esistenza, in quali strade, in quale casa, in quale città e con chi, come si guadagnò da vivere, quanta familiarità acquisì con la lingua italiana”. Ipotesi affascinante, ma non sostenibile. La ricerca di questi anni consente di rispondere piuttosto compiutamente agli interrogativi biografici e, proprio per questo, di escludere che Domizlaff abbia mai provato alcun dubbio su quanto accaduto, men che meno un “rivolgimento interiore”.
Domizlaff arrivò a Roma nel settembre 1943, parte del piccolo gruppo di ufficiali e sottufficiali delle SS spediti di corsa a dar man forte a Herbert Kappler, incaricato di costituire il comando romano della polizia di sicurezza germanica. Aveva una laurea in Diritto delle assicurazioni (“Il giurista”, lo chiamava con un certo scherno Kappler, che era invece un poliziotto), e aveva sempre lavorato nella “Sezione III” degli Uffici dei servizi segreti e di sicurezza delle SS, incaricata di valutare gli atteggiamenti della popolazione civile. Analogo ufficio costituì a Roma, con sede in Villa Massimo, alle spalle della famigerata prigione di via Tasso, ma nei primissimi giorni fece un po’ di tutto; racconterà, per esempio, di aver partecipato alla “occupazione” del ministero della Guerra, con Kappler e due paracadutisti.
Arrivato con il grado di Hauptsturmführer (capitano), fu promosso Sturmbannführer (maggiore) all’inizio del 1944; pur non essendo tecnicamente il vice-Kappler, era dunque il più alto in grado dopo il comandante. Come tutti gli ufficiali del comando, fu alle Fosse Ardeatine e sparò, entrando nelle cave della morte con il primo gruppo. Con l’arrivo degli alleati a Roma, fu spostato prima a Verona, poi a Venezia e nelle ultime settimane di guerra a Monza.
Mi sono, naturalmente, chiesto se nel ‘44-45 possa aver avuto un contatto “di guerra” con Rodolfo Sonego. Non si sa moltissimo della guerra partigiana condotta da Sonego; noto per essere un grandissimo affabulatore, sulle soglie della propria esperienza partigiana lo sceneggiatore si fermava sempre: “Era un argomento tabù, quello della guerra”, ricorda Giulio Sonego, il figlio: “Della guerra, con mio padre non potevi parlarne. Era un grande viaggiatore, è andato ovunque, ma l’unico posto dove non andava era la montagna, perché gli ricordava la guerra”. Anche con Tatti Sanguineti, che lo intervistò per il libro, rifiutò di entrare nei dettagli.
Se quello di Sonego era un raffinato gioco vendicativo, esso appare ancor più audace perché “nascosto in piena vista”.
I documenti raccontano che Sonego comandò la brigata garibaldina “Fratelli Bandiera” sull’altopiano del Cansiglio fino al drammatico autunno-inverno del 1944, seguito ai grandi rastrellamenti tedeschi dell’estate. All’inizio del 1945 la Resistenza nel bellunese si riorganizzò in due divisioni e Sonego diventò vice-commissario e poi commissario della divisione Belluno fino alla fine della guerra.Tra le altre incombenze del commissario (nome di battaglia “Cellini”) c’era anche il controllo di Dalle vette al Piave, il giornale ciclostilato della divisione Belluno che si reincarnerà nel giornale La Scintilla, curato dal partigiano cinematografico Silvio Magnozzi, inventato dal partigiano reale Rodolfo Sonego per il film Una vita difficile.
Non ho trovato documenti o testimonianze che indichino un possibile rapporto Sonego-Domizlaff a cavallo del 1944-1945, né d’altra parte gli incarichi del maggiore delle SS fanno supporre che avesse alcun ruolo diretto nella repressione della guerra partigiana.
Alla fine del conflitto Domizlaff fu fatto prigioniero dagli inglesi. Detenuto nel campo di Sandbostel (che fino a poco tempo prima aveva “ospitato” gli internati militari italiani che avevano rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò), fu ritrasferito in Italia nel 1947 per il processo delle Fosse Ardeatine. Nei mesi di prigione a Forte Boccea e a Regina Coeli decise di convertirsi al cattolicesimo per ragioni utilitarie, come ammetterà più tardi. Durante il processo sedeva in prima fila accanto a Kappler, con indosso l’improbabile uniforme della Organizzazione Todt, quella che gestiva per i nazisti il lavoro coatto in mezza Europa. La sentenza del 1948, come è noto, condannò Kappler all’ergastolo, ma mandò assolti i coimputati perché agirono “nella esecuzione di un ordine”, senza essere consapevoli che si trattava di un “ordine illegittimo”.
Assolto, ma non ancora libero: Domizlaff e gli altri furono internati nel campo per “stranieri indesiderabili” a Fraschette di Alatri; con ampi, sia pur selettivi, margini di libertà: “Massima libertà agli ex nazisti. Carcere e persecuzione agli esuli antifascisti”, titolava alla fine del 1951 un’inchiesta dell’ Avanti! raccontando che gli ex-militari tedeschi internati potevano uscire dal campo, andare ad Alatri o anche a Roma. Ma a quel punto “il giurista” delle SS romane era già fuori da 14 mesi.
Vedovo (la moglie, rimasta a Stettino, era morta in circostanze drammatiche durante l’avanzata sovietica) e senza un vero mestiere cui ritornare, Domizlaff aveva cercato per due anni un modo per restare in Italia. Come ha notato Ivan Carozzi, chiese lavoro (invano) anche a monsignor Alois Hudal, il vescovo austriaco che nel dopoguerra aiutò i più bei nomi del nazismo in fuga. Una soluzione poteva essere il matrimonio con un’italiana. Finita una possibile storia con una donna che aveva lavorato come interprete durante l’occupazione, fece infine conoscenza con un’altra ragazza, molto più giovane di lui, e la sposò nella primavera del 1950. Alla fine di agosto lasciava Fraschette definitivamente.
Per 15 anni Borante Domizlaff, ex-maggiore delle SS, partecipe del massacro delle Fosse Ardeatine, assolto dalla giustizia italiana, è vissuto tranquillamente con la sua famiglia a Roma.
Per 15 anni Borante Domizlaff, ex-maggiore delle SS, partecipe del massacro delle Fosse Ardeatine, assolto dalla giustizia italiana, è vissuto tranquillamente con la sua famiglia a Roma: per breve tempo a Genzano (una località dei Castelli romani), poi in un appartamento nel quartiere di Monteverde vecchio e infine ai Parioli, a casa di parenti. Era o cercava di essere una vita il più possibile “italiana”; l’italiano, d’altra parte, era l’unica lingua della famiglia, dove presto arrivarono anche dei figli.
Il problema principale, però, era il lavoro. A differenza di altri commilitoni, non risulta che Domizlaff abbia lavorato o abbia avuto contatti organici con i servizi segreti italiani o americani, che in quegli anni non si facevano scrupolo di reclutare ex-nazisti in funzione anti-comunista. L’unico lavoro che a quanto pare svolgeva era proprio nell’ambito del cinema: i famigliari ricordano vagamente che fosse “traduttore italiano-tedesco a Cinecittà”. Gli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni d’oro del cinema italiano, avevano bisogno di interpreti di tedesco, per curare i dialoghi dei film di guerra, tradurre soggetti destinati o provenienti dall’estero, o per tenere i contatti con società tedesco-occidentali, in occasione di co-produzioni e accordi di distribuzione.
Domizlaff, insomma, viveva di e nel cinema. Frequentando l’ambiente pensò persino che avrebbe potuto vendere qualche soggetto; ne scrisse, senza gran fortuna, almeno tre (due sulla guerra in Italia!). Poteva dunque sembrare naturale a una produzione rivolgersi al “tedesco della porta accanto”, per interpretare piccole parti di militari tedeschi. Chi meglio di lui? Una vita difficile, infatti, non fu un episodio isolato. La ricerca è ancora in corso, è certo tuttavia che ci sono almeno altri due celebri film di quegli anni nei quali Domizlaff appare con la divisa di un militare tedesco, anche se i ruoli non gli sono accreditati.
Nulla di tutto questo, naturalmente, spiega come uno dei responsabili delle Fosse Ardeatine possa averlo fatto senza che produttori, registi, sceneggiatori fossero consapevoli della sua identità. O come mai, se consapevoli, abbiano deciso di ignorarla. D’altra parte, Borante Domizlaff non fu il solo ex-ufficiale nazista impiegato nel cinema italiano del dopoguerra, ce ne furono almeno altri tre. Tra questi, come ricorda Ivan Carozzi, Karl Hass, anche lui maggiore delle SS a Roma (“Sezione VI”, spionaggio) e presente alle Fosse Ardeatine, che recitò la parte di una SA nella Caduta degli dei di Luchino Visconti, ebbe ruoli in almeno altri due film e lavorò come “consulente militare” di alcune importanti produzioni. Di nuovo: chi meglio?
Domizlaff non fu il solo ex-ufficiale nazista impiegato nel cinema italiano del dopoguerra, ce ne furono almeno altri tre.
A differenza di Domizlaff, Hass era stato reclutato nel 1947 dal controspionaggio militare americano e, contemporaneamente, dai servizi del ministero dell’Interno italiano in funzione anti-comunista, in collaborazione con le formazioni fasciste, clandestine e non. La sua navigazione occasionale nel cinema italiano può, in parte, essere legata a un ambiente di neofascisti o di conservatori intenzionati a recuperare i “valori nazionali”, presenti anche in ambito cinematografico. La vicenda personale di Hass fu peraltro paradossale: spia con falso nome per gli americani e per gli italiani subito dopo la guerra, riuscì a sfuggire al mandato di cattura e a evitare il processo del 1948, dal quale sarebbe probabilmente uscito assolto, come lo fu Domizlaff. Mezzo secolo dopo e avendo vissuto per decenni in Italia con il suo vero nome, fu “scoperto” a metà degli anni novanta grazie a Erich Priebke, poi processato e condannato con lui all’ergastolo.
Domizlaff dopo il 1950 non ebbe di questi problemi, ma la sua vita in Italia si era fatta difficile per ragioni famigliari e perché il lavoro di “traduttore italiano-tedesco a Cinecittà”, non era sufficiente. A metà del 1965, lasciò per qualche mese la famiglia a Roma e tornò in Germania a cercare lavoro lì. Provò a far valere la sua laurea in Diritto delle assicurazioni, ma trovò un impiego solo come venditore di polizze porta a porta. Tanto gli bastò, all’inizio del 1966 la famiglia lo raggiunse e da “italiana” diventò “tedesca”. La moglie venne a mancare poco dopo e “il giurista” si sposò di nuovo. Continuò a vivere vendendo polizze, dando una mano all’azienda della terza moglie, aiutando e difendendo fino alla fine Herbert Kappler, vittima a suo avviso di una giustizia-spettacolo, un mostruoso processo politico, “einem politischen Monster-Schauprozess”. No: fino alla sua morte nel 1984, Borante Domizlaff non mostrò alcun “rivolgimento interiore”.