È dall’inizio della pandemia che il mio coinquilino ascolta rumori legnosi riprodotti da un computer provenire dalla cucina. Sono io che gioco a scacchi su Chess.com, io che dispongo icone di pedoni cavalli e alfieri sullo schermo per comporre il Gambetto di Regina, il Sistema di Londra Accelerato, la Difesa Siciliana Variante Dragone e gli altri nomi suggestivi delle aperture che ho imparato alla bell’emmeglio su Youtube durante l’anno d’oro degli scacchi, quando siti come Chess.com e Lichess.org hanno visto raddoppiare e poi triplicare il numero di nuovi iscritti mensili.
Mentre i giocatori della domenica come me riscoprivano quel vecchio gioco imparato da bambini, si appassionavano anche ai tornei tra professionisti, giocati online e trasmessi su internet in forma completamente gratuita.
A completare il quadro sono poi stati i content creator che hanno trattato gli scacchi alla stregua di un e-sport, commentando e spiegando le partite sulle piattaforme dedicate: Twitch e Youtube. Tra loro c’è chi, come agadmator, parla di scacchi su Youtube da dieci anni a una ristretta cerchia di appassionati ed è stato ben felice di farsi travolgere dall’onda e chi, come Gotham Chess (Levy Rozman) quest’onda l’ha cavalcata non appena l’ha vista arrivare, ammassando un milione di followers in poco più di un anno. Ancora più eccezionale la presenza online di super campioni come Hikaru Nakamura – attualmente diciottesimo al mondo ma è stato anche secondo. Per fare un’analogia insoddisfacente e un po’ grottesca è come se Djokovic si allenasse con una GoPro sulla testa e spiegasse gli scambi mentre avvengono, intervallando con battute e aneddoti personali. Gli amici a casa possono poi, previo pagamento di una certa cifra, teletrasportarsi sulla terra rossa a fare quattro scambi con lui. Ogni tanto, a prendere lezioni dal campione compaiono attori, musicisti, sportivi di altre discipline e vip di ogni genere. Più di rado lo raggiungono anche Nadal o Federer, ma non fanno sul serio, si prendono in giro e magari giocano una partita con la mano debole, saltellando su una gamba sola.
Il panorama di rinnovato interesse di massa per gli scacchi è stato chiamato mania, boom, Rinascimento. La pandemia prima, e il successo della serie Netflix Queen’s Gambit, sono state le condizioni perfette per riportare il pubblico generalista davanti la scacchiera.
Eppure a sentire alcuni sembra che tutto questo sia sul punto di finire.
I computer e l’idea di usarli per risolvere gli scacchi sono nati praticamente insieme.
A inizio giugno, il già citato Gotham Chess rilevava che: “I’m not really reassured about the future of classical chess from a marketability standpoint. We’ve been blessed the past year. All these top online events, massive prize funds, folks on camera, shirtless incidents, emotions, crazy blunders. At the end of the day, high quality chess is what is in front of you: it’s a draw”. Non è semplicemente lo scemare dell’entusiasmo, e neppure il lento riprendere della vita fuori casa in molti paesi. Si tratta di qualcosa di più profondo e va ricercato nel rapporto fatale tra un gioco di calcolo che ha messo alla prova le capacità umane per secoli e la potenza sovrumana di un apparecchio nato per calcolare.
I computer e l’idea di usarli per risolvere gli scacchi sono nati praticamente insieme. Già nel 1949 il matematico americano Claude Shannon, tra i padri della Teoria dell’informazione, scrive un paper intitolato Programming a Computer for Playing Chess, un lavoro seminale, influenzando e dirigendo la ricerca per la rimanente metà del secolo. Vi si trovano concetti cardine come il “Numero di Shannon”, che indica il numero di partite virtualmente possibili, ovvero 10 elevato alla centoventesima.
Ancora più importanti sono le conseguenze del numero di Shannon. L’autore ha infatti inferito che nessun calcolatore avrebbe mai potuto “risolvere” davvero gli scacchi attraverso la forza bruta del calcolo e, sebbene le più ottimistiche previsioni sull’evoluzione della potenza dei computer di Shannon fossero di molto inferiori a quello che ci avrebbe riservato il futuro, l’autore aveva sostanzialmente ragione. Da qui due strade, continua Shannon: sviluppare computer “forti ma stupidi” che esaminano tutte le possibilità, nessuna esclusa, ma con una profondità di massimo tre mosse; oppure investire su computer “intelligenti ma deboli” che prendono in considerazione solo le mosse più promettenti ma esplorano le loro conseguenze in profondità, un’attitudine molto più simile a quella degli esseri umani. Shannon dichiara la sua predilezione per la seconda strada.
Nei decenni successivi assisteremo a continui rivolgimenti di tendenza all’interno delle università, ora per una, ora per l’altra via. A metà degli anni Ottanta, la strada della forza bruta è stata la più battuta. Sembrava che i moderni processori potessero sbugiardare le previsioni di un matematico degli anni Quaranta e avvicinarsi il più possibile alla risoluzione massimalistica del gioco, all’esaurimento di tutti i futuri possibili. Erano computer che ricevevano grossi finanziamenti e giocavano benino. Ma nessuno di questi era ancora in grado di battere un Grand Master, il più alto titolo raggiungibile da un professionista.
Hsu era persuaso che per rivaleggiare con i campioni umani, i computer dovessero imitarne almeno in parte il modo di ragionare.
Qualcuno la vedeva diversamente però: un giovane visionario, un americano di origini taiwanesi che appena laureato in scienze informatiche si scontra con le massime autorità del suo mondo. Si chiama Feng-hsiung Hsu. Nel 1985, a 26 anni, Hsu entra in conflitto con il suo mentore Hans Berliner, un professore di Computer Science alla Carnegie Mellon University e campione di scacchi per corrispondenza. Si trattava di una divergenza tecnica e teorica riguardo sia il modello di chip da impiegare, sia il tipo di macchina da costruire: contro la tendenza del momento, Hsu puntava tutto sul modello “debole ma intelligente”. Era persuaso che per rivaleggiare con i campioni umani, i computer dovessero imitarne almeno in parte il modo di ragionare: abbandonare l’utopia di esplorare tutte le possibili mosse in ogni posizione – la maggior parte delle quali sono pure idiozie, come sacrificare una regina su un muro di pedoni – e metterli in grado di capire quelle “giuste” per poi sfruttare la loro superiore potenza di calcolo nell’analisi approfondita delle continuazioni probabili. Hsu abbandonò il gruppo di ricerca del professore e riuscì a farsi finanziare un progetto indipendente. I fondi sono pochi e l’università vuole risultati in tempi brevi perché questo ragazzino sta lavorando a un’alternativa ideologica e pratica a quella di un rinomato luminare.
Tornei di scacchi per soli computer si sono tenuti fin dagli anni Settanta. Fin dall’inizio c’erano macchine di tutti i tipi, dalle più amatoriali ai figli costosissimi di progetti di ricerca statali, poste fisicamente una di fronte all’altra. Accanto a loro c’erano gli ingegneri che le avevano disegnate, incaricati di trasporre sulla scacchiera le mosse suggerite da quei primitivi cervelloni elettronici. Erano occasioni di confronto tra tutti gli specialisti del campo per fare il punto sulle idee più promettenti sulle intelligenze artificiali e costituivano il banco di prova ideale per Hsu e la sua prima creazione indipendente. La macchina di Hsu si iscrive col nome “Chiptest”, un nomignolo ironico e amaro perché si trattava un semplice chip costruito con materiali di recupero e senza neppure un software originale.
Come abbiamo detto, tra i suoi avversari ci sono macchine con ben altri natali e finanziamenti, inclusa HiTech la creatura del suo vecchio maestro Hans Berliner che ai tempi era stabilmente sul podio in questi tornei, assieme a Belle, computer finanziato da una sussidiaria della Nokia, e Cray Blitz che montava un processore della Cray Inc, azienda tutt’ora attiva e specializzata nella costruzione di supercomputer da milioni di dollari.
Nei film l’eroe non sconfigge il villain al loro primo scontro che serve a dimostrare la differenza dei valori in campo e la magnitudine della sfida, così ChipTest non vince il suo primo torneo, ma i risultati superano comunque le previsioni per quella che era poco più di un’idea brillante impiantata su un computer da ufficio. Questo basta a convincere l’università a rifinanziare il progetto, permettendogli di evolversi in un sistema scacchistico vero e proprio.
Nel 1989 Deep Blue è il computer scacchistico più forte mai esistito e si è già dimostrato superiore a diversi Grand Master.
Nel corso degli anni successivi, la macchina di Hsu guadagna in potenza di calcolo avvicinandosi a quella dei super-computer rivali. La sua innovativa concezione di un’AI più profonda che forte, colma il rimanente gap di potenza e ChipTest riesce infine a battere l’HiTech di Berliner, che ne ammette sofferente la superiorità. Nell’1988 viene rinominato Deep Thought, in omaggio al supercomputer della Guida Galattica per Autostoppisti. La nuova identità anagrafica dura pochissimo perché l’anno seguente il progetto viene acquistato dal colosso tech IBM, noto anche col nickname “Big Blue”. Visto che Deep Thought suonava pericolosamente vicino alla traduzione inglese di Gola Profonda, il team di Hsu di concerto con l’IBM decide di rinominare la macchina per l’ultima volta: è la nascita del leggendario Deep Blue.
Nel 1989 il computer di Hsu è ben lontano dall’originario ChipTest e, grazie alla potenza di IBM, può unire un approccio valutativo profondo alla forza bruta calcolatrice dei processori, una sorta di via di mezzo tra le due strade preconizzate da Shannon. In questo momento Deep Blue è il computer scacchistico più forte mai esistito e si è già dimostrato superiore a diversi Grand Master. Ma il Sacro Graal dell’informatica scacchistica, come lo definì Hsu qualche anno prima, era ancora da conquistare: battere il campione del mondo, l’umano più forte di tutti.
Tutt’oggi Garry Kasparov è considerato tra i tre esseri umani più forti che si siano mai seduti di fronte a una scacchiera, insieme all’attuale campione del mondo, il norvegese Magnus Carlsen, e l’americano Bobby Fischer, un personaggio dalla vita a dir poco romanzesca che appartiene alla generazione precedente di Kasparov e di cui parleremo più avanti. All’epoca è l’indiscusso campione del mondo e nell’89 ha un breve incontro con Deep Blue che vince senza problemi. Un’esibizione di sole due partite (nelle finali dei campionati del mondo se ne giocano una dozzina) ormai quasi dimenticata. Deep Blue non era completo e Kasparov era già un asso nel testare i computer scacchistici, sbaragliandoli senza problemi. Negli anni era stata affinata una tecnica chiamata “anti computer-chess” che sfruttava le debolezze ricorrenti dei programmi dell’epoca. Le macchine erano fortissime nel calcolare i vantaggi di una serie di scambi, catture e minacce ma rimanevano spaesate di fronte a partite difensive che non offrivano obiettivi evidenti. Inoltre peccavano di estremo materialismo: si gettavano su ogni pezzo non protetto, dando l’opportunità ai campioni di scacchi di organizzare trappole basate sui sacrifici che avrebbero dato i loro frutti solo molte mosse dopo. Kasparov le raggirava come nessuno mai e sosteneva di essere ormai in grado di capire i differenti programmi, decifrando lo stile che ogni developer imprimeva loro.
Nonostante questo, per tutta la prima metà degli anni novanta Kasparov è stato un grande sostenitore dei sistemi scacchistici per via dei grandi vantaggi che i loro database offrivano nella preparazione delle partite con umani.
Quando sei anni dopo la IBM gli propose una rivincita, nessuno si stupì che accetto entusiasta. L’incontro sarebbe stato più vicino a una vera e propria finale, sei partite con tre cambi di colore. IBM inoltre si dimostrò estremamente collaborativa, fornendo al campione i log degli incontri giocati da Deep Blue e offrendosi addirittura di finanziare in parte la nuova lega scacchistica che aveva appena fondato, in competizione con la storica FIDE.
Le macchine erano fortissime nel calcolare i vantaggi di una serie di scambi, catture e minacce ma rimanevano spaesate di fronte a partite difensive che non offrivano obiettivi evidenti.
La prima vera sfida tra Kasparov e Deep Blue si svolge nell’arco di sette giorni nel febbraio del 1996. È un computer diverso da quello che perse malamente nel micro incontro dell’89 e si capisce già dal primo game. Kasparov sceglie di iniziare col nero per avere l’opportunità di studiare il suo rivale ma, a dispetto delle linee guida dell’anti computer-chess, risponde al pedone di re giocato da Deep Blue con la Difesa Siciliana. Ci sono due problemi con questa scelta. Punto primo è una difesa molto aggressiva che conduce le partite verso una carneficina di scambi – ideale per i computer; secondo, è una delle difese più giocate da Kasparov e il team di scacchisti di Deep Blue aveva preparato delle risposte ancora più rare e aggressive contro questa evenienza. Dopo un attacco fallito che porta Kasparov a doversi difendere su due fronti, il campione abbandona alla trentaseiesima mossa.
È la prima volta che un campione del mondo perde una partita da torneo contro un computer. L’evento era già stato pubblicizzato con toni apocalittici, anabolizzati da un decennio di cyberpunk e film di Terminator. Dopo la sconfitta del “lone defender of humanity”, la notizia rimbalza da quell’internet preistorico ai media tradizionali, una cattiva novella che annuncia l’anticristo, l’alba del dominio delle macchine.
Più che un’alba, si tratta però di una falsa partenza: Kasparov decide di adottare uno stile più conservativo e, delle restanti cinque partite, ne patta due e ne vince tre, chiudendo il match con un solido 4-2. Dall’incontro del ‘96 escono tutti vincitori: Kasparov ha difeso l’umanità, Hsu ha dimostrato che un computer può battere il campione del mondo e l’IBM ha triplicato il valore delle sue azioni in borsa a seguito della pubblicità ricevuta. E proprio per questo motivo, tutti concordano per una rivincita l’anno seguente con una versione opportunamente perfezionata di Deep Blue. Un incontro che nasce però sotto auspici ben diversi. All’IBM si chiedono: se vincendo un solo game abbiamo triplicato il valore delle azioni, cosa succederebbe se vincessimo l’intero match?
L’atteggiamento della multinazionale nei confronti del campione cambia di 180°. Facendo valere una clausola ambigua del contratto, l’IBM si rifiuta di fornire a Kasparov i log delle nuove partite di Deep Blue contro altri Grand Masters, un vero e proprio handicap per qualsiasi professionista abituato a studiare a fondo gli avversari prima del match, umani o meno. Il Grande Blu si tira persino indietro dal finanziare la nuova lega professionistica di Kasparov facendo passare un messaggio molto chiaro: prima abbiamo scherzato, questa volta siamo nemici.
Inoltre, il giorno dell’incontro, per dolo o per incapacità, si scopre che la venue prenotata da IBM è gravemente insufficiente tanto per le esigenze di Kasparov che dei reporter accorsi a seguire l’evento: uno spazio angusto, mal ventilato, con la stanza fumatori che i professionisti usano per rilassarsi tra una mossa e l’altra troppo distante dalla scacchiera. Senza mezze misure, la madre di Kasparov parlerà di “guerra psicologica” messa in atto da un sistema capitalista, proprio come quella che i sovietici gli fecero nel 1984, quando dovette sfidare il “loro” campione in carica Anatoly Karpov (Kasparov è nato nell’Azerbaijan sovietico e la madre è armena).
È l’11 maggio del 1997: per la prima volta nella storia, un computer ha battuto a scacchi il più forte degli esseri umani in un incontro da torneo.
Questa volta Kasparov inizia col bianco scegliendo la stessa apertura che gli aveva assicurato molte vittorie nel ‘96, ma in una chiave ancora più attendista, con un doppio alfiere in fianchetto, lasciando giocare Deep Blue senza bersagli chiari. Il risultato dimostra la bontà dell’anti computer-chess: navigando a vista, il supercomputer indebolisce progressivamente la propria posizione e viene infine fregato da un sacrificio di torre che permette al campione umano di mandare due pedoni a promozione.
Ma tutto crolla già nel secondo game. Con il nero Kasparov gioca leggermente più aggressivo, stimolato dall’aggressività mostrata dal computer. Le forze in campo si avvicinano progressivamente all’inevitabile scontro fino al momento in cui Deep Blue inizia a fare una serie di mosse che terrorizzano Kasparov: mosse umane. Mosse così umane che Kasparov finisce per prendere questo pensiero letteralmente: si convince che IBM sta barando e che un Grand Master umano aiuta il computer nei momenti più critici.
Dopo aver perso il game, Kasparov va davanti al pubblico accorso nell’auditorium e insinua, fermandosi appena prima della calunnia, che le partite di Deep Blue non siano regolari. Ormai il clima è compromesso, così come la concentrazione di Kasparov. A seguito di una serie di patte molto combattute, il campione arriva a giocarsi il tutto per tutto nella sesta partita.
La settima mossa è l’all-in epistemologico, il test di Turing sull’umanità di Deep Blue. Kasparov gioca col nero e lascia volontariamente aperto il fianco a un sacrificio di cavallo del bianco ben noto ai professionisti ma che sembrerebbe assurdo a ogni giocatore dilettante e in teoria anche alle macchine. In quella posizione, se il bianco manda il cavallo in pasto ai pedoni avversari, perde un pezzo senza avere immediata ricompensa ma guadagnando un assetto globale tanto vantaggioso che, se si conosce la linea, la vittoria è quasi inevitabile.
Tutti i computer fino a quel momento sono stati avidamente materialisti. Nessun computer avrebbe mai buttato nella spazzatura un cavallo senza ricompense immediate. Deep Blue sacrifica il cavallo. Kasparov concede la partita dopo appena 19 mosse dall’inizio. È l’11 maggio del 1997: per la prima volta nella storia, un computer ha battuto a scacchi il più forte degli esseri umani in un incontro da torneo.
Per Fischer gli scacchi sono dannati da almeno un secolo, da quando tutta la teoria accumulata li ha trasformati in un gioco in cui la memoria e la preparazione contano molto di più della creatività.
Siamo nel 2005, a bordo di un aereo privato diretto in Islanda, il giornalista chiede a Bobby Fischer se una volta arrivato a destinazione avrà intenzione di insegnare gli scacchi, che nel paese ricevono grossi finanziamenti. L’ex campione, ormai molto anziano, gli ripete tre volte che odia gli scacchi: “Chess is all about memorization and prearrangement, creativity is lower down on the list.”
Fischer non vede la sua patria, gli Stati Uniti, dal 1992, quando ha sfidato un suo vecchio rivale russo, Boris Spassky, organizzando un evento speciale nella Jugoslavia sotto embargo statunitense. La più grande democrazia del mondo non l’ha presa tanto bene e ha bandito dai confini nazionali uno dei suoi più grandi talenti di tutti i tempi che da allora vaga di paese in paese come un esiliato ateniese.
Mentre si dirige in Islanda, dove morirà nel 2008, spiega al giornalista come i computer abbiano dato il colpo di grazia a un gioco già fallato alla base. Sono passati otto anni dalla ormai leggendaria sfida tra Kasparov e Deep Blue, le due parti che componevano l’unità centrale sono state separate e destinate a diversi musei per non essere ricomposte mai più, come l’artefatto maledetto di un fantasy. Gesto più simbolico che altro perché le intelligenze artificiali non hanno smesso di progredire da quella sfida, nel 2004 era stata rilasciata la prima versione di StockFish, il motore scacchistico open-source più usato tutt’oggi e già allora le speranze che un’intelligenza umana potesse gareggiare con le macchine era stata abbandonata. Kasparov, dal canto suo, si sarebbe ritirato proprio nel 2005.
Mischiando un po’ le date, possiamo immaginare che mentre l’aereo di Fischer sorvola Oslo, gli altri due umani più forti di tutti i tempi stessero giocando a scacchi diecimila metri sotto di lui, in un piccolo appartamento della capitale norvegese. Nel 2004, Kasparov aveva affrontato in torneo il bimbo prodigio Magnus Carlsen, classe 1990, che era riuscito a pattare una partita col grande campione. Lo stesso anno, andò a trovarlo a casa dai suoi genitori, evento ripreso dalle telecamere per il film Prince of Chess, dedicato a quello che allora era il più giovane Grand Master della storia.
Nel documentario il tredicenne Carlsen dichiara che aspira a diventare campione del mondo entro il 2020. Ci riuscirà molto prima, ma oggi sappiamo che quella data bella tonda acquisterà un significato epocale per il mondo intero e, parallelamente, anche per il micromondo degli scacchi.
Fischer sostiene che gli scacchi siano ormai un gioco noioso e frustrante che non richiede affatto quelle abilità umane che pretende di esaltare.
Torniamo sull’aereo per ascoltare la tesi di Fischer. Una tesi radicale, contestata da molti, abbracciata da altrettanti ma i cui presupposti sono difficilmente smentibili. Per Fischer gli scacchi sono dannati da almeno un secolo, da quando tutta la teoria accumulata li ha trasformati in un gioco in cui la memoria e la preparazione contano molto di più della creatività, dell’intuizione, della ineffabile intelligenza della quale ancora sono simbolo in tante opere di finzione che usano una partita a scacchi per farci capire che qualcuno è un genio.
I computer hanno accelerato questo processo in due modi. Inizialmente radunando tutte le partite della storia in un database di immediata consultazione, laddove prima erano sparse in migliaia di libri e periodici stipati in biblioteche specializzate. In seguito, come abbiamo visto, hanno imparato a giocare meglio di noi, spiegandoci una volta per tutte quale fosse “la mossa giusta” in ogni situazione. In questo modo, i professionisti possono prepararsi alla perfezione contro ogni variante – umana o inumana – finché la loro memoria riesce a immagazzinare le informazioni.
Fischer sostiene che gli scacchi siano ormai un gioco noioso e frustrante che non richiede affatto quelle abilità umane che pretende di esaltare. Nel corso degli anni novanta ha persino messo a punto una sua variante del gioco, nota allora come Fischer Random, in cui le posizioni iniziali sono generate a caso ed è, quasi, impossibile studiare e preparare delle aperture per tutte le 960 configurazioni.
Che la si veda positivamente o negativamente, (qui una controlettura di Hikaru Nakamura), la fotografia del 2005 di Fischer si è rivelata corretta e persino le partite di quell’anno già infestato dai computer non somigliano più a quelle di oggi, dopo un quarto di secolo in cui il cosiddetto metagame degli scacchi si è evoluto a ritmi senza precedenti. I computer sono i migliori amici dell’uomo scacchista, indispensabili compagni di avventura che lo aiutano a strutturare sequenze di mosse sempre migliori.
Arriviamo quindi al 2020. L’ex bimbo prodigio Magnus Carlsen è campione indiscusso da ben sette anni e il suo stile è cresciuto insieme ai computer: da un’adolescenza aggressiva fatta di partite quasi “romantiche” verso un’età adulta posizionale, lenta e spietata come le intelligenze artificiali. A marzo, una serie di eventi non ancora del tutto chiari che concatenano pipistrelli, laboratori e mercati tradizionali, hanno costretto gli uomini a cambiare le loro abitudini. Tra queste, la possibilità di incontrarsi di persona e, di conseguenza, di sedersi l’uno di fronte all’altro davanti a una scacchiera.
Per via dell’esistenza dei motori scacchistici è virtualmente impossibile accertarsi che un giocatore non stia barando durante una partita di scacchi online con minutaggio classico.
Gli scacchi sono puro scambio di informazioni, completamente digitalizzabile e, essendo un gioco a turni, non sono neppure incorsi nei problemi di lag che hanno tagliato le gambe a tutti gli e-sports in cui l’esecuzione precisa di un’azione è fondamentale. Riproduzione online in scala 1:1 dell’esperienza dal vivo, quindi? No, c’è un caveat, dovuto ancora una volta all’esistenza dei computer.
Il più prestigioso e comune formato da torneo, noto anche come Classical Chess, prevede un “controllo del tempo” di 90 minuti per giocatore con del tempo addizionale se vengono soddisfatte alcune condizioni (in genere un certo numero di mosse). Esistono poi i formati rapidi che, oltre a tornei dedicati, entrano in gioco come spareggi se i giocatori pattano tutti gli incontri nel formato classico. Hanno dei controlli del tempo significativamente ridotti, da dieci minuti per giocatore nel cosiddetto Rapid Chess, fino a Blitz e Bullet che possono partire da tre minuti per giocatore con relativi secondi addizionali.
Le partite in questi formati sono notoriamente meno precise e, secondo qualcuno, più emozionanti. E qui c’è il caveat.
Proprio per via dell’esistenza dei motori scacchistici è virtualmente impossibile accertarsi che un giocatore non stia barando durante una partita di scacchi online con minutaggio classico. Un po’ gli stessi problemi dei professori in DAD che analizzavano disperati gli sguardi dei loro studenti per capire se stavano leggendo gli appunti su uno specchio che inquadra il corridoio dove l’amico tiene il libro aperto. Novanta minuti sono troppi per costringere un giocatore a non fare gesti ambigui mentre viene inquadrato dalla telecamera: dieci, cinque o tre è molto più fattibile.
Tutti i più prestigiosi tornei, per oltre un anno, sono stati giocati in questi formati al fulmicotone, con i “crazy blunders” – ovvero errori pazzeschi che normalmente i top-player non fanno – di cui parla Gotham Chess, che producevano partite aperte, avventurose… umane.
Il Rinascimento scacchistico è stato quindi reso possibile dai computer in molti modi. Da un lato, con l’avvento della pandemia, i computer interconnessi tra loro sono stati l’unico specchio sul mondo per milioni di persone, facendo fiorire una serie di nuovi interessi, hobby, passatempi e forme di intrattenimento (e c’è anche chi, come Wolf Bukowski su Giap, suggerisce di invertire causa ed effetto: internet ha reso possibile il distanziamento sociale, non il contrario); dall’altro, i computer intesi come motori scacchistici hanno costretto i professionisti a tornare umani.
Novanta minuti sono troppi per costringere un giocatore a non fare gesti ambigui mentre viene inquadrato dalla telecamera: dieci, cinque o tre è molto più fattibile.
La tempesta perfetta tra la pandemia che chiude tutti in casa, un gioco completamente digitalizzabile e disponibile gratuitamente su Chess.com, la sua trasmissione anch’essa gratuita su Twitch e Youtube e partite più emozionanti del normale ha provocato la prima ondata della chess-mania, quella di Marzo 2020.
La seconda è avvenuta nell’ottobre dello stesso anno con l’uscita de La regina degli scacchi ma, come anticipavamo, non può essere separata da questo ambiente perfetto. Sia perché la stessa Netflix ha visto un incremento generale di spettatori durante la pandemia, sia perché una volta chiusa la finestra della serie tv, potevamo immediatamente aprire quella di Chess.com. Immaginate fosse stato un film su uno sport tradizionale: anche in assenza di pandemia, bisognava trovare la motivazione di andare al più vicino circolo sportivo, iscriversi, allenarsi, pagare. Un tasso di conversione decisamente più basso, per dirla con il marketing.
Ma la fine di tutto ciò è all’orizzonte e coincide con la fine dello stato di eccezione che lo aveva determinato in primo luogo: l’allentamento delle restrizioni che impedivano ai giocatori di incontrarsi faccia a faccia. Uno dei primi tornei dal vivo importanti avviene nei primi di giugno in Romania. Levy Rozman, aka Gotham Chess, è disperato. Tutte le partite che analizza nei suoi recap giornalieri hanno un solo esito: draw, patta. L’amara realtà degli scacchi di novanta minuti tra super-campioni preparati da super-computer è una super-partita che si mantiene in equilibrio fino alla fine.
Va così: entrambi aprono seguendo a menadito le opzioni teoriche migliori, dopo aver studiato a fondo le linee preferite dell’avversario; arrivati nel Medio Gioco, il bianco prova a lanciare un attacco, il nero si difende bene, torniamo in assoluta parità e i due decidono di ripetere la stessa mossa per tre volte, causando una patta (in molti tornei non si può proporre verbalmente la patta prima di un certo numero di mosse).
Lo zugzwang è uno dei concetti più affascinanti degli scacchi, oggetto di molte metafore colte, e descrive la situazione in cui è il tuo turno per muovere ma ogni mossa indebolisce drammaticamente la tua posizione. Nonostante la sua occorrenza letterale sia abbastanza rara, possiamo descrivere quei momenti in cui si decide di pattare come degli zugzwang di lungo termine: entrambi sanno che in quella posizione il cervellone elettronico li valuta in perfetto equilibrio, chi glielo fa fare a uno dei due di avventurarsi su una strada incerta e rischiosa che potrebbe risultare in una sconfitta?
Prima delle finali, i tornei di massima categoria vedono gironi in cui la stragrande maggioranza delle partite finiscono in parità, e si cerca il punticino della vittoria solo con quei pochi avversari molto più deboli.
Istruendo tutti i professionisti sulla partita perfetta memorizzabile da un uomo, i supercomputer hanno congelato gli scacchi contemporanei in incontri noiosi e disumani, almeno a detta di alcuni.
Lo zugzwang è uno dei concetti più affascinanti degli scacchi e descrive la situazione in cui è il tuo turno ma ogni mossa indebolisce drammaticamente la tua posizione.
“Che i computer avrebbero reso obsoleti gli scacchi, e gli esseri umani che vi avevano dedicato la vita, lo si era capito da anni. Non c’era da aspettare la sfida tra Kasparov e il calcolatore Deep Blue dell’IBM per capire che quel millenario passatempo nato in qualche regione sperduta dell’India sarebbe presto finito in soffitta” sostiene un personaggio di Giordano Tedoldi, il giocatore di scacchi semi-professionista che abita uno dei racconti di Io odio John Updike, uscito a metà anni Duemila.
L’impatto psichico di quella sfida ha travalicato i confini del gioco per iscriversi nell’immaginario collettivo come svolta epocale, uno dei segni dell’apocalisse silenziosa che infesta l’album The Suburbs degli Arcade Fire: “You could never predict it that it could see through you: Kasparov VS. Deep Blue, 1996”.
A dispetto delle previsioni, i computer hanno fatto un ultimo regalo agli uomini e agli scacchi. Dopo averli interconnessi globalmente attraverso schermi luminosi, hanno parzialmente annullato tutta quella conoscenza che ci avevano donato. Negli scacchi online, proprio perché esistono i motori scacchistici, l’impatto reale dei motori scacchistici sulle scelte dei giocatori è ridotto, pressati come sono dal tempo del rapid chess.
Una breve e incredibile seconda giovinezza per gli scacchi, caratterizzata da partite rapide e aggressive sulle scacchiere bidimensionali, trasmesse in tutto il mondo “compressed on a tiny screen”.
In questo arco temporale, precisamente a settembre 2020, Garry Kasparov e Magnus Carlsen si sono affrontati per la seconda e unica volta, dopo 16 anni dal loro primo incontro tra un vecchio e un bambino. Hanno giocato agli scacchi inventati da Fischer, che oggi si chiamano Chess960, in riferimento al numero delle posizioni iniziali possibili, e sono abbastanza popolari. Ognuno a casa sua, collegati da un computer.
Hanno pattato.