C apita spesso nella vita di avere un alter-ego: un amico coetaneo, un fratello o magari addirittura un gemello o un coscritto nato il proprio stesso giorno e con il quale si è cresciuti. È la prossimità più assoluta che mostra in modo più nitido la distanza, quando magari la vita anche a fronte di condizioni sociali o familiari simili porta a prendere scelte diverse e a separare le proprie esistenze. È quello di cui racconta A Letter to You, l’ultimo album di Bruce Springsteen, in cui si ritorna ai tempi dei Castiles, un gruppo che a metà degli anni Sessanta calcava i palchi dei bar della riviera del New Jersey riscuotendo un discreto successo locale. Allora il leader della band era un tale George Theiss. Nell’intensa “Last Man Standing”, Springsteen prova a ricostruire il suo sguardo di allora, pieno dell’ammirazione del comprimario che guarda colui, Theiss, che sarebbe certamente diventato una star e che era capace già allora di attirare il desiderio della folla: “You take the crowd on their mystery ride”.
Ma i Castiles si sciolsero nel 1968 e George Theiss decise di sposarsi ad appena vent’anni. Iniziò a lavorare come muratore e rimase a suonare nei bar della riviera durante i weekend per il resto della vita mentre Springsteen diventava una star planetaria. In una recente intervista per Rolling Stone la moglie di Theiss racconta che per il marito non fu sempre facile vedere l’esplosione di successo di quello che a diciotto anni era soltanto il primo chitarrista della sua band, fino a che a una festa a casa di Springsteen pochi anni fa Theiss si scoprì incapace di salire sul palco per una jam session con il Boss, tanto la situazione lo faceva soffrire.
Che cosa fece sì che uno dei Castiles diventò un chitarrista di piccole band della riviera del New Jersey e l’altro una star planetaria, quando tutto allora lasciava presagire che le cose sarebbero andate al contrario? È proprio quando ci confrontiamo con un nostro doppio o un alter-ego che forse riusciamo a intuire come l’idea di predestinazione – su cui si reggono spesso le biografie – non sia altro che una finzione. E allora qual è quella differenza minima che separa in modo radicale delle esistenze che alla loro origine sembravano tanto prossime e vicine?
Niente ci avvicina a questo enigma più dell’esperienza dell’essere fratelli, o addirittura gemelli: nati lo stesso giorno, cresciuti nel medesimo ambiente familiare, vissuti nello stesso periodo storico e di solito anche nella stessa città, eppure portatori di due esistenze completamente singolari. È quello che accade a Marco e Camillo Bellocchio e che vediamo raccontato in Marx può aspettare, l’ultimo film di Marco Bellocchio presentato nella sezione Cannes Première del Festival di Cannes. Nati entrambi il 9 novembre 1939 a Piacenza, i due gemelli Bellocchio ebbero esistenze molto diverse. Già alla nascita, Marco uscì per primo e senza problemi dal corpo della madre, mentre per Camillo ci vollero altre tre ore di travaglio al termine delle quali nacque quasi senza aria, “tutto nero” ricorda la sorella, tanto che la madre – intrisa di una religiosità di provincia cupa e colpevole – chiamò il prete in fretta e furia per far battezzare il figlio direttamente in ospedale per timore che potesse morire prima di essere “lavato” dal peccato originale. Il film, tramite le voci e i ricordi – esplicitamente selettivi e “incongruenti” tra di loro – dei fratelli e delle sorelle in vita, ripercorre l’esistenza di questo fratello enigmatico, che si uccise ad appena 29 anni. E lo fece proprio il 26 dicembre del mitico anno 1968, quello dove sembrava che per la vita familiare e borghese non ci fosse spazio e che l’intera esistenza dovesse essere occupata dal bisogno di trasformazione del mondo.
L’ultimo film di Marco Bellocchio ripercorre l’esistenza dell’enigmatico gemello Camillo, tramite le voci e i ricordi – esplicitamente selettivi e “incongruenti” – dei famigliari.
La famiglia Bellocchio era una ricca famiglia di intellettuali di successo: Marco vinse il premio alla regia al Festival di Locarno con il suo primo film I pugni in tasca a soli 26 anni; Piergiorgio fondò i Quaderni piacentini, una delle più importanti riviste culturali marxiste degli anni Sessanta e Settanta; Alberto fu dirigente nazionale della CGIL. Qual era dunque il posto di Camillo? Qual era la sua singolarità? Lacan sosteneva che alla nostra nascita veniamo al mondo in un bagno dell’Altro: la nostra singolarità deve farsi largo attraverso le aspettative, i desideri, le proiezioni e i fantasmi di chi ci sta intorno. In primis, quindi, della nostra famiglia.
Si capisce subito che Camillo è un diverso in questa famiglia dell’aristocrazia culturale di provincia. Marco a un certo punto ricorda che, quando da piccoli nuotavano nelle acque della Trebbia o del Po, Camillo sembrava sempre sul punto di annegare, come se le sue bracciate facessero il doppio della fatica. Per lui il bagno dell’Altro era sovrastante, molto più di quanto non fosse per il gemello o gli altri fratelli. Com’era possibile – si chiedono implicitamente i membri della sua famiglia, non senza un certo compiacimento – reggere il confronto di questo enorme successo che Camillo si trovava in casa? Intellettuali, divi del cinema, protagonisti dei cambiamenti che stavano investendo l’Italia quegli anni: la famiglia Bellocchio sembrava portatrice di un mandato simbolico troppo ingombrante per una vita tanto fragile. Più volte bocciato a scuola (mentre Marco poteva persino permettersi il lusso di essere indisciplinato “perché a lui bastava dare un’occhiata al libro per memorizzarlo”, ricorda il fratello Alberto), per Camillo si pensa che il suo destino sarà quello delle scuole tecniche: un sapere, cioè, considerato di serie B in quella famiglia. Dopo un non brillante diploma da geometra si iscrive all’ISEF (“una specie di università” dice Alberto) e apre una palestra. Agli occhi della famiglia Camillo sembra essersi sistemato, ma non si accorgono – un po’ per egoismo, un po’ per pressapochismo, un po’ perché troppo impegnati nelle contestazioni degli anni Sessanta – che invece un male lo sta divorando e se ne accorgeranno solo quando sarà troppo tardi e lo troveranno impiccato il giorno dopo la festa di Natale, il 26 dicembre 1968.
Questo è quello che il film vorrebbe dire. Eppure, come spesso accade nei grandi film (e Marx può aspettare è un grande film), l’immagine dice qualcosa di più e di diverso di quanto il film si propone di dirci. Questo mandato simbolico che ha sovrastato la vita di Camillo non è solo un ricordo del passato, non è solo una faccenda di storia familiare: è vivo ancora oggi, nel presente, nelle parole dei protagonisti che più volte nel film si lasciano scappare qualche lapsus rivelatore. Lo lascia trapelare Marco, quando gli viene ricordata una lettera, inviatagli pochi mesi prima della morte, in cui Camillo gli chiede se ci sarebbe potuto essere per lui uno piccolo ruolo nell’industria del cinema a Roma dove lavorava il fratello: il regista ammette di non aver mai risposto alla lettera e rivolgendosi incredibilmente al figlio Pier Giorgio domanda stizzito: “ma cosa dovevo fare? Portarmelo a Roma a fare l’attore?” (Pier Giorgio diventò attore proprio grazie ai ruoli nei film del padre, mostrando che volendo sarebbe stato assolutamente possibile). O come quando il fratello Piergiorgio racconta del viaggio tra Milano e Piacenza dopo aver saputo della morte del fratello (ma ancora non era a conoscenza che si trattasse di un suicidio) nel quale si immagina tutte le disgrazie che potevano essere capitate a Camillo: non solo l’ipotesi del suicidio non trova spazio, ma lo scenario per lui più probabile è quello di un’incidente di macchina in cui Camillo è colpevole e ha investito dei passanti innocenti (mostrando come per lui quello fosse il posto simbolico di Camillo nella sua vita). O ancora quando Alberto, pensando a quale dovesse essere il posto di Camillo nel mondo, porta come esempio sé stesso: uno che a suo dire fu in grado di smarcarsi dagli intellettuali della famiglia Piergiorgio e Marco e di trovare un posto simbolico nel più “umile” ruolo di dirigente sindacale (senza considerare come il suo stesso ruolo potesse assurgere a mandato simbolico troppo ingombrante per Camillo e senza considerare come questa interpretazione lo scagioni inconsciamente da ogni responsabilità nella marginalizzazione familiare del fratello). O ancora quando Piergiorgio candidamente ammette di aver distrutto il biglietto che Camillo lasciò prima di morire perché aveva paura che le sue faccende familiari potessero essere usate contro di lui dalla polizia che spesso perquisiva la sua abitazione (senza accorgersi così di avere usato un suo problema per silenziare il gesto estremo del fratello, le cui ultime parole sono per sempre perdute e vengono ricordate solo in modo confuso dai fratelli a distanza di molti anni).
Il mandato simbolico che ha sovrastato la vita di Camillo non è solo un ricordo del passato, non è solo una faccenda di storia familiare: è vivo ancora oggi, nel presente.
Ma la cosa che forse colpisce di più è l’elaborazione del lutto: tutti i fratelli convengono che all’indomani del suicidio il loro compito fosse sostenere la madre, che in preda a un semi-delirio religioso doveva essere rassicurata sul fatto che Camillo non si fosse davvero suicidato, che era stato solo un incidente, e che tutti loro l’avevano visto in sogno sereno e riappacificato, cercando in questo modo di sollevare la madre da ogni senso di colpa (una vicenda ripresa quasi letteralmente in Gli occhi, la bocca). Tuttavia, come commenta in modo tagliente il gesuita Padre Virgilio Fantuzzi, la preoccupazione nei confronti della madre è quasi esagerata, perché questo evento avrebbe dovuto lasciare segni profondi in tutti i membri della famiglia, sottintendendo così che vi sia una proiezione sulla madre di una mancanza di senso di colpa da parte dei fratelli (che infatti, come ammette Alberto, non riuscirono a calarsi immediatamente nella tragedia). Questo vuole forse dire che i fratelli si debbano sentire più in colpa? Che davvero siano loro i responsabili del male di Camillo? O come dice il personaggio dello zio interpretato da Michel Piccoli in un frammento di Gli occhi, la bocca mostrato nel film: “Ma chi ti credi di essere per sentirti responsabile? Dio?”
Forse bisognerebbe a questo riguardo guardare al titolo stesso del film: “Marx può aspettare” dice Camillo a Marco durante il loro ultimo colloquio (“da vivi” precisa Bellocchio). Marco ricorda di avere detto solo “quattro cazzate rivoluzionarie” al fratello che gli parlava della sua sofferenza, sostenendo che il riscatto dalla sua condizione potesse venire solo da un rivolgimento collettivo, proprio perché la radice del suo male era politica e risiedeva in un’oppressione di classe, non individuale. La risposta, geniale, di Camillo – Marx può aspettare, appunto – mostrava che sua condizione non poteva essere liquidata con una lettura meramente sociale. Forse – mi piace immaginare – era anche di un modo per ribadire la radicalità della propria condizione soggettiva, che non è spiegabile solamente attraverso i condizionamenti sociali, familiari, collettivi, culturali ma che ha un fondo oscuro molto più opaco, e forse più intrattabile. Oggi all’ideologia politico-culturale dominante a sinistra piace ripetere che i sintomi soggettivi sono solo prodotti del capitalismo o del neoliberismo (cosa che per altro mostra una certa ignoranza di cosa sia il capitalismo) e anche la depressione sembra unicamente un prodotto dell’Altro, mi pare che sia oltremodo importante ribadire non solo, con Lacan, che l’Altro “non esiste” ma anche, come mostra splendidamente questo film, che le storie soggettive sono sempre minimamente delle deviazioni dai progetti e condizionamenti che l’Altro ha in serbo per noi e che l’enigma della storia di Camillo sia proprio quello di essere inspiegabile a partire dai condizionamenti familiari, storici, sociali, geografici. Come mai due fratelli nati lo stesso giorno, vissuti nella stessa famiglia, cresciuti nello stesso ambiente hanno finito per avere un posto così diverso nel mondo?
Perché il sintomo, direbbe la psicoanalisi, è sempre un bastone tra le ruote dell’Altro: non nasce quando l’Altro riesce a realizzare la sua missione, ma quando qualcosa va storto. Noi non sapremo mai quello che Camillo pensava di sé stesso o del suo posto nel mondo, del suo sintomo (o desiderio) soggettivo o del suo rapporto con l’Altro (la famiglia, il mondo, i fratelli, la madre, la compagna): quello che possiamo sapere però – e quello che questo film ci mostra – è il posto che Camillo ha nelle parole e nei fantasmi di chi l’ha sopravvissuto. Marx può aspettare non è tanto un film su Camillo Bellocchio, ma è un film sulla famiglia Bellocchio (e sulla famiglia in generale) a partire dal suo sintomo. E questo sintomo è Camillo. Camillo è il punto cieco che nessuno aveva visto e che nessuno aveva compreso, e attraverso il quale ancora oggi emergono i fantasmi, le violenze della legge simbolica familiare e dei suoi legami, così come le sue espressioni d’amore e di affettività. Il senso di colpa (o la mancanza di senso di colpa) dei fratelli e delle sorelle è allora semplicemente la cartina di tornasole attraverso cui leggere le complessità e tortuosità del legame familiare.
Marx può aspettare non è tanto un film su Camillo Bellocchio, ma è un film sulla famiglia Bellocchio a partire dal suo sintomo: Camillo è il punto cieco che nessuno aveva visto e compreso.
Bisognerebbe forse ammettere che il senso di colpa non è un sentimento da rifiutare ma qualcosa da considerare nel suo autentico valore e nella sua complessità. Si tratta di un posizione soggettiva che oggi purtroppo non gode di grande popolarità in un’ideologia dove è molto più semplice incolpare e accusare l’Altro sociale (sia chiami esso capitalismo, immigrati, classi subalterne o cospirazioni della più varia natura) per le mancanze in sé stessi e in cui purtroppo a farne le spese è proprio l’esperienza soggettiva tout court, ovvero quel punto della vita che non è spiegabile tramite le ragioni o i torti dell’Altro, proprio perché di quell’Altro ne costituisce il buco e il punto cieco. L’Altro invece viene continuamente proiettato delle colpe più varie proprio perché l’unico bene che viene unanimemente considerato degno di essere preservato oggi è quello della propria innocenza (come quando si dice che la propria depressione è un portato sociale del capitalismo). Bisognerebbe raccogliere l’insegnamento della psicoanalisi proprio qui, che sembra essere ancora oggi il suo punto più scomodo e scandaloso, e assumere il fatto che l’unico soggetto (e l’unico desiderio) possibile non possa che essere sempre colpevole (originariamente colpevole direbbe il cattolicesimo): quel soggetto a cui non si possono fare sconti semplicemente perché nasce dal fondo oscuro delle determinazioni dell’Altro.
Da dove veniva allora la sofferenza di Camillo? Il problema non è tanto andare a cercare le ragioni, come va di moda oggi, magari cercando l’origine dei propri mali in qualche trauma o in qualche evento dell’infanzia, cercando psichiatri e preti che possano “spiegare” cosa è andato storto con ragionevolezza e buon senso. Il problema è vedere, e accettare, come la nostra vita e le nostre parole non possano che prendere forma facendosi largo attorno a questo fondo oscuro di insensatezza: là, in quel punto della vita, dove qualcosa è andato storto e non c’è nessuno a cui addossare la colpa.
A fronte di tanto infantilismo nella politica di oggi, bisognerebbe ricordare le parole di Rossana Rossanda quando diceva che
duro, ma adulto, sarebbe riconoscere che la condizione dell’uomo, appeso tra vita e morte, questo suo dato biologico, astorico, il residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, è il limite oscuro che incontra, al limite del suo cammino, una emancipazione politica: la cui forza e missione non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma soltanto (soltanto!) liberarlo dell’intollerabilità della ingiustizia.