Le catastrofi climatiche sono sempre meno “eccezionali”
Una prospettiva linguistica sul clima che cambia.
Stella Levantesi giornalista e fotoreporter, si è formata alla scuola di giornalismo della New York University. È autrice di "I bugiardi del clima" (Laterza, 2021). Collabora con testate italiane e internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati, tra l’altro, su “The New Republic”, “il manifesto”, “Wired”, “Internazionale”, “LifeGate” e “Ossigeno”.
Fabio Deotto Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi "Condominio R39" (Einaudi, 2014) e "Un attimo prima" (Einaudi, 2017). Il suo ultimo libro è "L'altro mondo. La vita in un pianeta che cambia" (Bompiani, 2021).
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na persona, asciugandosi il sudore dalla fronte, si lamenta di come questa sia l’estate più calda degli ultimi cinquant’anni. Un’altra, accanto alla prima, con espressione sardonica risponde: “Consolati, è la più fredda dei prossimi cinquant’anni”. È una vignetta che sta circolando molto online, in questi giorni flagellati da un’infilata di eventi meteorologici estremi. Naturalmente si tratta di una semplificazione, ma la cosa interessante è il rovesciamento di prospettiva che propone. Un rovesciamento che si fatica invece a trovare nel panorama mediatico tradizionale, dove gli eventi climatici delle ultime settimane – le temperature da record nel Pacifico nord-occidentale che hanno innescato incendi e provocato il ricovero di moltissime persone; le alluvioni in Germania e in Belgio che hanno causato migliaia di dispersi e centinaia di morti; gli incendi devastanti in Australia e California, le temperature estreme in Siberia e molti altri – vengono puntualmente etichettati come “senza precedenti”, rimarcando indirettamente come i disastri che abbiamo sotto gli occhi non appartengano al mondo “normale”, ma siano da considerare eccezioni, elementi sfuggiti a una cornice che rimane integra.
Ma è sufficiente dare retta a quello che i climatologi dicono da decenni per capire che, se pure ci troviamo di fronte a circostanze “senza precedenti”, perché in molti casi non si è mai assistito a nulla di analogo, questi eventi non possono più essere derubricati come “eccezionali”, sono piuttosto i sintomi di quel fenomeno incredibilmente sfaccettato, interconnesso e difficile da inquadrare che chiamiamo crisi climatica. “Senza precedenti” non è solo qualcosa di eccezionale, l’espressione descrive un evento che si è verificato per la prima volta e che può costituire un modello di situazioni analoghe. Per definizione, quindi, qualcosa che è “senza precedenti” è potenzialmente destinato a diventare il primo di altri eventi molto simili. E la prospettiva sembra essere questa: il fatto che si verifichino circostanze mai viste prima è sempre meno un fatto eccezionale.
Eventi meteorologici che si sono verificati ogni centinaio di anni stanno diventando comuni. Gli eventi senza precedenti, per quanto possa suonare paradossale, stanno diventando la norma.
Daniel Swain, uno scienziato del clima dell’Università della California a Los Angeles, ha dichiarato al Guardian che quest’estate sono stati stabiliti così tanti record negli Stati Uniti che ormai non fanno più notizia: “Gli estremi che sarebbero stati degni di nota un paio di anni fa oggi non lo sono, perché impallidiscono in confronto agli aumenti sorprendenti delle scorse settimane”. Questo accade anche in altri paesi, ha aggiunto, anche se con meno attenzione da parte dei media. Questi eventi dunque non possono più essere considerati né isolati né eccezionali.
Eventi meteorologici che si sono verificati ogni centinaio di anni stanno diventando comuni. La crisi climatica non è iniziata oggi, ma si sta manifestando in una dimensione concreta anche in zone dove non siamo abituati a inquadrarla, con modalità e dinamiche che la scienza del clima pronostica da decenni. Insomma, non è più un problema astratto che riguarda altri, altrove. È qui, ora, mentre leggete queste parole. Gli eventi senza precedenti, per quanto possa suonare paradossale, stanno diventando la norma.
Ma perché il problema continui a essere visibile (e comunicabile) anche una volta che il terreno si sarà asciugato, le macerie saranno state rimosse e le case ricostruite, è fondamentale concentrarci sul linguaggio che utilizziamo per comunicarlo. Un linguaggio che, come abbiamo visto, si dimostra spesso inadatto a raccontare la complessità della questione. E se da un lato è utile smettere di parlare di eventi “eccezionali”, dall’altro è fondamentale trovare un modo di sintetizzare un fenomeno stratificato senza inciampare in pericolose semplificazioni.
Nei giorni successivi alle alluvioni di metà luglio in Belgio e in Germania, non passava ora senza che spuntasse un articolo che, già nel titolo, rivelava come i climatologi stessi fossero rimasti “scioccati”, “spiazzati”, “sorpresi” da queste manifestazioni estreme, suggerendo così – in maniera consapevole o meno – che delle persone che hanno passato la vita a studiare i fenomeni climatici, siano di fatto degli sprovveduti, alla stregua di marinai in tempesta che cercano la terra usando un bicchiere come binocolo. Il che è ancora più curioso se si considera che per decenni i climatologi sono stati accusati di essere eccessivamente catastrofisti: ora che le catastrofi preconizzate si vedono, li si accusa di non essere sufficientemente precisi nel proprio catastrofismo. Il punto è che le previsioni della scienza climatica non possono anticipare cosa succederà precisamente e dove, quanto semmai prevedere che l’intensità e la frequenza di determinati eventi meteorologici aumenteranno in modo netto con l’aumento di CO2 nell’atmosfera.
Se da un lato infatti gli esperti mettono in guardia dal “dare la colpa” di ogni singolo evento meteorologico estremo al cambiamento climatico, dall’altro affermano senza indugio che i cambiamenti climatici influenzano fortemente le condizioni atmosferiche, causando siccità più lunghe, pattern di precipitazione più erratici, temperature più alte in alcune regioni e inondazioni in altre. E non a caso, in questo contesto, fanno una distinzione tra “causalità” e “influenza”, due aspetti diversi che permettono di spiegare in maniera scientifica il rapporto tra riscaldamento globale e frequenza ed intensità di eventi meteorologici estremi.
Perché il problema continui a essere visibile è fondamentale concentrarci sul linguaggio che utilizziamo per comunicarlo.
Esiste un campo conosciuto come extreme event attribution – attribuzione di eventi estremi – che collega il concetto apparentemente astratto di cambiamento climatico con le esperienze tangibili di eventi climatici e meteorologici. Secondo un’analisi di Carbon Brief, gli scienziati hanno pubblicato più di 350 studi sottoposti a revisione paritaria che esaminano gli estremi meteorologici in tutto il mondo, dalle ondate di calore in Svezia alla siccità in Sud Africa, dalle inondazioni in Bangladesh agli uragani nei Caraibi. Il risultato è una crescente evidenza di come l’attività umana stia aumentando il rischio eventi meteorologici estremi. Dei 122 studi di attribuzione sul caldo estremo che sono stati esaminati, il 92% ha concluso che il cambiamento climatico ha reso l’evento o la tendenza più probabile o più grave. Dagli 81 studi che hanno esaminato le precipitazioni o le inondazioni, il 58% ha riscontrato la stessa tendenza. Nei 69 eventi di siccità studiati, invece, la percentuale sale al 65%.
Per questo quando si parla di “attribuzione di eventi estremi”, è importante chiarire se si tratta di una categoria di eventi – per esempio le ondate di calore – o un evento specifico – per esempio le alluvioni in Germania. E, soprattutto, è importante porre la domanda corretta. Secondo il dottor J. Marshall Shepherd, esperto di clima e direttore del programma di scienze atmosferiche dell’Università della Georgia “i media e i decision-makers devono smettere di chiedere se un evento [meteorologico N.d.R.] sia stato causato dal cambiamento climatico”. Le domande che bisognerebbe farsi piuttosto sono altre: “eventi di questa gravità sono più o meno probabili a causa del cambiamento climatico?” oppure “in che misura l’evento è stato più o meno intenso a causa del cambiamento climatico?”
Ignorare questi collegamenti nel racconto della crisi climatica e non avere una visione comprensiva di questi elementi è un problema. Trattare gli eventi meteorologici estremi come casi isolati e scollegati dalla crisi climatica è un problema. Dare le notizie su questi eventi come fatti di cronaca che esaltano esclusivamente le dimensioni di località e temporaneità (acquazzoni torrenziali, nubifragi, bombe d’acqua) è un problema. L’abuso del termine “maltempo”, che sembra essere la parola magica, un jolly che viene utilizzato per evitare analisi, ricerca, approfondimento, è un problema. Lo è perché rinforza una narrazione della crisi climatica fuorviante che da un lato ci impedisce di vedere come il nostro mondo sia già inevitabilmente cambiato, dall’altro fornisce una sponda a chi ha interesse a procrastinare un intervento politico ed economico che invece è palesemente irrimandabile.
L’impiego di un linguaggio migliore nel racconto della crisi climatica è un passo fondamentale per operare il cambio di paradigma di cui abbiamo bisogno, e questo perché il modo in cui parliamo determina il modo in cui pensiamo, e il modo in cui pensiamo determina il tipo di sguardo che rivolgiamo al mondo. Se fatichiamo a prendere atto di una minaccia esistenziale già così manifesta, è anche perché non siamo evolutivamente equipaggiati a catalogare questa minaccia come qualcosa che possa mettere a rischio la nostra sopravvivenza. Siamo i discendenti di chi sapeva scappare di fronte a pericoli immediati, ma anche di chi era in grado di mantenere il sangue freddo quando il pericolo era solamente percepito. Quegli stessi meccanismi che hanno permesso ai nostri antenati di sopravvivere in un mondo pieno di insidie senza andare in paranoia a ogni spron battuto, oggi ci paralizzano in una situazione dove, anche se a livello razionale ci viene detto che l’acqua in cui galleggiamo sta bollendo, ci lasciamo rosolare a fuoco lento perché convinti che si tratti solo di un fenomeno eccezionale.
L’utilizzo di un linguaggio adeguato può aiutare a spezzare questo circolo vizioso cognitivo. L’atto di dare nomi dopotutto è una componente cruciale dell’apprendimento: i neonati imparano a stabilire connessioni più durature tra le cose che sentono, vedono e odorano una volta che possono etichettarle con un nome. Non c’è da stupirsi allora se nel maggio del 2019 il Guardian ha chiesto ai propri collaboratori di utilizzare una nuova terminologia per parlare della questione climatica: dovevano innanzitutto evitare il termine “cambiamento climatico”, reo di suonare troppo delicato e passivo, e preferire invece “crisi climatica”, “collasso climatico” o “emergenza ecologica”, che in effetti restituiscono meglio la complessità e gravità della questione.
L’impiego di un linguaggio migliore nel racconto della crisi climatica è un passo fondamentale per operare il cambio di paradigma di cui abbiamo bisogno.
La scelta di “linee guida” ufficiali per la comunicazione dell’argomento era funzionale dal punto di vista editoriale, ma questo non significa che vadano adottate in maniera dogmatica nella comunicazione di tutti i giorni. Perché se è vero che il termine “cambiamento climatico” può risultare meno allarmante di “crisi climatica” è anche vero che veicola una sfumatura concettuale – l’idea di essere in una fase di transizione in divenire – che nella seconda locuzione invece manca. Vietare l’utilizzo di certe parole non è necessariamente la strada giusta. Forse risulterebbe più proficuo (anche se più dispendioso) dedicare più attenzione alla complessità del problema, porsi in un’ottica di dubbio, schivare gli automatismi che rendono così allettante risolvere un pezzo parlando di “evento epocale” o di “climatologi spiazzati”. Forse, prima di descrivere un’alluvione come un evento “eccezionale” o “epocale”, sarebbe sufficiente soffermarsi un momento a riflettere: lo è davvero?