O gni mattina scendo le scale di casa e sotto il cielo terso accendo la Honda XL125R rossa. Dodici chilometri di lungomare, da Marina di Massa a Marina di Pietrasanta, senza una curva, tuttalpiù faccio una sosta a Vittoria Apuana, per fermarmi all’edicola e comprare un giornale. Nei mesi di luglio e agosto la strada è ingorgata, ma tra maggio e giugno il traffico è scorrevole e così accelero con gioia lungo il rettilineo in direzione Viareggio. Accanto corrono le insegne degli stabilimenti balneari: Bagno Bemi, Bagno Giancarlo, Bagno Rina, Bagno Sandra, Bagno Henderson… Bagno America, Bagno Milano, Bagno Alcione, Bagno Beppe. Ricordo certi alberi di pino prostrati, come colpiti da uno schiaffone e rimasti per sempre col tronco piegato; le tre V dell’Hotel AVGVSTVS, grande come una reggia e nascosto dalle siepi di ligustro; la linea di mezzeria, apparentemente senza una fine e candida come un lenzuolo fresco di bucato; il vago presagio che prima o poi avrei scritto di quei minuti; il richiamo sulla coscia della forma giocosa e tondeggiante del primo cellulare, sistemato in una tasca dei pantaloni bermuda; i gruppi di ciclisti con le facce scottate; il sole che si posa tiepido sul casco e sulle nocche, mentre aspetto di ripartire fermo al semaforo, e poi, con la luce verde, il piede impaziente che inserisce di nuovo la marcia e il ricominciare di una festa di ossigeno e sole.
Lascio la moto vicino a un bidone della spazzatura, dopo il cartello al confine tra Forte dei Marmi e Marina Di Pietrasanta. Con il casco in mano mi avvio verso la grande sagoma in legno di una giraffa, che quasi si affaccia sul viavai del lungomare, come se dovesse, con quel suo muso fiducioso, cercare foglie e ramoscelli da strappare e masticare al di sopra del flusso delle auto. Alle spalle della giraffa si trova la tettoia di un parcheggio che protegge nell’ombra SUV e fuoriserie. Tra i riflessi delle carrozzerie si specchia l’ingresso di un beach club. Entro; passo per la sala del ristorante non ancora apparecchiata, sfioro la consolle del deejay deserta e il bancone del bar con i bicchieri a testa in giù coperti da un panno, poi scendo al piano interrato, in cucina. Nel ripostiglio c’è un armadietto di metallo senza chiave, dove metto i vestiti, il casco e il giornale. Mi spoglio, indosso i pantaloni di tela color panna, un paio di scarpe sportive di pelle chiara fornite dall’azienda, una maglietta grigia di cotone con il muso di una giraffa, un grembiule bianco pulito che stringo intorno alla vita, quindi entro in cucina e mi sistemo alla lavastoviglie.
La cucina è uno spazio moderno e all’avanguardia, dotato di grandi celle frigorifere allocate in un vano a parte. Dopo le pulizie, quando me ne vado a casa a fine turno, gli ampi banconi in acciaio inox passati con la spugnetta e lo sgrassatore, i forni, gli sportelli con le guarnizioni in gomma, le maniglie, l’abbattitore di temperatura, gli armadi congelatori, splendono come mobili in esposizione dentro la vetrina di un negozio; alle dieci e mezzo del mattino la situazione è diversa: otto cuochi al lavoro, con gli zoccoli di gomma lasciano impronte e strisciate sul pavimento, i ripiani sono occupati da vaschette di plastica colme di calamari e di siringhe e sac à poche sporche di crema pasticcera; i minipimer strepitano dentro le ciotole di acciaio e i fuochi dei fornelli scalpitano accesi, con fiamme spesse un dito.
Lavoro in cucina da un mese e mezzo. Uno dei cuochi più anziani, un commis, pensa che io sia comunista. Lo pensa in base a un ragionamento che ha fatto. Ha notato che ho l’abitudine di comprare il giornale e che ogni tanto esco dalla cucina per una pausa, mi sistemo su un gradino all’aperto e ne approfitto per dare un’occhiata al giornale. Allora il commis passa, apre la porticina di vetro e si affaccia, quindi mi chiede che cosa c’è d’interessante da leggere sul giornale. Io alzo la faccia dalla piega del quotidiano, ma poi rimango muto, perché non so che cosa rispondere. Lui dice che non serve a niente leggere il giornale, tanto tutti rubano e quando i partiti vanno al governo sono tutti uguali, si comportano e fanno schifo allo stesso modo. Mi chiede, ghignando sulla soglia della porticina, se sarò mica un comunista. Gli domando perché, e se per caso la sua ipotesi ha a che fare col giornale che sto leggendo, ma il cuoco divaga, non ha neppure considerato che giornale sto leggendo, se è un quotidiano di destra, di centro o di sinistra, se è locale o nazionale, se chi scrive è Belpietro o D’Avanzo: è il semplice fatto di tenere un giornale in mano a rendermi sospetto. È sufficiente la circostanza a fare di me un comunista. Anche perché questo sfoglio del giornale sotto il sole avviene durante una pausa di lavoro. Come ti viene in mente di leggere il giornale sul posto di lavoro?, sembra chiedermi con le sue piccole iridi azzurre. E che cosa c’entrano un giornale, la politica, la pagina scritta, la parola, la riflessione, con un contesto come questo, cioè la cucina del ristorante di un beach club in Versilia? Ma forse il cuoco, sotto sotto, mi sta chiedendo qualcos’altro, vorrebbe sapere da me che senso ha leggere un giornale, visto che i giornali perdono copie e nessuno, ormai è chiaro, ha più voglia di leggere i giornali, ma tutt’al più ci s’informa guardando qualche talk show in televisione oppure con l’abbonamento a Internet. Che cosa ci trovo di utile in quei due minuti di silenzio in cui scorro gli occhi lungo una pagina di giornale? Cosa me ne faccio della lettura di un giornale? A che serve? Di conseguenza il cuoco, secondo una sua logica, ha pensato che questa ostinazione alla lettura e la ripetizione del vecchio gesto di sedersi e aprire un giornale – come si vedeva negli scatti che ritraevano certi operai negli anni Sessanta a Milano, a Genova o a Torino, intenti ad acculturarsi con i fogli di giornale e la libera stampa democratica – fanno di me un comunista. Da quel momento in poi, quando il commis arriva e mi lascia sul bancone della lavastoviglie una pentola incrostata da lavare o la ciotola del minipimer dove ha frullato le zucchine, non manca di fare una battuta, magari mi chiama Che Guevara o Lotta Continua (ha più di sessant’anni, quindi perdurano in lui delle memorie, dei depositi e delle immagini residuali, come appunto l’icona barbuta di Che Guevara col basco effigiato da una stella, e poi sopravvive in lui una reminiscenza della sigla Lotta Continua, che nella cucina, quando viene nominata a voce alta, risuona come un lemma sibillino e remoto, che deve ogni volta essere esumato da sotto un cumulo di detriti e poi decifrato e messo a fuoco, mentre magari si sta lavorando alla salatura di un branzino o si sta firmando la bolla a un fornitore della frutta e verdura, arrivato col carrello) e poi mi chiede se per caso ho visto in tv il mio amico Agnoletto, il mio amico Caruso, il mio amico Don Vitaliano o il mio amico Luca Casarini – quel coglione – cioè il tale grande e grosso con la barbetta e l’accento delle Tre Venezie che dice di voler violare la zona rossa a Genova, quando giovedì 19 luglio inizierà il summit del G8.
Un giorno il pizzaiolo del beach club è sceso in cucina a prendere una pila di piatti puliti. È un pizzaiolo esperto, di Napoli, un bravo professionista che, a dispetto della giovane età, ha già vinto diversi premi e al beach club lavora insieme a un aiuto in una sua postazione col forno a legna, in giardino. Ha preso i piatti grandi per la pizza, quelli col bordo rialzato, e in quel mentre, alzando la pila di piatti, ha sentito che il commis mi dava del comunista, perciò si è voltato verso di me e mi ha chiesto a sua volta conferma, se ero o no comunista, e se per caso ero uno di quelli che volevano andare a fare casino e a spaccare i bancomat a Genova, ma prima, posando di nuovo i piatti puliti sul bancone in acciaio inox, ci ha tenuto a specificare che lui, invece, era per Berlusconi e che alle elezioni aveva votato Forza Italia, anzi Silvio, perché è un grande uomo, che nella sua vita ha avuto tutto, ha chiavato, si è fatto da solo, ha costruito aziende e ha dato lavoro a tanta brava gente, anche se gli straccioni come D’Alema lo odiano e a causa del loro essere comunisti sono invidiosi dei suoi successi, perché è così che funziona, al fondo della natura dei comunisti c’è il sentimento dell’invidia, ma ora dopo le elezioni di maggio la festa è finita, perché al governo, ha detto il pizzaiolo, adesso ci sono loro, cioè Fini e Berlusconi. Io, che passavo le posate con l’aceto e poi le mettevo in un contenitore grigio apposito, non avevo idea di che cosa rispondere, non avevo certo la prontezza per ribattere e se da una parte non mi sentivo comunista nel modo in cui lo intendeva lui, dall’altra mi sentivo comunista in un modo privato e problematico che intendevo solo io e nessun altro, e tantomeno ero in grado di affrontare tutto il lungo discorso su Genova e il G8, di spiegare perché come tanti avrei proprio voluto prendere un treno ed esserci, se non avessi dovuto lavorare, insomma non avevo la forza né la voglia di tirare fuori le ragioni dell’inquietudine crescente, dello scombussolamento e poi del richiamo, della spinta ad andare e unirsi e dell’attrazione che piano piano la città di Genova, mentre facevo avanti e indietro in moto con Marina di Pietrasanta, aveva esercitato su di me, in quelle settimane di ansia e attesa per l’inizio del G8 e del Social Forum, Genova divenuta all’improvviso qualcosa d’altro, una città del destino, una Gerusalemme, così come non avevo voglia e tempo di esporre le ragioni politiche che erano a monte del mio desiderio inappagato di partecipare, e tantomeno sarei stato in grado di discutere il fatto che la distruzione di un bancomat non era certo la questione più vitale per la nostra specie umana e per le altre specie, tutt’altro, ma questa somma di non essere in grado di e non aver la forza né la voglia di significava che non ero nella condizione di rispondere alla domanda; così, di fronte alla mia esitazione, il pizzaiolo ha deciso che ero comunista. Ha pronunciato la parola secondo la dizione partenopea, communist’, e poi appellandomi direttamente ’o communist’, con assolutezza e ferocia e con una certa nettezza, come se in quel termine si concentrassero da sempre, per lui, il negativo della storia umana e lo sporco del mondo e tutto ciò da cui gli è stato detto di difendersi e non lasciarsi contaminare, per non distrarsi, per non perdere il filo delle cose e della sopravvivenza, il tipo di persona da evitare, rifuggire, a cui non prestare ascolto e che all’occorrenza è necessario allontanare o combattere.
Da quel momento, essendo il pizzaiolo un tipo loquace e abituato a parlare con tutti e di continuo, si è sparsa la voce al beach club che ero comunista. E ogni volta che venivo visto da qualcuno mentre leggevo il giornale sul gradino, indipendentemente da quale giornale stessi leggendo, la verità di quel giudizio si asseverava e diventava incontrovertibile, rispecchiava una caratteristica della mia persona, come il fatto di portare gli occhiali o il 42 di scarpe.
Un giorno uno dei camerieri, originario di San Miniato, paesino medievale tra Pisa e Firenze, mi si è avvicinato ciondolando, amichevolmente, per dirmi che quando era piccolo dalle sue parti organizzavano delle belle feste dell’Unità e anche una festa molto grande, in autunno inoltrato, che fanno tuttora, e perciò m’invitava ad andarci, ché si mangiava benissimo, e, specialmente, mi consigliava di andare per assaporare i tartufi che si trovano nelle sue zone. Al beach club, del resto, non si fa che parlare di cibo e ristorazione. Quando alle undici e mezzo pranziamo tutti insieme, a tavola, mentre mangiamo non si parla che di cibo e di localini e osterie da provare assolutamente, che si trovano in zona o in altre città. Anche i camerieri, gli stagionali di vent’anni, parlano di cibo e di nuovi ristorantini da testare, a Milano o a Firenze, li recensiscono portata per portata e li analizzano sotto tutti gli aspetti, dal servizio all’atmosfera, come quei cinquantenni gourmet e benestanti che se ne vanno in giro per bistrot stellati. E tuttavia, mi sono detto, che male c’è in questo attaccamento al piacere, in questa propensione verso il cibo e il gusto?
Sullo schermo appeso in sala passa il telegiornale di Rete 4. In quei giorni i Tg aprono con le notizie sul G8, sull’allarme black bloc e sulle polemiche intorno alla creazione a Genova di una zona gialla e di una zona rossa, quest’ultima protetta da grate innalzate per strada, ma nessuno, durante il pranzo, presta attenzione o è interessato alla notizia. A nessuno importa del Tg4, del mezzobusto o di quello che succede, o si dice che stia per succedere, a Genova. Poi un cuoco d’impulso allunga una mano verso il telecomando, lo punta verso lo schermo e cambia canale, dove danno la Formula Uno.
Il proprietario del beach club è un noto uomo d’affari. Il giorno di luglio in cui è arrivato in elicottero dalla Sardegna lo abbiamo aspettato schierati all’ingresso dello stabilimento; da una parte i cuochi in divisa, il pizzaiolo e i camerieri impettiti, dall’altra i pr con i microfoni ad archetto e il personale dell’amministrazione, in polo scura e calzoncini corti. L’uomo d’affari ha attraversato il corridoio con passo indolente, parlando in un minuscolo telefono e guardando oltre, verso il mare e la spiaggia, attraverso le lenti fumé grigio-viola.
Ogni settimana al beach club arrivano i vip della televisione, dello spettacolo, i testimonial delle compagnie telefoniche o delle grandi ditte di arredamento, le soubrette e le conduttrici televisive, gli uomini d’affari con l’orologio costoso al polso, qualche politico di destra, alcune cariatidi del giornalismo e i campioni e le campionesse dello sport, in giacca e pantalone o in abito da sera, diventati celebrità grazie a un talk show o a uno spot in tv. Dopo cena il ristorante si trasforma in discoteca, con un’area privé e un superprivé a ridosso della piscina. La cucina è separata dalle scale (che portano nella sala al piano terra) da una pesante porta antipanico, ma quando arrivano i camerieri e le cameriere con i piatti sporchi e aprono la porta, allora si sentono i rumori e lo scalpiccio della discoteca e il ritornello di canzoni come Se mi lasci non vale, Le freak c’est chic, Tu sei l’unica donna per me e poi, dopo mezzanotte, la musica house e quella commerciale. Dai racconti divertiti dei camerieri ho saputo che c’è un tale, un imprenditore di Bologna amico del proprietario del beach club, che ha l’abitudine di ordinare una bottiglia di Krug da duecentocinquanta euro e poi, davanti agli amici, rovesciarla per intero in piscina. I vip sono tutti abbronzati. È una specie di torneo tra chi è più abbronzato. L’arrossamento della pelle è esaltato dal bianco o dai colori vivaci delle camicie stirate e con le maniche arrotolate con cura fino al gomito. Non ho mai incrociato i vip, perché lavoro di sotto, la cucina è al piano interrato ed è raro che io venga a contatto con una delle celebrità che frequentano il beach club; ne sento parlare dai camerieri, intercetto i loro racconti, quando dicono che è arrivato tizio o caio che ha parcheggiato con quella certa macchina o che ha prenotato un tavolo vicino alla piscina. Spesso, quando torno a casa, mi capita di rivedere le immagini del beach club alla tv, nei rotocalchi e in servizi da un paio di minuti su Studio Aperto. I vip nominati dai camerieri li vedo sullo schermo a volume basso, mentre mi rilasso sul divano. Vengono intervistati a proposito del luogo dove passeranno il resto delle vacanze, l’inviato chiede se dopo Forte dei Marmi e Marina di Pietrasanta ci saranno altre mete, se andranno da qualche altra parte e con chi, intendendo maliziosamente la possibilità di una tresca estiva, a cui di solito l’intervistato o l’intervistata rispondono con un ammiccamento e qualche ironico puntino di sospensione. Le interviste vengono alternate a immagini della piscina, delle tende sulla spiaggia, della giraffa col muso ingenuo e curioso, del lungomare di notte intasato di auto e luci, dei barman che fanno roteare lo shaker, dei gazebo col tetto di paglia a imitazione di certe folkloristiche abitazioni del Kenya, degli avventori con la camicia aperta sul petto, i quali, mentre reggono un drink colorato, fanno una smorfia buffa o levano teatralmente il pollice di fronte alla telecamera. Le ragazze ballano, serrano i lineamenti in un’espressione altera e fingono di non essere inquadrate. L’operatore spesso inclina la camera di quarantacinque gradi per sbirciare il culo e le gambe abbronzate delle ragazze, poi prolunga la panoramica sul resto della discoteca all’aperto, che viene ripresa in obliquo, con il piano dell’orizzonte inclinato, per comunicare al telespettatore un effetto di piacevole sottosopra, di festa, di divertimento fuori dalle regole. Quando me ne vado, a fine turno, per raggiungere l’uscita e il lungomare devo attraversare un pezzo di discoteca. Noto la vena gonfia sul collo di un buttafuori, sento il rumore crudo dei bicchieri di plastica calpestati, vedo l’adolescente muto e appartato accanto alla siepe e alle spalle di tutti la massa scura e oleosa del mar Tirreno, che ribolle a cento metri dalla piscina.
Venerdì 20 luglio a Genova, in piazza Alimonda, viene ucciso un ventitreenne; la sera di sabato 21 la polizia fa irruzione alla scuola Diaz. A pranzo nessuno commenta quello che è appena accaduto. Dallo schermo tv arriva a volume basso la cronaca di Studio Aperto, un trambusto di voci che urlano e sirene della polizia, però a nessuno interessa e il boato dei due spari e il grido di piazza Alimonda si disperdono nel tintinnio delle forchette e dei coltelli. Poi arriva il pizzaiolo col suo piatto di prosciutto e melone, si siede e canticchia Se mi lasci non vale.
Ogni tanto, negli anni, mi è capitato di sognare la moto Honda che ho usato nell’estate del 2001.
Con la moto corro, guarisco, nella notte torno a respirare, a vivere per davvero, oppure per colpa della moto sono angosciato, perché all’improvviso la moto non si accende, è rotta, o forse la miscela nel serbatoio è solo un filo e nel sogno quel filo terminale di miscela è un fatto irrimediabile. La moto non parte, rimango a piedi nel mezzo della vita adulta. Altre volte ci sono sogni che non hanno niente a che fare con la moto, ma il luccichio della vernice rossa spunta qua e là, e così il sogno, anche se parla d’altro, è screziato dal colore del serbatoio e del parafango, è irradiato dalla presenza della moto, dalla sua anima.
Un estratto da Circospetti ci muoviamo. Genova 2001: avere vent’anni, a cura di Michele Vaccari (effequ editore, 2021).