L e narrazioni romane, dai romanzi alle serie tv, vanno in cerca sempre dello stesso mistero: quel limbo tra sopra e sotto, tra periferia e centro, tra fuori e dentro. A Roma funziona come lo yin e lo yang: un equilibrio anomalo per cui non avviene mescolanza, ma una reciproca contaminazione tra una civiltà perennemente decadente e una popolazione perennemente sediziosa. Dei tanti autori romani che hanno cercato di raccontare, anche dare gloria, a questo mondo di mezzo, ce n’è uno che finora non ha avuto il riconoscimento che merita, forse perché non ha scritto un opus magnum, ma ha disseminato una sorta di romanzo diffuso nelle centinaia di articoli e interventi che ha fatto su Roma, sparsi per riviste d’elezione o casuali, dal Riformista a Dagospia, da Rivista Studio a Esquire, o anche qui sul Tascabile. Per fortuna da qualche anno li ha raccolti nel suo sito.
In realtà un’opera su Roma più articolata Stefano Ciavatta l’ha composta ma mai pubblicata: è una performance dal titolo Roma contro Roma che ha portato in giro con il giornalista Alessandro Trocino tra la fine degli anni zero in vari locali romani e non solo (qui un estratto). Roma contro Roma è un’ora di botta e risposta libero su Roma e le sue storie recenti e bimillenarie tra un milanese trapiantato in città, innamorato ma scettico come Trocino, e un romano, laico e fatalista come Ciavatta:
Io non ricordo il giorno in cui sono arrivato a Roma per il semplice fatto che a Roma ci sono nato. Ma questo non vuol dire nulla, stai sereno perché a Roma i romani di settima generazione non esistono più, sono rimasti solo mio nonno – che sta al cimitero – e gli ebrei del ghetto. Neanche Roma non è più la stessa, neanche questo sampietrino, ma Roma continua a non chiedere patenti all’ingresso.
Chi parla di Roma deve sempre autolegittimarsi una patente: deve dimostrare di conoscerla meglio degli altri, di averla vissuta (leggi: subita) nella sua manifestazione tentacolare. In questo senso non aver mai scritto un libro unico e strutturato su Roma è come un atto di verità: quel libro sarebbe limitato, avrebbe mostrato la parzialità del punto di vista, e soprattutto l’arroganza dell’ultima parola, che è impossibile, perché è chiaro come non siamo noi a poter raccontare Roma ma è la città a scriverci, con la sua capacità di costruire attraverso gli incroci una nuova genetica.
Sono nato e cresciuto nella Balduina del Sorpasso, ora vivo al Trullo nell’ex borgata Ciano. Mio padre è nato a Fontanella Borghese poi ha vissuto a Monteverde e poi all’Eur a Decima. Mia madre è nata a via Gattamelata a Prenestino e poi è andata ad abitare in via Kossuth a Portuense. La famiglia del sangue è sparsa tra piazza Euclide, Corso Francia, via del Serafico, lo Zio d’America a Talenti, Colli Albani e Botteghe Oscure. I miei più cari amici stanno a Labaro, Tor Tre Teste, Spinaceto, Prati Fiscali, Monte Mario, alla Caffarella. Ho condiviso case a Cortina d’Ampezzo, a via Merulana, qui al Pigneto, sono stato innamorato alla Garbatella, a Torrevecchia, Marconi, Boccea, Furio Camillo. Mi sono sentito un puntino sperduto in mezzo alla Muratella che friggeva d’agosto, ho sentito il freddo aizzarmi contro i cani mentre tornavo in motorino da Fidene, ho fatto a botte a Primavalle su un campo da calcio, ho preso la patente al Villaggio Olimpico. E non ti sto a dire la boheme, i vizi, le perdite di tempo. Questa è la mia città anche se il Comune di Roma sembra ignorarla con le sue piantine microscopiche. Con la Roma che conosco io potrei farci 10 guide di Pavia. Ma soprattutto ho costruito la mia città passando e ripassando, a volte piantando le bandierine, a volte con la coda dell’occhio, guardandola scivolare via da un finestrino, scendendo alle fermate prendendola per le corna. Per questo la Roma immensa che terrorizza i fuorisede delle ultime generazioni non mi ha mai fatto paura.
Di questa città si può fare solo una fenomenologia dello spirito, un romanzo diffuso. Per Ciavatta c’è l’idea intrinseca che Roma si possa raccontare solo come un palinsesto di frammenti e solo come una saga di secondo grado, metariflessiva, magari derivativa, addirittura epigonale.
Insomma tu abbocchi a una Roma presa tutta d’un fiato, invece Roma va capita come quei cumuli di vestiti sui banchi di Porta Portese. Quale vuoi? Vuoi il dolce borgo, una semi-Milano, una mezza Torino, una super-Palermo, una succursale del Cairo, un gemellaggio con Bucarest? Ci stanno tutte. Devi essere pronto a maneggiarle, pure quelle invisibili.
Ciavatta si sceglie ambientazioni e personaggi, in un mélange di epica da borgata e cronaca popolare. La differenza tra immaginario e realtà trascolora. I luoghi sono tutte cartoline consunte: la Castelporziano dei poeti, Mondo Convenienza, Porta Portese, lo stadio Olimpico. L’anima cercata in questi luoghi non è tanto un genius loci, ma qualunque matrice di racconto. Ciavatta è attratto più che dai testimoni della civiltà limbica di Roma, da quelli che sono i superstiti – i sopravvissuti allo spolpamento che la città stessa fa dei suoi abitanti.
Un esempio paradigmatico può essere Richard Benson, chitarrista metal, diventato famoso negli anni ottanta, che poi ha fatto uno spettacolo del suo umiliantissimo declino tra apparizioni sparse sulle televisioni locali. Ciavatta trova la voce perfetta per raccontarlo, né edificante né pietosa né cinica: si sente in ogni cosa che scrive il desiderio mescolato all’allarme di ridursi così. Malati, senza denti, a elemosinare un po’ d’attenzione. Benson fa parte della schiera più affascinante per un narratore: quelli che sono assolutamente indifendibili.
Dici che Roma è indifendibile ma la passione è degli indifendibili. è di quelli che continuano a sbagliare un calcio di rigore, degli insabbiati, dei rimastini, dei folgorati, perchè al massacro delle aspettative e dei risultati ci sono andati loro, gli altri fanno i calcoli per non farsi del male.
Il reliquiario umano che Ciavatta celebra comprende dropout, mascalzoni, traffichini, pataccari, promesse mancate, geni sregolati, icone moderne e contemporanee, celeberrime o oggetto di piccoli culti, storiche o ipercontemporanee, reali o inventati: Anita Garibaldi e Giorgio Marincola, Lisetta Carmi o Franco Califano, Victor Cavallo o Paul Gaiscogne, Massimo Marino e Remo Remotti.
La tv e il calcio, il teatro e la musica, le piccole emittenti private come le serie inferiori come i palchi di periferia, spesso rappresentano quella zona purgatoriale dove la gloria diventa eco di sé stessa, la grande bellezza si disfa: lì lo sguardo di Ciavatta si sofferma a contemplare quello che nessuno guarda più. Se Jep Gambardella sembra davvero uscito da una cronaca ciavattiana, è soltanto perché ha qualcosa di meno delle guide alla Roma notturna o devastata che si trovano nei racconti di Ciavatta. Ma non c’è la facile salvezza di una valorizzazione che si lascia affascinare dalla rovina per poterla vendere e camparci. Ciavatta vive Roma tutta, non la sorvola, non ne ricava nulla, anche se lo sa, potrebbe incassare il consenso del lettore affamato di poetica del disagio.
Se è Joyce a dire che Roma è come un uomo che vende in continuazione il cadavere di sua nonna, Ciavatta riesce a cogliere meglio la fame che c’è dietro a questa cannibalizzazione che la città fa di sé:
Ma anche questa è Roma, feroce con le rovine umane a cui chiede ancora di esibire a carissimo prezzo le medaglie opache con la stessa violenza da teppisti con cui un tempo si staccavano i nasi ai busti del Pincio e del Gianicolo.
Così l’amore per la decadenza non è mai un’estetica délabré ma una seria passione per la cura di ciò che è irrimediabilmente mortale nella città presuntamente eterna. Per questo è persino struggente il suo unico libro pubblicato, un testo d’occasione, Vola. Il manuale di chi tifa Lazio che racconta il romanzo di formazione del diventare laziali con la Lazio retrocessa e penalizzata e insieme il rapporto con il padre: il tifo come eredità genetica. Un tema chiave, a conoscere l’opera di Ciavatta, che si conclude con l’articolo dedicato alla malattia del padre, l’Alzheimer, e agli altri migliaia nelle sue stesse condizioni in Italia.
Dalle inchieste (qui su Fiumicino e gli incendi tossici) ai reportage (qui sul tempio Mormone a Settebagni o sulla Borgata Dubai della Tiburtina), il romanzo diffuso che Ciavatta costruisce su Roma è approntato con un metodo non dichiarato: non essere mai cinici, prendere sul serio questa città anche quando le sue espressioni si potrebbero liquidare con irriverenza, sarcasmo, disinteresse. Il gusto per il dettaglio conserva la speranza di trovare fra le cianfrusaglie un amuleto.
A leggere il romanzo diffuso di Ciavatta in questa campagna elettorale sfibrata, ci si sente come sollevati rispetto al proprio cinismo, all’indifferenza che temiamo possa preludere alla profezia che si autoavvera che le cose vadano sempre peggio. Citando Daniela Ranieri, e il suo Stradario aggiornato di tutti i miei baci:
Oggi Roma è una città post-nucleare. I bagni pubblici sono sporchi, rotti; rigurgitano miasmi e materia fecale. È uno dei segnali che in questa epoca non può iniziare niente di nuovo, che non c’è nessuna nuova èra all’orizzonte, e che faremmo tutti bene a non nutrire alcun ottimismo e a sospettare l’uno dell’altro. Ogni architettura sociale lasciata a sé stessa ci comunica che siamo gli ultimi esemplari dell’umanità, indegni di rispetto. Siamo poveri. È già tanto che abbiamo acqua corrente per scaricare le deiezioni. È già tanto che possiamo farlo al chiuso. Ogni cosa che usiamo trasuda il disprezzo per noi stessi e per il nostro tempo, e il disinteresse per la discendenza.
La Roma anale e non genitale di Ciavatta, che richiama la Roma anale di Remoria di Valerio Mattioli, diventa a questo punto la chiave per riflettere sulla fine della civiltà urbana come l’abbiamo conosciuta: la cornice di questa narrazione esemplare non è più il ripetersi della fine dell’impero, ma un inverarsi della fine del mondo. E così gli scritti di Ciavatta sembrano più che lacerti finali, piccole profezie, un’apocalissi sfrangiata di un mondo che pezzo a pezzo vuole liberarsi di sé, e tornare a essere una grande campagna o una foresta prima che arrivassero Romolo e Remo.