A bbiamo lasciato Nathalie Léger alla fine del precedente libretto Suite per Barbara Loden, capitolo centrale nella sua trilogia sulle donne sfocate, interdetta davanti alla scarsità di fonti sulla vita bizzarra della sua protagonista. La regista Loden le sfugge così come il suo principale personaggio filmico, Wanda, scappa da obblighi e definizioni. L’abito bianco — terzo e ultimo volume appena pubblicato da La Nuova Frontiera nella traduzione di Tiziana Lo Porto — invece, si apre con un surplus di informazioni. Subissato, anzi, dalla materialità di oggetti carichi di significato, sapere, ricordo appartenuti a Pippa Bacca, pseudonimo di Giuseppina Pasqualino di Marineo. C’è l’abito da sposa del titolo (in realtà due, uno sudicio e uno lindo), ci sono ore di filmati video e tante fotografie, persino registrazioni nitide di voci che parlano, musica.
Pippa Bacca, d’altronde, non si nasconde: è un’artista performativa, e come tale è morta. Stuprata e uccisa in Turchia nel marzo 2008, a meno di un mese dall’inizio del suo viaggio-pellegrinaggio-performance Spose in Viaggio: da Milano a Gerusalemme in autostop, in abito bianco da sposa, per incarnare un simbolo di pace nei paesi est-europei e mediorientali devastati dai conflitti. Non c’è mistero da svelare per Léger: l’assassino ha un nome e un volto, il corpo di Pippa e il suo “corredo di nozze” sono stati restituiti alla famiglia. La performance è stata scrupolosamente organizzata e documentata insieme alla compagna di viaggio Silvia Moro, l’artist statemement è tutt’oggi leggibile sul sito www.pippabacca.it.
Non è il candore o la stupidità della sua intenzione che mi ha interessata, è che abbia voluto, con il
suo gesto, porre rimedio a qualcosa di smisurato e che non ci sia riuscita.
Questo quanto dichiara Léger, dalla quarta di copertina dell’edizione francese (traduzione mia). La scrittura di Léger raccoglie elementi del reportage narrativo, del saggio creativo e dell’autobiografia: leggerla significa affidarsi a un percorso arbitrario che segue e stringe elementi significativi per chi scrive, trascurando la presunta necessità di una motivazione logica, un nesso tematico, un obiettivo altro dal piacere dell’autrice. Le stringhe culturali di Léger tendono a legare insieme idee di solitudine femminile con l’osservazione di atti artistici ambigui, unici o mal conservati. In L’Exposition — il saggio che inaugura la serie nel 2008 — Léger pensa al protagonismo fotografico inseguito da Virginia Oldoini, la Contessa di Castiglione messasi in posa per settecento fotografie che inscenassero momenti della sua vita. In Suite (2012) procede per allusioni letterarie ed echi personali al fine di supplire vuoti d’archivio e testimonianze silenti sulla regista e attrice Barbara Loden. Con Pippa Bacca, però, Léger si confronta con un’altra artista che non ha esitato a situarsi sia davanti che dietro l’obiettivo, ma che ha anche spinto la sua arte a un livello assoluto, l’ha fusa, e persa, con la sua vita. In Abito, l’immaginazione libera di Léger ambisce a farsi inventario testamentario.
Léger non è certo la prima, o l’unica, a innestare il proprio lavoro sulla vita e l’arte di Pippa Bacca. Gran parte della sua riflessione si appoggia alle immagini recuperate e organizzate dal regista francese Joël Curtz nel suo documentario La Mariée (2012). Condivide la fascinazione per le reliquie sparpagliatesi al seguito dell’artista: la raccolta di racconti La sposa (2014) di Mauro Covacich reca in copertina la fotografia dei sandali con tacco indossati da Pippa durante il viaggio; il saggio biografico Sono innamorata di Pippa Bacca, chiedimi perché! di Giulia Morello (2015) e il documentario del 2019 di Simone Manetti, Sono innamorato di Pippa Bacca, prendono il loro titolo dalle spille distribuite dall’artista sperando che l’ex fidanzato, vedendole indossate da millecinquecento persone, tornasse da lei.
L’approccio di Léger non è ascrivibile a critica d’arte: lo scetticismo circa l’efficacia di certe azioni di Pippa Bacca — la lavanda dei piedi alle ostetriche, l’idea che lo strascico bianco possa mondare un luogo — alle volte è palpabile, ma spesso è spia di sincera meraviglia, e il risultato prende la forma di un flusso di idee che né analizzano né revisionano l’atto performativo di Pippa Bacca. Nessun tono romantico per descrivere il viaggio, così come l’epilogo scioccante non è mai inteso come l’inevitabile conseguenza di un vizio di forma inerente alla performance. La ferita, il male, lo sbaglio, l’errore sono azioni dell’assassino, non ascrivibili all’artista, e il racconto della violenza non si impiccia dei dettagli più macabri.
È la serietà dell’attenzione che Léger rivolge al suo soggetto, la compostezza reiterata nella prosa così come nella ricerca, a reggere tutto. È così anche perché, principalmente, l’energia e l’attenzione di Léger sono impegnate a schivare le richieste di un altro personaggio, ben più ansioso di essere raccontato e interpretato, sua madre.
C’è un fascicolo di documenti reso “vischioso” dall’usura, che la madre di Léger si ostina a porgerle: contiene atti di tribunale del 1974, l’anno del suo divorzio. Una storia umiliante, spartiacque, per lei che l’ha vissuta sola, ma trascurabile per chiunque altro: “una sventura come tante”, ne conviene la madre, “ma in ogni caso una sventura”. Fingere un riposino sul divano non basta a Léger, la madre insiste, appoggia la cartellina sulla coperta, scuote la figlia: vuole che si faccia carico, mediante la parola scritta, di renderle giustizia, vendicare il torto subito dal marito. Disinnamoramento, tradimento, abbandono, accuse di non essere una brava moglie, divorzio. Come Pippa Bacca, Léger si trova a dover compiere un gesto per porre rimedio a qualcosa di smisurato, ma parte già con la certezza che non ci riuscirà.
Nel corso della trilogia la presenza della madre di Léger si afferma sempre più evidente, a tratti pettegola, fino a rivaleggiare in frequenza e protagonismo con le supposte eroine dei singoli libri. D’altronde, è l’esempio che Léger ha sottomano, la prova vivente e palpabile attraverso la quale può misurare l’impatto delle condizioni e circostanze che va indagando inseguendo i ricordi di vite altrui. Soprattutto, è l’unica da cui può ascoltare, raccontata a voce, una versione dei fatti propria, la morale colta in anni di vita ordinaria.
Alla fine della sua vita, mia madre ha voluto liberarsi da ogni dubbio. Era stata vittima di un’ingiustizia,
o era lei stessa responsabile della propria sventura?
Il bilancio delle Léger, madre e figlia, non vuole calcolare percentuali di sfortuna e buona sorte, e quando sembra voler rintracciare i momenti che hanno mosso irrimediabilmente a sfavore i piatti della bilancia, è per ricordarsi i modi in cui la responsabilità delle proprie azioni si è manifestata nelle giornate normali, quando sono capitate sventure, ma mai tragedie. Perché un dolore piccolo fa comunque male.
La reazione che sorge spontanea a donne oculate e pensose come Léger, madre e figlia, è di sgomento davanti a vite che, invece, si sono moltiplicate in identità artistiche, e hanno assorbito, accettandone il rischio, la replica violenta, il biasimo da parte degli altri, conosciuti o meno, pubblico attento, scettico o ignaro che fosse. “Anche se non riusciamo a capirli, dobbiamo prendere sul serio i gesti più insensati,” sembra doversi ripetere Léger per non lasciarsi dominare dal proprio approccio prudente alla vita pubblica.
Ci sono artiste che hanno affidato completamente la propria incolumità all’integrità del pubblico, rendendo vulnerabili, insieme a sé stesse, confini morali e legali. Nel 1964 Yoko Ono esegue immobile Cut Piece, sopportando gli uomini incamiciati che, afferrate le forbici, mirano dritti al suo reggiseno ritagliandone il contorno del ferretto e lacerandone le spalline. Nel 1974 Marina Abramović conclude le sei ore di Rhythm 0 sanguinante e in lacrime, perché tra i 72 oggetti messi a disposizione del pubblico la pistola, i coltelli, la rosa sono stati usati per ferirla. Nel 1964 Carolee Schneemann a stento riesce a far capire al pubblico che l’uomo saltato sulla scena per strangolarla non fa parte dell’universo di corpi nudi, pezzi di carne cruda, salsicce e pesci coperti di pittura realizzato per la performance di teatro cinetico Meat Joy.
Sembra che l’insegnamento più evidente, più facile da trarre, sia che, rendendosi visibili, insieme all’attenzione debba aspettarcisi in automatico lo scatto d’ira, la contro-reazione soverchiante. Per una donna in mostra, poi, c’è da mettere in conto l’immediata sessualizzazione, che riduce i ruoli e riordina le gerarchie. Ma un’altra lezione altrettanto elementare è che sì, pistola, coltello e forbici sono comparsi davanti a qualcuno resosi inerme, ma anche in prossimità di un altro che ha scelto di usarli per aggredire. Una donna è comparsa, ben visibile in bianco, ma la scelta di attaccarla è stata altrui.
Non posso fare a meno che leggere nella scelta di Pippa di mettersi in viaggio la lezione già sedimentata che Virginie Despentes illustra nel suo saggio del 2006 King Kong Théorie. Si tratta, però, del lato oscuro, forse cinico, di certo pragmatico, che fa da contraltare alla fiducia radicale verso il prossimo da cui Pippa Bacca anima la sua performance. Sul finire degli anni ’80 Despentes sopravvive a uno stupro di gruppo mentre fa autostop nella periferia ovest di Parigi: medita per anni sull’accaduto, per smaltire lo shock privato, ma anche per riconciliarsi col silenzio totale sulla violenza sessuale nello spazio pubblico e simbolico della cultura, con la mancanza di un “passaggio di sapere” in merito tra le donne.
L’illuminazione, per Despentes che non aveva mai smesso di viaggiare scroccando passaggi dagli sconosciuti, la liberazione dal significato comune dello stupro — un “Damocle tra le cosce” — arriva leggendo la studiosa americana Camille Paglia. Si potrebbe togliere l’aura di dramma dalla violenza sessuale, è la proposta di Paglia, viverlo come una conseguenza inevitabile della scelta, per una donna, di uscire di casa, andare dove vuole, quando vuole. Un rischio inerente al genere femminile: “Se ti capita, rialzati, dust yourself e passa ad altro. E se ti fa troppa paura, resta a casa con mamma e papà a farti le unghie” (traduzione mia).
Per Despentes è un’affermazione di libertà totale: libertà di essere sciocche, scollacciate, per strada di notte, sole, deboli, zitte, ma comunque fuori, vive. Una proposta rimbalzata da Despentes non per ridimensionare la gravità dell’atto da parte di chi lo compie: l’oltraggio davanti alla dignità calpestata è ben custodito. E Pippa Bacca, ad ogni modo, esce di casa, si assume la responsabilità di mettere a rischio la propria incolumità per dimostrare qualcosa di più alto, parte per il suo pellegrinaggio.
C’è anche chi, tuttavia, ha paura, chi si vergogna, chi evita di apparire, infastidire, prendere spazio. La scena più ruvida del reportage — ruvida per chi, perlomeno, si riconosce nella morsa soffocante di timidezza e ansia che sabotano la performance professionale di Léger — è il momento del viaggio a Milano organizzato per intervistare la madre di Pippa Bacca. Léger manda tutto a monte e scappa sul primo treno per Nizza, incapace di concepire anche una sola domanda per la famiglia. Per verecondia, sembrerebbe, oppure per mancanza di un senso della propria legittimità nell’indagare in mezzo al lutto, le suggerisce un conoscente milanese, “quando si incontra la madre di una ragazza morta, sarebbe meglio sentirsi utili, altrimenti a cosa serve”. È curioso che Ivan Carozzi, nel suo pezzo su Pippa Bacca apparso su questa stessa rivista, lamenti un disorientamento simile, l’inopportuna dimenticanza di domande — “E di Pippa non mi chiedi nulla?” — il bisogno fisico di allontanarsi, respirare. Continua Carozzi:
Ma avevo esaurito le domande, non avevo altro da chiedere e, vergognandomi, me ne sono andato. La
verità è che mi sentivo sopraffatto, saturo di racconti, dati e notizie che ruotavano intorno alla storia di una persona che in vita fu di un’esuberanza ed elettricità tali da essere ancora viva tra le maglie del tempo e dello spazio, tanto che la si può considerare presente e attiva in questo mondo, e perciò ho avuto bisogno di uscire in strada e provare, pur in mezzo all’afa, a rimettere le idee in ordine.
Léger, dal canto suo, reagisce all’eccedenza di impressioni affrettandosi a fare ritorno agli oggetti. Quelli di sua madre, principalmente, come il suo vestito da sposa ancora nell’armadio, perché rivela di “non capire nulla nel viaggio della giovane sposa che vuole salvare il mondo”, “niente nonostante la documentazione raccolta, nonostante la conoscenza dei fatti”. E l’opera descrittiva che vuole realizzare torna a scontrarsi, come in un vicolo cieco, contro la figura ingombrante di Murat Karatas, che ha ucciso Pippa Bacca, toccato e disposto del suo corredo.
Ciò che rivelano le indagini, è che l’assassino non ha affatto dimenticato nulla. Per diversi giorni, ha
disposto intorno a sé gli oggetti di Pippa Bacca, si è divertito con il cellulare della donna che aveva appena violentato, strangolato e nascosto sottoterra, ha palpeggiato gli oggetti che le aveva rubato, ha speso i suoi soldi, si è divertito giocando al cineasta con la sua telecamera. L’ha violentata, l’ha uccisa, l’ha spogliata e per finire le ha rubato lo sguardo.
Pippa Bacca non c’è più (così come la madre di Léger non c’è più). Non sono rimaste solo le immagini, però. Da una parte c’è il racconto leggendario della donna sposata col mondo per purificarlo, dall’altra gli stralci sonori del viaggio — le canzoni intonate insieme alle ospiti bulgare, il lamento melismatico del camionista, le traduzioni stentate tra l’inglese di Pippa e la lingua dell’ostetrica locale, il lento gracchiante su cui oscillano gli sposi turchi — conservate nella memoria della videocamera. La performance di Pippa Bacca sopravvive in una forma audio-visuale che differisce dall’intenzione di partenza, il gesto artistico come unicum. Un’amica critica d’arte intervistata da Joël Curtz nel suo documentario si espone esprimendo le sue perplessità circa la performance così come pensata da Pippa Bacca: la mancanza di controllo, suggerisce, sembra vanificare lo sforzo intellettuale, riducendo il gesto a “un divertissement”.
Il controllo, nelle immagini, è invece totale, e affine a quello che accomuna i lavori di video-arte, diretti e montati, fatti per essere guardati, riprodotti sempre uguali. Con il senno di poi, conoscendo la fine della storia, ecco che brandire il cartello SARAJEVO CAPAJEBO sul ciglio della strada significa di per sé, come sguainare il coltello al solo scopo di chiamarlo per nome definisce la video-performance di Martha Rosler Semiotics of the Kitchen (1975). Ecco che la silhouette bianca di Pippa in cammino occupa e relaziona lo spazio quanto la figura in bianco in Einhorn (1970) di Rebecca Horn, il corpo imbrigliato nella sua scultura “Unicorno”, lo sperone sulla testa tanto antenna quanto raggio di luce. Léger spiega alla madre che la performance non è tanto “qualcosa che succede” quanto “qualcuno che c’è”: impossibile da archiviare, l’atto performativo resiste solo nella memoria di chi l’ha visto accadere, ma che, soprattutto, sa raccontare le reazioni provocate. Restano, perlomeno nella mente di chi l’ha solo sentito raccontare, un abito sporco e logoro e uno ancora candido, e la sensazione della propria risposta.