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oberto Calasso, a capo di Adelphi da mezzo secolo, è uno degli editori italiani più noti al mondo, un’istituzione; come editore, però, nei decenni si è sempre sottratto dalla disperazione del risultato, dalla ricerca del caso editoriale cannibale. La sua casa editrice il risultato commerciale non lo disdegna, com’è logico, ma riesce ancora a raccontarsi come preferisce. Calasso è un editore e un intellettuale. L’editoria d’altronde, come mercato, vive di odiose etichette, scaffali, generi. Ed ecco che Elena Sbrojavacca, dottoressa di ricerca in Italianistica a Ca’ Foscari, dedica un saggio all’opera omnia di Calasso, e lo titola Letteratura assoluta.
Il saggio di Sbrojavacca nasce da un percorso accademico quasi decennale, inaugurato da una tesi di laurea già indicativa del libro a venire (e strumento necessario alla scrittura di un mio articolo di qualche anno fa, intorno a L’innominabile attuale). Cito la tesi perché già in quella si profilava la profondità dello studio di Sbrojavacca, pronta a inabissarsi nella mente di Adelphi. Già il titolo della tesi poi rimandava al futuro saggio, citando da La letteratura e gli dèi, e profetizzandosi:
Dèi e fantasmi si alternano sulla scena, con pari diritti. Non vi è più una potenza teologica in grado di reggerli e ordinarli. Chi si azzarderà allora ad avere commercio con loro, a combinarli? Una ulteriore potenza, sino allora mantenuta in una perenne minorità, e usata al servizio del corpo sociale, ma che ormai minaccia di disancorarsi da tutto […]: la letteratura. Che in questa sua mutazione potrà anche essere definita: letteratura assoluta.
Mi chiedo com’è nato il tuo studio: come lettrice di Calasso o di Adelphi? E come ti trovi, ora, che anche la tua ricerca è stata scaffalata? Bisogna inventare degli scaffali assoluti.
Più che di una scelta ponderata, il mio studio è il frutto di una serie di circostanze da cui mi sono lasciata travolgere: nel 2013 mi trovavo ad Anversa in Erasmus, mancavano pochi mesi alla fine della mia laurea magistrale e ancora non avevo definito un argomento su cui svolgere la tesi. Mi ricordai di una riflessione del mio relatore: sarebbe stato bello trovare qualcuno che si occupasse di quella che Calasso definiva l’“opera in corso”, era un ottimo spunto per un lavoro di ricerca. All’epoca non conoscevo quasi per nulla l’opera di Calasso: avevo letto
La letteratura e gli dèi perché un altro docente che seguivo ne aveva tratto un corso di Metodologie della Critica, avevo sfogliato ammirata l’edizione illustrata delle
Nozze di Cadmo e Armonia, ma per me rimaneva soprattutto il direttore di Adelphi. Ciononostante, con l’incoscienza che contraddistingue qualsiasi studente in Erasmus, mi proposi di seguire quella pista.
A metà della prima lettura della Rovina di Kasch pensai di aver fatto una scelta folle: per la sua forma ibrida, per la sua assenza di centro e per la miriade di riferimenti chiamati in causa praticamente a ogni riga il libro mi sembrava indecifrabile. Poi mi tornò in mente una frase che apriva La letteratura e gli dèi: “tutto finisce in storia della letteratura”. Cominciai a usarla come bussola per orientarmi all’interno di quel labirinto di storie e come in una sorta di incantesimo certe immagini si fecero più chiare. Rinunciai a cogliere ogni singola allusione, a voler contestualizzare ogni citazione: iniziai a vedere ogni figura, reale o immaginaria, come un filo in un grande tappeto di storie e provai a vedere quali disegni vi ritornavano più di frequente. Mi concentrai su quelli e ne venne fuori la mia prima tesi, incentrata solo sulla Rovina ma in effetti già intitolata Roberto Calasso o della letteratura assoluta. Dal 2014 al 2020 ho cercato di indagare tutti i volumi che nel frattempo si sono aggiunti all’Opera (quando ho cominciato parlavo di un’eptalogia, oramai il numero delle sue parti è quasi raddoppiato), procedendo nel solco delle prime intuizioni.
Mattoni cifrati, oracolari, autoriferiti, lirici, incantati. Non escludo a priori che forse, oltre a Calasso, sei l’unica persona al mondo ad avere letto tutto Calasso. E lo scrivo da entusiasta della Rovina di Kasch per esempio, che segnerei tranquillamente come capolavoro, di Cadmo e Armonia, L’Innominabile Attuale… parlare di letteratura italiana senza sapere cosa sta brigando Calasso è quantomeno sospetto; e non mi viene in mente nessuno che sia riuscito a trasformare l’uscita di un saggio trascendentale, di un percorso esoterico, in un passaparola tra generazioni, e un obbligo da vetrina. Libri difficili, si diceva. Ma se vogliamo accompagnare qualcuno alla lettura di Calasso, da dove consiglieresti di partire?
Dalle raccolte di saggi: I quarantanove gradini (1991), La letteratura e gli dèi (2001), ma anche La follia che viene dalle Ninfe (2005), la bellissima antologia di risvolti di copertina Cento lettere a uno sconosciuto (2003) o il recentissimo Allucinazioni americane. È come osservare il labirinto dell’Opera da un punto di vista privilegiato: si familiarizza con lo stile di Calasso, col suo sguardo sul mondo, si ritrovano molti temi fondamentali dell’opus magnum e alcuni dei suoi autori irrinunciabili; il tutto però avviene all’interno di una cornice ben definita – una recensione, la presentazione di un certo saggio, ecc. – che rende più semplice seguire il percorso costruito dall’autore. La difficoltà maggiore di libri come La rovina di Kasch o L’innominabile attuale è infatti il movimento incessante del pensiero, che spazia fra le epoche e gli argomenti seguendo i flussi delle analogie, delle affinità fra immagini, concetti o situazioni differenti.
Oltre alla ricerca, all’analisi critica, insegni nelle scuole. Come introdurresti una classe di sedicenni all’opera di Calasso? Di cosa gli parleresti? Ho come la sensazione che la bibliografia dei programmi scolastici e i penati di Calasso siano due rette parallele.
In parte è una sensazione giustificata: i programmi scolastici non esistono più da tempo, eppure la loro presenza aleggia sulle nostre scelte, e ci fa sentire a disagio nell’uscire dai binari tracciati nel passato e percorsi anche dai libri di testo. A essere sincera, non ho mai parlato di Calasso ai miei studenti, ma ho usato alcune immagini contenute nei suoi libri per spiegare loro alcuni passaggi fondamentali della storia della letteratura. Quest’anno ho avuto una supplenza in un istituto professionale, e tra le mie classi c’è una quinta dell’indirizzo meccanico. I miei alunni hanno un rapporto complicato con le mie materie, per diverse ragioni: difficoltà linguistiche di varia natura, mancanza di continuità, la convinzione inculcata che la letteratura sia e sarà sempre una cosa del tutto estranea alla loro esperienza di vita. Come spiegare a chi crede di non amare la letteratura e non studia la filosofia la fine dell’Ottocento? Come parlare di Positivismo, Decadentismo, Simbolismo?
Molto più che vuote definizioni infarcite di parole difficili, ho trovato utile partire da un’immagine che indago anche nel mio libro, molto importante per l’Opera di Calasso. Ai ragazzi ho chiesto di pensare a una foresta, e di dirmi come secondo loro se ne poteva avere una conoscenza “scientifica”, oggettiva. Le risposte non hanno tardato ad arrivare: si poteva fare uno studio della biodiversità, catalogare i tipi di piante e di animali che vi abitavano, valutare la qualità dell’aria… Poi però ho chiesto se la foresta come immagine suscitasse in loro qualcos’altro: per esempio se avessero mai sognato di perdersi in una foresta, o se conoscessero storie ambientate in boschi o foreste. Hanno constatato che in quelle immagini la foresta diventava qualcosa di diverso: un luogo misterioso e terrorizzante, in cui possono avvenire molte cose; abbiamo convenuto che in quei sentimenti di smarrimento o paura che la foresta incute non ci fosse meno verità che nei dati che si sarebbero potuti ricavare dall’osservazione scientifica. E abbiamo capito quali siano le due strade che si aprirono di fronte alla letteratura di quel periodo per descrivere quella cosa sfuggente che chiamiamo “la realtà”.
Il tuo racconto è prezioso, e bello, e potrebbe portare a un’intervista parallela, sullo Stato delle Lettere nelle scuole superiori. Come si conciliano le tue esplorazioni nella foresta profonda della letteratura, il tuo lanternino, e la “condizione illuminata” dell’insegnamento, dove gli studenti magari si aspettano che di fronte a loro svetti il faro? Simpatico magari, ma faro.
In tutta sincerità credo i miei studenti nutrano basse aspettative nei confronti degli insegnanti: ne riconoscono solo in parte il ruolo e si attendono che da loro arrivino perlopiù seccature. Tutto ciò che può venire di buono dalla relazione con i docenti è per loro un piacevole imprevisto. Devo ammettere che questa diffidenza nei confronti dell’autorità me li rende istintivamente simpatici, e anche se naturalmente rallenta l’instaurazione di un rapporto di fiducia reciproca, ha in qualche modo aiutato anche a stemperare la mia ansia da prestazione. In ogni caso, non ho mai illuso i miei ragazzi di poter essere per loro un faro: non sono nemmeno certa che l’insegnante debba proporsi come guida illuminata ai propri studenti, fingere di conoscere ogni anfratto del territorio che esploreranno assieme – la storia, la letteratura, il pensiero… – mi è sempre piaciuto pensarmi come una compagna di viaggio, qualcuno che potrà mostrare loro i sentieri che ha già battuto, senza la pretesa di condurli verso una meta. Da un certo punto in poi, riprenderemo a viaggiare per conto nostro, ma l’aver percorso qualche chilometro assieme ci avrà forse un po’ cambiati. Parlo naturalmente alla prima persona plurale: sembra un vecchio luogo comune, ma facendo gli insegnanti si impara più di quel che si riesce a trasferire. La mia limitata esperienza mi suggerisce questo: ogni volta che spieghiamo qualcosa a qualcun altro ciò che credevamo di sapere si trasforma e ci trasforma.
E a questo proposito, come sono stati i tuoi incontri con Calasso? In mezzo a tutto questo assoluto, tra chi scrive e chi studia, si riesce a evitare il disagio della catalogazione? Ci si incaglia nel perfezionismo, nel mai abbastanza?
Non è affatto scontato poter incontrare il proprio soggetto e oggetto di studio, e dunque le mie conversazioni con Calasso sono state occasioni che ho accolto con gratitudine. Non ho mai parlato con lui dei miei piani di lavoro: il meccanismo che abbiamo tacitamente messo in moto prevedeva che io scrivessi seguendo il filo dei miei ragionamenti e lui leggesse le mie cose una volta giunte a una versione per me definitiva. Non ho mai pensato di chiedergli dei consigli su come procedere, e non ho mai voluto intervistarlo per ottenere informazioni utili alla mia ricerca. Mi sembrava sciocco farlo, semplicemente: il mio lavoro procedeva dialogando con la sua opera, tutto quello che mi interessava si trovava nelle sue pagine e lì andava cercato. Naturalmente ho tratto grandi benefici dalle sue impressioni di lettura: i suoi commenti non riguardavano quasi mai l’impianto generale del lavoro o le interpretazioni, ma ciò che forse più mi interessava, cioè la mia scrittura. Era chirurgico nell’individuare il termine che stonava all’interno di una determinata frase e nel suggerirmi di rimuoverlo o sostituirlo.
Venendo al perfezionismo: credo che assieme alla sindrome dell’impostore sia un compagno fedele di qualsiasi ricercatore. D’altronde, studiando un’opera vasta come quella di Calasso è impossibile non scontrarsi con il “mai abbastanza”. Senza dubbio un certo senso di inadeguatezza mi ha seguita durante tutto l’attraversamento, e pur avendo messo un punto al mio libro sono consapevole di aver tralasciato di indagare alcune cose, ma accetto con (relativa) serenità il fatto che qualsiasi critica sia parziale.
Che letture hai scoperto grazie a Calasso? Come ha trasformato la tua mente di lettrice?
Leggere l’Opera di Calasso mi ha portata a interessarmi di argomenti di cui non avrei mai pensato di occuparmi, è stato l’aspetto più stimolante della mia ricerca. Un esempio fra i tanti è il tema del sacrificio, uno dei più ricorrenti e complessi all’interno del suo work in progress. È un argomento-mondo, potenzialmente inesauribile, che mi ha portata a conoscere i trattati dell’India vedica e lo studio sui resti alimentari di Charles Malamoud, le riflessioni di René Girard e quelle di Walter Burkert. Ci sono autori che ho letto in virtù del fatto che Calasso ne avesse scritto, come Wedekind, e autori che ho riletto per provare a guardarli con gli occhi di Calasso, come Kafka o Simone Weil. Il suo sguardo mi ha comunque lavorato dentro: a un certo punto mi sono resa conto che iniziava a sovrapporsi al mio nella lettura di testi “altri”, che non pensavo avessero a che fare con il mio studio. C’è una traccia di questi nelle epigrafi che ho scelto nel libro: alcuni sono proprio il frutto di un ripensamento di un certo brano alla luce delle considerazioni che lo studio dell’Opera mi stava portando a fare. Mi piace pensare che anche il lettore leggendole avverta la stessa risonanza.
Sono sempre stato interessato al lato ninfolettico di Calasso, e il suo commento a Lolita di Nabokov mi è tornato in mente, a cicli continui, leggendo il nuovo pamphlet di Siti, Contro l’impegno. In una sintesi brutale: rappresentare nell’arte non significa approvare nella coscienza. All’artista però non può essere negato il dovere alla possessione, il viaggio che la porta altrove, per tornare dal sequestro, e cambiare il racconto del mondo. Cito allora Calasso:
Ma quando qualcosa di indefinito e possente scuote la mente e le fibre, fa tremare le gabbia di ossa, quando la stessa persona, fino a un attimo prima torpida e agnostica, si sente squassata dal riso e dalla smania omicida o dallo struggimento amoroso o dalla allucinazione della forma, o si scopre irrorata dal pianto, allora il Greco riconosce di non essere solo. C’è qualcuno accanto a lui, ed è un dio.
Sottolineare questo lato… posseduto di Calasso ci aiuta a ricostruire un profilo più completo, più esatto di chi forse l’ha inquadrato come lo stregone ermetico ossessionato dalle bibliografie dell’Austria Felix. Mi racconti il Calasso dell’ebrezza?
Il tema dell’ebbrezza, legato a doppio filo con quello della possessione, è uno dei più importanti di tutta l’Opera. Per indagarlo, e farci quindi un’idea più precisa del pensiero di Calasso, dobbiamo partire da un punto che la citazione che hai scelto mette bene in luce:
il riconoscimento di non essere soli. Calasso concepisce la mente umana come un terreno di incontri e apparizioni. Secondo lui, dentro la nostra scatola cranica la parte di noi che dice “io” non è mai del tutto sola: nell’attimo stesso in cui si pensa, e capisce di riuscire a percepirsi mentre lo fa, si sdoppia. È nel dialogo con quel doppio che si manifesta e ci guarda che Calasso individua una forma primigenia e “normale” di possessione: qualcosa che non ha per forza bisogno di sostanze psicotrope o prostrazione fisica per palesarsi. Scopriamo di essere abitati, avvertiamo la molteplicità della mente.
La letteratura che Calasso predilige scopre o ricerca in qualche modo il contatto con questa presenza, e con tutte le altre presenze che possono attraversare la mente: figure infestanti, idee ossessive, che si impongono e non la abbandonano perché chiedono di essere viste, magari raccontate. Al di là della misurata perfezione della scrittura, che cela la natura ossessiva di alcune immagini, l’Opera di Calasso è fatta anche di emersioni fantasmatiche: mi sembra che alcune ritornino a galla anche al di là della volontà autoriale. Quando a distanza di decine di anni la stessa scena si ripropone, magari descritta con parole molto simili, da un libro all’altro – Baudelaire che in sogno entra scalzo dentro un bordello-museo, il rinunciante che si avventura nella foresta, l’uccisione del mostro – dobbiamo pensare che in azione ci sia anche questa forza dirompente che Calasso ha tanto celebrato nelle parti più saggistiche della sua Opera.
Le immagini tornano nella mente dell’autrice anche al di là della sua volontà. Di cosa ti occuperai, ora? L’Opera aumenterà di volume, e ti chiederà di inseguirla. Sei pronta, o il tuo sacrificio è compiuto?
È una domanda a cui non so rispondere per incapacità di programmare a lungo termine. Posso dire soltanto che non sono in grado di prevedere cosa abbia in serbo Calasso per la propria Opera e che sono curiosa di vedere cosa ne verrà fuori. Senza dubbio, quindi, leggerò le sue prossime pubblicazioni. Se poi troverò anche qualcosa di sensato da scriverne, non mi sottrarrò al compito.