V igliacchi torturatori”, “Maledetti aguzzini, sarete ripagati con le stesse torture…”, “Sadici infami”: è il tenore di molti dei commenti che hanno accompagnato sui social la decisione del Consiglio di Stato che a gennaio ha riconfermato in via definitiva la validità dell’autorizzazione rilasciata dal Ministero della Salute per LightUp, un progetto di ricerca sui problemi di cecità legati a lesioni neurologiche che prevede, in una fase sperimentale, l’utilizzo di sei macachi. Marco Tamietto, capo dell’equipe, ha subito anche minacce e intimidazioni dopo che la sua identità e il suo indirizzo sono stato resi noti sui social.
Il progetto dell’Università di Torino, condotto in collaborazione con l’Università di Parma, era stato sospeso per la prima volta un anno fa sempre dal Consiglio di Stato a seguito di una petizione firmata LAV – Lega Anti Vivisezione. Era ripartito pochi mesi dopo grazie a una sentenza del Tar e poi era stato fermato nuovamente, prima della sentenza definitiva: LightUp, passato al vaglio dei comitati etici e giudicato di interesse europeo, si farà.
Quali sono i dettagli del progetto, e perché ha creato tanto conflitto? Dal momento che una sintesi neutra dei punti di vista sembra almeno in prima battuta impossibile, possiamo allora provare a raccontare il caso LightUp seguendo le due possibili narrazioni che si sono contrapposte, una che rappresenta il punto di vista della LAV e l’altra che invece arriva direttamente dai ricercatori che condurranno l’esperimento (ignoriamo per un attimo gli insulti e le minacce, che escono fuori dal perimetro di ogni dibattito e che sono stati condannati da entrambe le parti).
Su questi temi assistiamo spesso a una comunicazione polarizzata, pro e contro, davanti alla quale le persone che vorrebbero capirne di più dovranno sostanzialmente decidere di quale tra le due narrazioni apparentemente coerenti si fidano di più.
Versione uno. Il progetto è stato bloccato più volte perché i ricercatori non hanno dimostrato a sufficienza che non esistono, per queste procedure, metodi alternativi che possano evitare l’utilizzo di animali. LightUp prevede una prima fase durante la quale i macachi saranno immobilizzati su sedie di contenzione e obbligati a guardare e riconoscere delle immagini per svariate ore al giorno. Verranno poi resi ciechi da un’operazione invasiva e molto dolorosa. La seconda fase sperimentale durerà cinque anni al termine della quale gli animali saranno uccisi. Lo studio verrà condotto contemporaneamente anche su volontari umani: la ricerca su nuove cure per persone ipovedenti ha compiuto passi importanti solo grazie alle sperimentazioni su malati umani consapevoli. I test sugli animali infatti falliscono nella maggior parte dei casi, rendendo vane le loro sofferenze.
Versione due. Il progetto LightUp è stato approvato e finanziato dallo European Research Council, l’Ente di ricerca europeo più prestigioso. Purtroppo non esistono metodi complementari efficaci per questo progetto e quindi i ricercatori devono avvalersi della sperimentazione animale, utilizzando sei macachi. Le procedure e gli aspetti etici sono stati esaminati e autorizzati prima dal Comitato Etico dell’Unione Europea, poi dai comitati etici e dagli organismi per la tutela del benessere animale delle Università di Torino e Parma, e infine dal Ministero della Salute. Al progetto è stato riconosciuto un interesse a livello europeo, con una ricaduta clinica diretta per la salute umana. In una prima fase sperimentale, i macachi saranno addestrati con la tecnica del rinforzo positivo, ossia ricompense che gratificano l’animale e lo motivano a collaborare ai compiti che gli vengono affidati. I movimenti vengono limitati durante i test per consentire il monitoraggio dei parametri di interesse, ma l’animale non viene e non può essere costretto a eseguire il compito. È risaputo che questa modalità di addestramento, sempre rispettando tempistiche e capacità di attenzione degli animali, diviene per questi ultimi fonte di arricchimento cognitivo. L’operazione chirurgica non toglierà in nessun modo ai macachi la vista: produrrà invece una macchia cieca che sarà circoscritta a una piccolissima porzione del campo visivo, e solamente da un lato. Lo stretto indispensabile quindi, affinché si possa studiare il fenomeno che si verifica nei pazienti umani in modo più esteso. L’intervento sarà effettuato in una sala operatoria attrezzata, da un neurochirurgo che opera normalmente anche sull’uomo, e non comprometterà in nessun modo la capacità degli animali di vedere e spostarsi nell’ambiente.
Una comunicazione polarizzata
La prima ricostruzione della vicenda si basa sui documenti della LAV e nello specifico sulla petizione lanciata dall’associazione su change.org, che ha raggiungo oltre le 455.000 firme, e sull’articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano da Michela Kuan, biologa e responsabile LAV dell’area “Ricerca Senza Animali”. Il focus qui è la sofferenza dei macachi, oltre all’inutilità dell’esperimento. La seconda versione, quella dei ricercatori, è invece in buona sostanza la risposta alla petizione LAV dell’Università degli Studi di Torino. L’Università sottolinea come i macachi non saranno sottoposti a sofferenze di alcun genere e non verranno obbligati a fare nulla. Le attività che essi svolgeranno durante la fase sperimentale rappresenterebbero addirittura una fonte di arricchimento cognitivo per gli animali, la cui vita in cattività è priva degli stimoli che normalmente avrebbero in natura. Tutto nel rispetto delle più rigide normative sul benessere animale.
Si tratta di due posizioni nettamente contrastanti, che presentano la vicenda evidenziando gli aspetti più comodi a ciascuna versione e a volte danno addirittura delle informazioni incomplete o errate (i macachi non verranno infatti resi completamente ciechi, l’operazione chirurgica non sarà dolorosa e le procedure sperimentali non prevedono coercizione per lo svolgimento dei task da parte degli animali). Assistiamo, come spesso succede quando si parla di sperimentazione animale, a una comunicazione polarizzata, davanti alla quale le persone che non appartengono né al mondo della ricerca né a quello dell’attivismo animalista, e che vorrebbero capirne di più, dovranno sostanzialmente decidere di quale tra le due narrazioni apparentemente coerenti si fidano di più.
Il problema è che siamo di fronte non solo a due fazioni, ma anche due riferimenti valoriali differenti: un piano pratico e uno etico, apparentemente inconciliabili.
Il problema è che siamo di fronte non solo a due fazioni, ma anche due riferimenti valoriali differenti: un piano pratico e uno etico, apparentemente inconciliabili. Da un lato c’è chi sostiene che la ricerca non possa andare avanti senza l’utilizzo di animali, avendo però tutto l’interesse nel ridurre al minimo, per quanto possibile, la sofferenza di questi ultimi; dall’altro chi invece imposta la discussione sull’antispecismo: esseri umani e animali non umani devono avere stessa dignità e diritti. In questo caso poco importa che i macachi in questione non saranno sottoposti a sofferenza: vivranno comunque in cattività e alla fine del progetto LightUp saranno soppressi.
Etica e protocolli
Dagli anni Ottanta ad oggi, in un lungo processo di cambiamento, il mondo scientifico ha aperto la sua “scatola nera”, e ha iniziato a capire che i panni sporchi non si lavano più in famiglia: i dibattiti che una volta erano esclusivi degli ambienti accademici o dei policy makers, ora sono spesso pubblici e, cosa ancora più importante, la scienza può essere messa pubblicamente in discussione. La comunicazione è un momento fondamentale perché crea consapevolezza rispetto a un tema specifico: tale consapevolezza è alla base del processo democratico che porta il coinvolgimento del pubblico nelle decisioni e nella creazione di politiche e norme, come succede sempre più spesso per questioni ambientali o di salute pubblica. Democrazia vuol dire che nessuna istituzione presente all’interno di uno Stato può compiere delle azioni in modo totalmente indipendente dall’opinione pubblica. Questo significa che la scienza ha il dovere, in un certo senso, di mostrare alla società i risultati e le modalità delle proprie ricerche, anche e non solo perché spesso queste sono finanziate con soldi pubblici. Si tratta più nel profondo di un patto tra scienza e società, un patto di fiducia e trasparenza possibile e che viene messo in pratica in molti campi. La sperimentazione animale continua troppo spesso a fare eccezione.
L’orizzonte etico della ricerca con sperimentazione animale è rappresentato dai cosiddetti Principi delle 3R, definiti nel 1959 a seguito di un’indagine promossa dallo UFAW (Universities Federation for Animal Welfare, federazione universitaria per il benessere degli animali) con lo scopo di monitorare i progressi dei metodi di ricerca scientifica in laboratorio, soprattutto quelli relativi alla sperimentazione animale. La ricerca venne portata avanti dallo zoologo William Russelll e dal suo assistente Rex Burch. 3R, dicevamo: Refine, reduce, replace. Perfezionamento, riduzione, sostituzione. O, meglio ancora: affina e perfeziona le tecniche sperimentali, perché gli errori nelle procedure sono la prima causa di sofferenza per gli animali; fai in modo di utilizzare meno esemplari possibile, e quando le condizioni lo permettono, sostituisci gli animali con metodi che non comprendono l’uso di esseri viventi.
Dagli anni Cinquanta a oggi questi principi hanno fatto molta strada: nati in seno alla comunità scientifica come proposta per il miglioramento delle pratiche di laboratorio, sono stati accolti negli anni dagli apparati legislativi di moltissimi Stati. La maggior parte della legislazione attuale rispetto alla sperimentazione animale infatti è costruita sulle 3R, con delle norme che puntano alla realizzazione di tali principi e al miglioramento costante del benessere animale. Il rispetto di queste normative è una delle modalità con le quali la scienza si presenta alla società, garantendo affidabilità e correttezza.
L’orizzonte etico della ricerca con sperimentazione animale è rappresentato dai cosiddetti Principi delle 3R: refine, reduce, replace – riduci, perfeziona e sostituisci.
Chiedo a Giuliano Grignaschi di Research4Life, associazione nata per dare una voce comune alla ricerca biomedica in Italia, se le normative non siano viste dal mondo della ricerca come un limite: “no, se strutturate in maniera logica. Anzi, dovrebbero esistere ulteriori limiti”. Anzi, alle 3R bisognerebbe aggiungerne un’altra, la R di responsabilità. “Dovremmo tutti avere ben chiaro infatti che nella sperimentazione animale induciamo delle sofferenze, anche se lo facciamo a fronte di un beneficio”. Ne immagina un’altra ancora, “quella di reinserimento: si fa ancora troppo poco per rendere adottabili gli animali che potrebbero avere una vita diversa dopo le procedure sperimentali”. Rendere più stringenti alcuni protocolli e ampliare i principi di riferimento può essere un beneficio per la ricerca.
Metodi alternativi
Attualmente, secondo le statistiche del Ministero della Salute, la maggior parte degli animali viene utilizzata per “fini regolatori e di produzione ordinaria”, nei quali sono sostanzialmente compresi gli studi tossicologici. A seguire, abbiamo la cosiddetta ricerca di base, vale a dire tutta quella ricerca che mira a comprendere i processi biologici e i meccanismi alla base delle malattie. Quando invece si tratta di studiare le diagnosi, le cure a la prevenzione di queste malattie, parliamo di ricerca traslazionale, che è il terzo grande ambito nel quale vengono impiegati animali da laboratorio.
Nell’Unione Europea, dal 2013, vige invece il divieto di vendere o importare prodotti e ingredienti cosmetici testati sugli animali, divieto che però non si applica ovviamente alle sostanze contenute nei prodotti beauty che hanno anche altre destinazioni d’uso, quali ad esempio prodotti farmaceutici, detergenti e alimenti. Grignaschi mi racconta come tali settori siano scarsamente comunicati al pubblico, mentre ci sono delle tematiche che vengono quasi totalmente trascurate, come ad esempio la questione dei “cosiddetti metodi alternativi”, che Grignaschi, come molti altri ricercatori, preferisce chiamare complementari “perché spesso sostituiscono solo alcune fasi della sperimentazione”. Tali metodi esistono e vengono utilizzati: un esempio tra tanti è il team di Thomas Hartung, professore di farmacologia, tossicologia, microbiologia molecolare e immunologia alla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health e presso l’Universität Konstanz. Attualmente studia software di machine learning in grado di stabilire la tossicità delle sostanze normalmente testate sugli animali. Si tratta di un sistema che permette di elaborare dati relativi alla struttura chimica delle sostanze e capire come queste reagiscono con la struttura delle cellule, utilizzando modelli computerizzati di sistemi animali o di cellule in vitro. Il software confronta una nuova sostanza chimica con composti simili e valuta la probabilità di effetti tossici in riferimento alle proprietà di queste sostanze chimiche note.
I metodi alternativi o complementari esistono e vengono utilizzati, ma la sostituzione completa dei metodi è un obiettivo ancora lontano.
Altri metodi alternativi – o complementari – sono ad esempio gli organs-on-a-chip, tessuti ed organi in miniatura coltivati in vitro che consentono di modellizzare fisiologia e malattie del corpo umano. Utili a questo scopo sono anche le ricostruzioni in vitro di organi a partire da quelli dei pazienti affetti da malattie sui quali sperimentare possibili cure, oltre alle colture cellulari, anche se per mantenerle serve siero animale: per alimentarle vengono utilizzati molti feti bovini. Grignaschi ci tiene a sottolineare che i cosiddetti metodi alternativi “vengono creati nei nostri laboratori: è nell’interesse della scienza far si che funzionino”, ma la sostituzione completa dei metodi è un obiettivo ancora lontano.
All’interno della comunità
Arrivati a questo punto, è legittimo chiedersi: quanto è univoco il pensiero della scienza e del mondo della ricerca rispetto alla sperimentazione animale? La prima e doverosa osservazione è che parlare di “mondo della ricerca” come se fosse un corpo unico che prova emozioni e pensa in modo omogeneo non è per nulla corretto. Così come d’altronde, parlare di “non specialisti”, è una semplificazione: oggi si preferisce l’espressione “pubblici della scienza”, per indicare l’eterogeneità delle persone rispetto alle informazioni che ricevono. Anche il mondo della scienza è a dir poco eterogeneo: a partire dagli ambiti di studio, fino ad arrivare alle più diverse professioni e alle particolari sensibilità di ogni singolo individuo.
Un sondaggio pubblicato sulla rivista Nature nel 2011 , effettuato su un campione di 980 ricercatori biomedici, mostra un quadro di questo tipo: il 90% dei ricercatori ritiene essenziale la sperimentazione animale, contro il 3,4% che invece non la vede come una procedura necessaria.
Oltre ai numeri, tuttavia, il sondaggio evidenzia anche sentimenti contrastanti sulla questione. Quasi il 16% di coloro che conducono ricerche sugli animali afferma di “aver dubbi al riguardo” e la maggior parte dice di non essere a proprio agio nell’affrontare l’argomento in pubblico. Questo perché, in un dibattito ormai polarizzato tra due posizioni così nettamente contrapposte (pro e contro la sperimentazione), più del 70% degli intervistati ha affermato che è molto difficile esprimere tutte le opinioni più sfumate, che si collocano su tutta l’ampia gamma di grigi che vanno da un estremo all’altro.
In un articolo pubblicato sempre su Nature qualche anno prima, nel 2006, queste “nuanced opinion” dei ricercatori rispetto alla sperimentazione animale sono raccontate in modo approfondito. Anche in questa ricerca, compiuta tra lavoratori delle scienze biomediche, emerge come molti degli intervistati abbiano una visione complessa della questione, che spesso non sono disposti a esprimere: alcuni a causa della paura degli estremisti per i diritti animali, altri per effetto dell’atmosfera polarizzata che circonda la tematica, altri ancora per la pressione che avvertono da parte dell’official mantra che viene attribuito alla scienza: la sperimentazione è un male necessario e insostituibile.
Le esperienze raccontate sono molteplici. Tom Burbacher ad esempio gestisce un laboratorio nel quale si compiono studi su cuccioli di primati allo scopo di creare un modello cognitivo rispetto alle esposizioni prenatali a contaminanti ambientali. Brubacher non difende in toto la pratica di sperimentare su animali, essendo un ambito troppo vasto ed eterogeneo, ma difende le ricerche compiute dal suo laboratorio, pur non nascondendo la difficoltà di lavorare con gli animali, ai quali spesso si affeziona: la morte di ognuno di essi è una fonte di stress considerevole.
Tra le altre voci troviamo Cynthia Otto, veterinaria clinica e ricercatrice: Otto salva animali di ogni genere, ma nella sua veste da ricercatrice è responsabile della morte di molti conigli, gli stessi che da veterinaria si impegna a salvare ogni giorno. Colin Blakemore, un neuroscienziato che ha subito minacce da parte degli estremisti per i diritti animali, difende a spada tratta la sperimentazione, ma non nasconde di essere sollevato dal non dover più lavorare con gli animali: nessun ricercatore, secondo lui, potendo scegliere un metodo alternativo alla sperimentazione, preferirebbe lavorare sugli animali. Marin Stephens, vicepresidente della Humane Society di Washington per l’ambito della ricerca su animali, conferma la tossicità del dibattito appiattito solamente sulla questione pro-contro, che toglie a ogni posizione tutte le sue sfaccettature e rende degli stereotipi sia i ricercatori, sia chi prova a fare qualsiasi discorso che mette in discussione la sperimentazione.
Quasi il 16% di coloro che conducono ricerche sugli animali afferma di “aver dubbi al riguardo” e la maggior parte dice di non essere a proprio agio nell’affrontare l’argomento in pubblico.
Grignaschi mi racconta esperienze simili anche in Italia: “siamo pochi a parlarne”, mi dice, “e quindi le voci sono isolate e ci sono molti aspetti che non vengono mai toccati”. Non si racconta abbastanza, per esempio, perché si sperimenta sugli animali, come lo si fa e la fatica dei ricercatori rispetto al loro lavoro. “La sofferenza che si prova è grande, anche se pensiamo sia per una giusta causa. Solo noi possiamo raccontare di quanto sia dura, e anche di tutti gli animaletti che poi abbiamo adottato e ci siamo portati a casa”.
Altra grave mancanza, secondo Grignaschi, è uno sguardo d’insieme: “sono talmente tanti gli ambiti in cui si utilizza la sperimentazione animale, che non riusciamo a coprirli tutti, e a raccontarli come si dovrebbe. Tossicologia, ricerca di base, ricerca biomedica, indagini medico-legali: servirebbe una comunicazione puntuale ed efficace per presentarli tutti, oltre a competenze comunicative che sono difficili da trovare, per parlare con trasparenza, illustrare tutte le possibilità e le problematiche”.
La questione animale
Anche l’approccio più trasparente, illuminato e dubbioso che si possa immaginare, però, si scontrerà per forza di cose, con le idee di chi crede che gli animali non umani non debbano mai soffrire per causa dell’uomo. Talvolta queste posizioni vengono presentate come radicali, estreme ed estremiste, ma la maggior parte delle volte non lo sono. Spesso coincidono con il pensiero del cosiddetto antispecismo, che viene magistralmente spiegato in testi come Liberazione animale di Peter Singer oppure Gabbie vuote di Tom Regan. Leggendoli, la percezione che l’antispecismo sia una sorta di attivismo estremista lascia il posto alla consapevolezza che invece si tratta di una filosofia con delle solide basi storiche, etiche e teoretiche. Inoltre, come ci dice Jacques Derrida ne L’Animale che dunque sono, tale filosofia ha una specifica ragion d’essere, in quanto:
In qualunque modo lo si voglia interpretare, qualunque conseguenza di natura pratica, tecnica, scientifica, giuridica, etica o politica se ne tragga, oggi nessuno può negare tale evento, cioè le proporzioni senza precedenti dell’assoggettamento animale. Tale assoggettamento, […] lo possiamo chiamare violenza, foss’altro nel senso moralmente più neutro del termine, e anche quando la violenza dell’intervento viene praticata a servizio o per la protezione dell’animale, in certi casi, assai minoritari non dimentichiamolo, ma per lo più per l’animale umano.
Non possiamo negarlo insomma: gli animali vengono da sempre, costantemente sfruttati da parte dell’essere umano, il quale ha deciso più o meno coscientemente di esercitare su di essi il proprio potere in modo sistematico e violento.
Leonardo Caffo, filosofo e scrittore, si è occupato a lungo di antispecismo e dice di sposarne oggi una versione “lieve”; la definisce come una corrente filosofica rivoluzionaria, “in quanto decostruisce alcune categorie che siamo abituati a dare per scontato: la differenza biologica tra animali umani e non umani non dovrebbe permetterci di vedere questi ultimi come inferiori”.
L’antispecismo contesta la sperimentazione animale in due modi, mi racconta Caffo. “Il primo è l’antivivisezionismo scientifico, ed è quando gli attivisti per i diritti degli animali sostengono come la sperimentazione non serva a nulla: a mio avviso questo approccio lascia il tempo che trova, perché dal punto di vista scientifico e pratico si tratta di un’affermazione errata”. Il secondo approccio, che Caffo reputa molto più interessante, è l’antivivisezionismo etico, “l’utilizzo cioè di animali nella ricerca scientifica è indispensabile per la salute dell’essere umano, ma è anche vero che non sempre facciamo tutto quello che è utile alla conservazione della nostra specie, quando si tratta di azioni che vanno contro il nostro sistema morale”. La nostra società potrebbe benissimo decidere di non utilizzare gli animali per ragioni morali, quindi, e il sacrificio degli animali nella ricerca è il sintomo che nel nostro sistema morale questi sono visti come esseri inferiori, nonostante spesso ci diamo noi stessi un gran daffare per dimostrare il contrario.
Spesso le posizioni animaliste vengono presentate come radicali, estreme ed estremiste, ma la maggior parte delle volte non lo sono, e hanno in più solide basi storiche, etiche e filosofiche.
Lo sfruttamento degli animali, secondo Caffo è la base della nostra civiltà, “l’architrave del capitalismo”. Ci danno tutto senza chiedere nulla in cambio, sono “plusvalore totale”, costano quasi nulla eppure ci danno da mangiare, da vestire, e ultima cosa ma non meno importante, possiamo sperimentare su di essi le cure di cui necessitiamo come esseri umani. Bisogna quindi riconoscere che nell’utilizzo che ne facciamo è insito un pregiudizio di specie, secondo il quale in fondo gli animali hanno uno status morale altro dall’essere umano, essendo biologicamente diversi. “La sperimentazione animale è la parte più accettabile di questo sfruttamento, ma fa comunque parte di un’enorme contraddizione, secondo la quale attribuiamo o togliamo dignità e diritti agli esseri non umani a seconda del nostro tornaconto personale”.
Tentativi di dialogo
Esiste una via d’uscita, in uno scontro del genere? Se non sembrano esserci soluzioni semplici, esistono quantomeno delle strategie efficaci. La prima è quella di prendere coscienza e di accettare tutte le contraddizioni a cui andiamo incontro quando cerchiamo di trovare una quadra nel nostro rapporto con gli altri animali. La seconda è la conseguenza diretta della prima: parlarne. Moltissime esperienze dimostrano infatti che, a livello di qualità del dibattito, la situazione può cambiare solamente attraverso il dialogo e un’informazione quanto più possibile trasparente.
L.V. è consulente internazionale sui metodi alternativi per la sperimentazione animale, si occupa da anni della comunicazione sul tema e mi conferma, chiedendomi di rimanere anonima, come la dinamica incentrata sul binomio pro-contro sia un reale problema: “dipende tutto dai portatori di interesse che consideriamo, che sono per la maggior parte molto polarizzati. Sarebbe auspicabile che tutti sposassero una posizione che potremmo considerare ‘di mezzo’, ammettendo quindi l’utilità della sperimentazione ma allo stesso tempo incrementando e finanziando la ricerca sui metodi alternativi. Questo a meno che le posizioni non rappresentino degli obiettivi particolari”. Troppo spesso, insomma, gli attori della comunicazione sono caratterizzati da interessi di parte che li posizionano in un campo altamente polarizzato. “Ricordiamoci però”, continua L.V., “che le posizioni radicali otterranno solamente risposte altrettanto radicali. Molti istituti, università o organizzazioni che utilizzano animali per scopi di ricerca hanno capito ormai da un po’ di anni che al contrario, il dialogo e la trasparenza sono la soluzione”.
Chiara Segré, della Fondazione Umberto Veronesi, si è spesso occupata di sperimentazione animale sul blog della Fondazione. “Bisogna aprirsi al dialogo, alla trasparenza, la sincerità e l’onestà nell’esprimere le proprie posizioni”, mi dice anche lei, e mi racconta un episodio che l’ha colpita: uno scambio di lettere con una persona che era guarita da poco dal cancro e voleva fare una donazione alla Fondazione. “Prima di donare, voleva sapere se utilizzassimo animali nella ricerca, perché in questo caso non l’avrebbe fatto. Noi le abbiamo scritto una lettera sincera in cui le abbiamo spiegato perché abbiamo ancora bisogno degli animali”. La signora ha risposto ringraziando per l’onestà ma rimanendo fedele a quanto aveva annunciato: “non ha effettuato la donazione, né tantomeno ha cambiato le sue posizioni”. Nonostante ciò, si è creato un momento di dialogo, ascolto e comprensione. “Ho conservato questo scambio”, mi racconta Segrè, “perché mi ha colpito molto. In un’occasione di dialogo sincero ci si apre al dubbio e ci si fanno delle domande”. Questo episodio è per Segrè un modello comunicativo che dovrebbe essere replicato: ”basta discutere solo sulle idee e non attaccare la persona, non offendersi e rimanere calmi. Spesso è difficile, soprattutto per i ricercatori, ma è necessario.”
Se non sembrano esserci soluzioni semplici, esistono quantomeno delle strategie efficaci di dialogo e comprensione.
In un processo partito con la Direttiva Europea 2010/63/UE, moltissime realtà spiegano sui loro siti web che tipo si sperimentazione fanno, la loro visione dei Principi delle 3R, la normativa in materia e il loro impegno nel rispettarla. Tutte queste informazioni hanno l’ambizione di inserirsi nel vuoto comunicativo della ricerca rispetto al tema in questione: c’è chi lo fa in modo più efficace di altri, ma l’imperativo è non tacere più. Risulta quindi fondamentale raccontarsi e dare la possibilità a terze parti di conoscere e informarsi: come ci insegna la vicenda LightUp, iniziare a comunicare quando ormai i toni del dibattito sono già molto alti è decisamente troppo tardi.