L a dipartita di Battiato, più che rattristarmi, mi ha messo molta nostalgia. Nostalgia di chi è cresciuto musicalmente e affettivamente grazie a quel personaggio strano e allampanato, che nei suoi dischi metteva tutto e il contrario di tutto come in un continuo delirio di prospettiva emotiva che però poi era sempre coerente anche se sul filo del baratro, un po’ alla Escher quando l’opposizione tra il sopra e il sotto non ha senso. Ha dato a molti di noi il coraggio di osare: proprio per questo ci si rattrista a vedere che pochi hanno “osato” nel ricordarlo. Troppi coccodrilli, troppo disinteresse per l’uomo e troppa enfasi sul personaggio, sul luogo comune dell’artista intoccabile anche se poi l’opera ne viene analizzata sempre dalla superficie più facile e comoda: della serie diciamo che è un genio e ce la caviamo.
Un ricordo che mi è sembrato molto equilibrato è stato invece quello di Eugenio Finardi, che con il maestro ha spesso collaborato e di cui era amico già dai tempi “sperimentali” della etichetta indipendente Bla Bla: notava come in realtà “il sommo” fosse l’ultimo a prendersi sul serio, dotato com’era di grossa ironia e autoironia. Ricordava come durante le session di La voce del padrone Battiato e il chitarrista Alberto Radius si divertissero un mondo a scegliere i suoni più “brutti” da mettere negli incisi. Era un attacco al pop per come lo conoscevamo allora, ma anche un sincero omaggio, ed è questo spirito che ha portato qualche tempo fa Michela Murgia a parlare dei suoi testi come “minchiate assolute” senza capire fondamentalmente che il mondo tutto è una minchiata assoluta, e nessuno di noi ne è escluso: uno degli obiettivi di Battiato era mettere in luce proprio la pochezza di quello che siamo su questa Terra, cosa che automaticamente, una volta constatata, porta al senso del sacro: e questo è – in fondo – il significato della musica pop. A questo proposito, considerando che qui in Italia – in quanto paese cattolico – si tende sempre a un ricordo “cristologico” dell’artista popolare che se ne va, è molto fastidioso che “la trinità” non venga applicata su Battiato, che continua a essere visto fondamentalmente come un’entità divisa in due: da una parte la curva che tifa “sperimentale”, dall’altra quella che tifa “pop”. Come se Battiato fosse stato solo questo, in un banale dualismo, concedendogli magari giusto il vezzo di aver mescolato le due cose in molti album senza però aver creato una terza emanazione.
Ciò accade perché non c’è stata la dovuta attenzione su altri aspetti della sua personalità musicale: se il ruolo del produttore e arrangiatore per sé e per altri artisti può essere certamente sintetizzato nel formato “canzone”, quello di compositore di colonne sonore e quello di autore di musica classica contemporanea chiaramente no (volendo essere precisi, anche quello di pittore e regista sono due aspetti del nostro da molti liquidati come degli “hobby“ di lusso, ma non lo erano e non staremo qui a dimostrarlo perché vogliamo concentrarci sulla musica). Insomma, mi pare che ci sia molto di più da condividere che una semplice “cuccurucu’ paloma” su Facebook o la solita selezione stramba da Fetus negli amarcord dell’intellighenzia del “giornalettismo”, c’è molto più da sondare per capire realmente l’attitudine di un autore – che lo si apprezzi o meno – che come un vasaio si sporcava le mani continuamente di argilla. Cerchiamo di rimediare mettendo invece in luce, possibilmente in modo definitivo, il Battiato artisticamente frizzante e schizofrenico che ha fatto – per questo – la storia della musica in Italia analizzando alcuni fattori: quelli che riguardano le sue opere cosiddette colte e le colonne sonore, il campo più citato per dare un tono “alto” all’autore e giustificarne le scorribande “di massa”, ma il meno filato a livello di ascolto reale.
Un obiettivo di Battiato era mettere in luce la pochezza di quello che siamo su questa Terra, cosa che, una volta constatata, porta al senso del sacro: e questo è in fondo il significato della musica pop.
Caso curioso, appena qualcuno tenta di approcciarsi alla materia delle “opere colte” di Battiato, buona parte della critica fa finta di nulla, fischietta, fa spallucce e teme il confronto: gli addetti ai lavori della musica classica si assestano spesso su un “ni”, perché visti i trascorsi non possono parlarne male, dicono semmai “ha gli strumenti per fare un buon lavoro” ma il lavoro in questione non osano ascoltarlo. Questo perché lo stigma di cantante pop di successo fa sì che automaticamente il suo prodursi in un campo come l’opera diventi paragonabile ai progetti analoghi, giudicati fallimentari, di Roger Waters o Paul Mc Cartney, facendo forse scattare l’invidia in chi – musicante classico incartapecorito – non è in grado invece di scrivere musica pop. Le colonne sonore non ne parliamo: sono completamente non considerate, come fossero meri esercizi di stile, commissioni senza grande slancio. Insomma se fa “canzone” si limiti a fare canzone costui, cribbio!
Ma la questione “colta” di Battiato non parte dal 1987, anno della produzione dell’opera Genesi: risale invece agli anni Settanta. Ma non al periodo che si potrebbe pensare, quello degli esordi del ‘72 per intenderci: infatti nel pieno della sua sperimentazione “cosmic” con il sintetizzatore condito da happening in cui la ricerca elettronica è estrema e spesso poco digeribile, rimaneva comunque uno strascico del canzonettista da balera degli esordi. Negli album di quell’anno, Fetus, forse più che il suo seguito Pollution, ha comunque un sottotesto di “canzoncine”, rivestite ovviamente da suoni all’avanguardia, che poi cambieranno forma diventando sempre più rigorose e meno ingenue. Il primo ad accorgersi di questa cosa che non quadra è Stockhausen, che, molto interessato dagli esperimenti elettronici di Battiato, sarà la causa della conversione del siciliano allo studio della musica e della notazione tradizionale. Nel 1974 lo invita a Colonia per proporgli di interpretare un suo lavoro: nello specifico, di fare il mimo nella sua opera Inori, una preghiera fatta di ripetizioni ossessive e potenti. L’orchestra e il mimo in questo lavoro hanno un’assoluta preponderanza e non solo, il mimo sostituisce la voce: ma nel momento in cui Karlheinz mostra a Franco la partitura, Battiato cade dalle nuvole, non capendoci assolutamente una proverbiale acca. A quel punto Stockhausen gli dà un consiglio fondamentale per tutto il resto della sua carriera: gli dice che non può continuare a fare pop per tutta la vita, che imparare a leggere la musica gli servirà in futuro. Smascherato, Battiato una volta tornato in Italia decide di studiare solfeggio e teoria, iniziando così una fase decisiva del suo percorso musicale.
Prima però di arrivare alla svolta colta c’è ancora un disco di passaggio che molto deve agli approfondimenti e ai consigli di Stockhausen, ovvero Clic (1974), che appunto viene dedicato al maestro tedesco: ma sebbene sia una grande prova ci troviamo ancora con un piede nel kraut rock, diciamo in quella direzione alternativa tipica del periodo storico in cui è nata. Sarà invece con M.elle gladiator (1975) che Battiato abiurerà a qualsiasi facile ascolto e a qualsiasi “difficile ascolto codificabile”, in un taglia e cuci sonico di stampo cageano in cui si trovano già accenni alle ironie di Patriots (vedi le storpiature delle poesie di Mercantini) che mettono alla berlina una certa mediocrità italiana, più una parte di solo organo registrato nella cattedrale di Monreale, con tanto di parroco che lo fa smettere impaurito dal caos provocato dai cluster della tastiera. Da questo momento abbiamo una rigorosa ricerca sulla musica pura, sulla sottrazione, sullo studio del suono in quanto già completo di una sua armonia intrinseca. Ed è senza dubbio classica contemporanea, per pianoforte: come L’Egitto prima delle sabbie, del 1978 nel quale è tutto basato sulle armoniche innescate dal pedale, in un mantra continuo che gli frutta la patente di musicista contemporaneo con la vittoria del Premio Stockhausen. C’è “Za” (nel disco Battiato del ‘78) nel quale gli esercizi di pianoforte e di canto lirico diventano un modo per cadere nella trance pura, in una intuizione felice che mette su disco quello che è capitato a tutti durante certe lezioni di musica.
E ancora del 1978 è la colonna sonora dello sceneggiato Brunelleschi, che viene composta con un piglio classico orchestrale – ma estremo – e che viene rifiutata in quanto “non adatta”, venendo a comporre il disco Juke box, in cui ci sono brani come “Agnus” di cui verranno recuperate delle cose in “Stranizza d’amuri”. Si tratta quindi di esperimenti musicali che hanno una coerenza “classica”: ma con la mente ancora in quella zona “di rottura” particolarmente freak, o più che altro ne rimane un sentire liofilizzato.
Ragion per cui quando arriva la sua prima opera vera e propria, cioè Genesi al Teatro Regio di Parma nel 1987, c’è già stato uno scarto qualitativo fondamentale: le opere minimali del periodo che abbiamo prima affrontato, affidate spesso alla potenza del solo virtuoso di piano Antonio Ballista, hanno nel frattempo lasciato il posto a delle opere avant pop. Parliamo di dischi come Patriots (1980), La voce del padrone (1981), L’arca di Noè (1982)e via dicendo, che vanno via via ad essere sempre più chirurgiche ma con il bagaglio esperienziale di scrivere per il pubblico anziché scrivere per se stessi e per una “bolla” di aficionados. Non è la massa a dover essere disprezzata in nome di una musica che si pone come anti-sistema, ma è anzi la massa ad essere la chiave per una musica comunicativa al massimo dei gradi e per questo rivoluzionaria, anche se i contenuti sono di primo acchito incomprensibili: infatti parla il subconscio a tutta l’Italia nel 1981, quando esplode La voce del padrone. Gente che canticchia di centri di gravità permanenti senza sapere nulla di Georges Ivanovitch Gurdjieff non è cosa di tutti i giorni ma sembra incredibilmente naturale.
In Genesi si fa tesoro di questa esperienza mescolando il rigore del 1978 con le aperture “tonali”, ripartendo però proprio da Inori di Stockhausen e dalla sua lezione di “opera mistica” a tutti gli effetti. Anche in Inori ci sono dei movimenti musicali ben precisi che hanno a che vedere con la genesi, è una vera e propria “linea calda” col sacro: e Battiato pensa sia necessario unire l’elettronica digitale con l’orchestra e il coro, sfruttando le migliori tecnologie video dell’epoca, fino ai laser, proiettandosi in un futuro non troppo lontano ma neanche così vicino in quanto la “percezione” generale è ancora immatura. A livello di suono è in una zona di ricerca infatti avanzata, in odor di new age ma giocata in modo da non scadere in nessuna pacchianata: ibridi di coro vero e campionato si tuffano in rarefazioni che pescano anche da arie mediorientali, prevedendo certe mescolanze di linguaggi tipici della vapor o delle tendenze ibride e globalizzate degli anni duemila. Il libretto, di base, è una storia della creazione in senso lato: ci sono anche citazioni bibliche, ma la questione più importante è il centro dell’opera, che è puramente il mondo arabo. Le lingue usate sono sanscrito, greco, turco, persiano riadattate alla bisogna nel libretto a cura di Tommaso Tremonti, ovvero uno dei diretti allievi di Gurdjieff e già collaboratore per i testi del Battiato da classifica. Insomma è una specie di opera in cui Babilonia è azzerata dal suono delle parole che comunica l’oltre.
Non è la massa a dover essere disprezzata in nome di una musica che si pone come antisistema, ma la massa è proprio la chiave per una musica comunicativa al massimo dei gradi e per questo rivoluzionaria.
L’automazione elettronica è un nodo molto caro a Battiato, tanto che l’ uso di pianoforti “midizzati” e suonati via software (prima di certi sdoganamenti alle masse come Aphex Twin e il suo Ep Computer Controlled Acoustic Instrument Part 2) gli permette di suonare delle suddivisioni altrimenti impossibili da eseguire con dita umane, sfruttando il cosiddetto aftertouch per programmare intensità e espressione all’esecuzione computerizzata. Altra cosa che gli interessa particolarmente è il recupero del recitativo di Pergolesiana memoria, qualcosa che stranisce e porta dietro sia alla parola sia alla musica, nonostante sia uno stratagemma usatissimo nell’opera classica, qui ha le stesse caratteristiche del Kirtan indiano, ovverosia una narrazione religioso-meditativa in musica. Gilgamesh, la seconda opera del 1993, che si rifà all’omonimo mito, è un lavoro che ancora una volta s’interroga sull’aldilà, sul nostro essere sulla terra, sulla tensione ad ascendere verso lo spirito in quanto non c’è inizio e non c’è fine. Tra questo c’è l’entrata a gamba tesa di una sempre più chiara digitalizzazione che è figlia del minimalismo di Philip Glass e Terry Riley, proiettato in modo da ottenere sempre più definizione tra corpo e mente, dilatando le melodie e i nuclei armonici, escogitando una “meditazione trascendentale” indotta ben precisa per perfezionare quella tendenza già ricercata in Genesi. Ma non è finita: la sottrazione arriverà con l’opera Telesio del 2011, che asciuga ancora di più le note ma vede sul palco degli ologrammi al posto dei cantanti veri: forse una delle prime opere virtuali di sempre, in cui Battiato sembra scriva di getto, il lavoro compositivo non gli prende più di tanto tempo. Ma è il complesso dell’opera a essere impegnativo, in quanto pensato come esperienza multimediale a tutto tondo. L’ esperienza di quest’opera – un dialogo tra orchestra e ologrammi (pare un esperimento mai tentato prima) – è sfasante, gli spettatori non riescono a distinguere tra vero e falso, tra presente e assente, come in una metafora di una vita sempre più artificiale.
Se in Genesi i dervisci e il loro sistema di lodare il Signore danzando in tondo era alla base di tutto, e in Gilgamesh il succo della questione era il mondo dei sumeri, della Mesopotamia, della storia di un semidio (ma di base di un uomo, se appunto siamo tutti nati dalla sostanza di Dio) che intraprende un viaggio nell’aldilà per capire quale sarà il suo destino dopo la morte, in Telesio la questione è centrata sul filosofo Bernardino Telesio e sulle sue intuizioni. Come da intervista di Battiato a Famiglia Cristiana:
Ha una contemporaneità che non avrei immaginato. Per esempio, pensava che gli animali fossero esseri senzienti, in grado di provare sensazioni, un’idea rivoluzionaria nel Cinquecento. E poi riteneva che non ci fosse contrasto fra la dottrina cristiana e la conoscenza della natura attraverso l’esperienza, un’altra idea non da poco per i suoi tempi.
Opera commissionata dal teatro rendano di Cosenza, ha una caratteristica in più delle precedenti opere: a volte sembra composto in modalità “automazione completa”, musica basata su frattali: è molto più frastagliata delle precedenti, inserendo canto gregoriano, musica giapponese tradizionale, ambient con un occhio anche al suo passato avanguardista e addirittura qualche auto-plagio direttamente estrapolato dalle canzoni stile Lied del suo repertorio aritmico. Su tutto cade un manto di elettronica HD, nei pad glaciali e spaziali, che creano un indefinito tra orchestra vera e campionata. Insomma un frullato delle grandi passioni di Battiato: che, attenzione, sembra molto più avanti qui, a livello sonoro, che non nelle sue ultime emanazioni pop che, se ovviamente risentono a loro volta della sua scrittura operistica, si basano su una strumentazione tutto sommato “ordinaria” (basso batteria e chitarra sono sempre presenti) e su un linguaggio sonoro che tiene forse troppo conto dell’attualità “modaiola”.
Tutto questo scompare nelle opere, che sono pensate per rimanere, aspettando i marziani che le ascoltino una volta arrivati sulla terra. Essere avanti, ci fa notare Battiato, non vuol dire però essere per forza innovativi: l’innovazione non gli interessa in quanto “la mia fortuna è dovuta al fatto che anche quando scrivo canzoni dall’impianto molto tradizionale la critica le apprezza perché le trova ‘difficili’”.
In mezzo a queste opere ne troviamo due che appunto forse giocano più questa carta “tradizionale”: la prima è la Messa Arcaica del 1994, una stupenda immersione nello spirito, nella dilatazione dello spazio percettivo, in cui le ricerche sulle risonanze “degli affetti” tanto care nel passato di Battiato di L’Egitto prima delle sabbie (1978) trovano un compimento quasi inattaccabile. E in cui, nonostante la classica ripartizione tipica di questa liturgia musicale nella quale si cimentarono anche Mozart e Bach, Battiato si muove in una zona modale, spostando le lancette del tempo verso il canto monacale e l’uso del latino. Il risultato di questa ricerca sull’armonia e sulla bellezza formale è stranamente un tifo da stadio in chiesa, il pubblico reagisce come a un concerto rock: quindi uno dei più riusciti momenti in cui Battiato è capace ad avvicinare le masse a un suono “classico” senza annichilirle. L’altra opera, la terza in ordine cronologico commissionata dalla Regione Sicilia, è Il cavaliere dell’intelletto, in cui il filosofo e “compagno di merende” Manlio Sgalambro cura per la prima volta il libretto (ripetendo la stessa impresa nella successiva opera Telesio) ispirandosi alla vita dell’imperatore Federico II. L’ opera è caratterizzata da un massiccio uso di recitativi e soprattutto del silenzio puro, lasciando ampie pause tra l’insieme di campionamenti vari, rumori, tastiere elettroniche e cori, sempre nel tentativo di eliminare l’asprezza per una maggiore comprensione generale, verso un tacet ascetico, fuori e dentro la partitura. Nonostante ciò, e nonostante vi sia una registrazione ufficiale del tutto, il lavoro non è mai stato messo in commercio fino ad oggi.
Comunque sia, il viaggio della vita che è intriso di senso di morte è un discorso centrale nell’opera di Battiato, e il suo percorso musicale che dalla canzone porta all’opera e viceversa potrebbe esserne una chiara metafora. Secondo il compositore siciliano, infatti, la canzone è più difficile da scrivere, perché in tre minuti si deve dire tutto, e l’opera si muove invece in un piano meno rigido. Al tempo stesso, paradossalmente, è invece l’opera più difficile da scrivere perché per l’opera ci vuole molta forza di volontà e le strutture sono meno codificate rispetto a quelle di una canzone. Sembra strano, ma questa contraddizione incredibile che Battiato fa emergere nelle risposte completamente opposte date in varie interviste, non risulta così campata in aria. Dipende infatti dal punto di vista di chi parla: se parla l’autore di opere o il canzonettista.
Il viaggio della vita che è intriso di senso di morte è un discorso centrale nell’opera di Battiato e il suo percorso musicale che dalla canzone porta all’opera, e viceversa, potrebbe esserne una chiara metafora.
Il dualismo di cui sopra è presto sciolto, invece, al momento di confezionare le colonne sonore. Lì troviamo questa tensione alla “difficoltà” che sembra un vero e proprio Ying e Yang della composizione, finalmente coeso e intercambiabile, pronto per moltiplicarsi alla bisogna.
Iniziamo con quello che a nostro parere è uno dei più grandi dischi di Battiato, ovvero la colonna sonora di Una vita scellerata (1990) film tv sulla vita di Benvenuto Cellini. Anche qui morte e vita si scambiano le parti, “la latrina è il tuo caveux”, per citare “Piccolo Pub” dello stesso Battiato. È una commovente mistura di isteria, misticismo, furia come nella micidiale “Cavalcata bosco”, in cui pianoforti automatizzati esplodono impazziti in suddivisioni duplicate e triplicate, tra il glorioso e onnipresente sintetizzatore EMS usato per la prima volta in Fetus e squassanti accordi d’organo. O in “Incubo”, dove suoni che sembrano rarefatti feedback di follia rimbalzano nella mente dell’ascoltatore e sembrano portare la ricerca sonora in campi inediti, quelli dell’estasi: nel resto del disco fa da padrone la “distorsione”, non nel senso puramente tecnico, ma nella ricerca di dissonanze, campionamenti da musica araba e da composizioni classiche (ad esempio Giovanni Pierluigi da Palestrina ripreso e rallentato), accelerazioni sintetiche, cori bulgari in loop su un vero e proprio caos e cori tagliati da altre opere mescolati con clavicembali e orchestra trattata: insomma sembra un puzzle di frammenti di memoria che anticipa di molto il famoso “medioevo digitale” così di moda nell’elettronica degli anni 2020, tanto da esserne senza dubbio assoluto pioniere (non è un caso che qui parta la collaborazione con Pino Pinaxa, già ingegnere del suono in seconda per il seminale Violator dei Depeche Mode).
La conferma che il metodo usato nelle colonne sonore è forse l’anello mancante tra il Battiato pop e quello operistico, e per questo efficacissimo, lo troviamo nel grandioso Campi Magnetici uscito nel 2000. Il critico Piero Scaruffi parla del disco usando queste parole: “I brani elettronici di Campi Magnetici sono i suoi collage più selvaggi dai tempi degli esordi”, e per una volta siamo d’accordo con lui: già dall’incipit di “In Trance”, tra loop affogati in algoritmi di riverbero e sbuffi che sembrano sciami di zanzare elettroniche, tra imitazioni di nastri magnetici che s’inceppano Battiato trova la via della perfetta fusione tra virtualità sonora e musica classica. Con meno premura di rispettare determinate leggi operistiche, in quanto lavoro commissionato dal Teatro del Maggio fiorentino per sonorizzare un balletto di Paco Decina, Battiato si prende la libertà di inserire ritmiche jungle, pattern spezzati e sovrapposizione di algidi sintetizzatori senza macchia e senza paura. In “The age of hermafrodites”, a parte l’ode a una generazione finalmente senza gabbie di genere, indugia in cori artificiali e atmosfere che poi ritroveremo tantissimi anni dopo nel carrozzone della PAN records e delle nuove tendenze post IDM. E in “Fulmini globulari” si sfiora l’harsh noise ibridandolo con le voci liriche in un caos matematico. Perché il tema è appunto questo, citando dal libretto:
In un attimo: mille vite confuse. L’uomo si è appena evoluto e già produce suono, danza in riti tribali, uccide nel ballo della guerra. Passano centinaia di anni un battito di ciglia e l’uomo, vittima del vento del Tempo, è lo specchio di se stesso appena nato: fa musica, si spoglia in un tempio alla psichedelia di luci e colori, uccide nel ballo della guerra e ama e muore e caga e vive. Le cellule si moltiplicano dentro di lui a un ritmo parossistico. La morte suggiunge per incapacità di sopportare continui input, per overdose di note musicali, balzi e controbalzi, informazioni. Tutto è pura matematica. Il mondo, la vita, è geometria del caso e del dolore. I numeri non si possono amare.
È una perfetta descrizione dell’esistenza che stiamo vivendo oggi, tra pestilenza e turbocapitalismo, rendendo l’opera quanto mai “presente”, cruda ma non lontana dal Battiato che cerca la pace: è come dire, la manifestazione del suo negativo per agire e reagire all’opposto. Sgalambro è chiaramente centrale in questo rinnovamento delle intenzioni all’interno delle opere di Battiato, mescolando citazioni di Einstein e Lucrezio, e spostando l’asse verso l’ occidente più che sulle suggestioni mediorientali del maestro (comunque presenti). A ogni modo – e qui sta la curiosità – pur non essendo propriamente un’opera classica, Campi Magnetici finirà pubblicato da Sony Classical.
A questo si aggiunge un altro tassello, “classico” ma non troppo, importantissimo però in quanto aiuta i fan di Battiato a entrare con maggior naturalezza nel suo mondo operistico: l’album Come un cammello in una grondaia (1991) presenta infatti sì dei brani inediti (come la celebre “Povera Patria” e “L’ombra della luce”), ma anche delle reinterpretazione di Lieder di grandi compositori del passato. I Lieder sono appunto canzoni, romanze: e vedere Battiato cimentarsi con Wagner, Brahms e Beethoven ha un che di eccezionale quanto leggerissimo. Sì, anche loro facevano canzonette, e che canzonette: basti pensare a “Plaisir d’amour” di Martin, che per Battiato è una vera e propria ossessione (la fece cantare nell’84 a Sibilla e la citerà più avanti in Shackleton).
In conclusione, saremmo pronti a scommettere che un giorno sarà chiaro che anche i brani pop di Battiato non sono altro che dei Lieder, molecole di un più vasto orizzonte musicale. E che quello che lega i mondi del Maestro è, sì, puro divertimento. Come quando, in un concerto collettivo, in Turchia, quando ancora era pressoché sconosciuto, si mise alla tastiera e dopo solo due note si accorse che dal pubblico erano tutti spariti. Raccontò l’esperienza buffissima e illuminante che fu finire il pezzo suonando per un auditorium vuoto. La sintesi della composizione: in fondo c’è il vuoto anche in un teatro pieno di gente che applaude.