R obert Falcon Scott nel 1910 si imbarca sulla Terra Nova con l’obiettivo di raggiungere, primo al mondo, il Polo Sud. Insieme a lui marinai, esploratori, dottori, una nave intera piena di provviste, per conquistare l’ultimo luogo ancora non calpestato dall’uomo, l’ultimo parallelo. La traversata, lo sbarco, le attese, i campi base, i pony: la squadra inglese procede unita, lasciandosi dietro, poco alla volta, chi non è più necessario alla riuscita della missione. Un giorno arriva un telegramma, che incombe come un brutto presentimento: è del norvegese Amundsen, dice solo “Am going South”, la missione diventa all’improvviso una corsa contro il tempo, in cui a ogni passo la prudenza si scontra con l’impazienza, la paura di essere secondi, perché un primato non prevede medaglie d’argento.
Dalla squadra si stacca il Pole Party, composto da Robert Falcon Scott, Edward Wilson, Edgar Evans, Lawrence Oates e dal tenente Henry Bowers: saranno loro a sfidare il gelo e la stanchezza per raggiungere il Polo. I loro cadaveri verranno ritrovati dalle squadre di soccorso un anno dopo, rannicchiati in una tenda, Scott col braccio attorno al corpo di Wilson. Quando erano arrivati al punto più a Sud del mondo, avevano trovato la bandiera norvegese a sventolare. Nelle settimane precedenti, una notte di dicembre, uno di loro aveva sognato che Amundsen li avesse battuti. Per qualche strano caso la data del sogno e del traguardo coincidono quasi, come nei libri, nei miti, nelle tragedie. La morte li aveva raggiunti sulla via del ritorno, la cancrena e lo sfinimento fisico li avevano presi uno alla volta.
Questa è la storia (vera) dentro Ultimo parallelo di Filippo Tuena, uno di quei casi di romanzi apparsi in libreria e che, per sfortuna, caso o banale sovraccarico del mercato, sono svaniti rapidamente, per poi riemergere pochi anni dopo, troppo recenti per essere classici irregolari e troppo vecchi per essere materiale promozionale. Nella prefazione alla ristampa che ne ha fatto quest’anno Il Saggiatore, è lo stesso Tuena a rimettere insieme la storia editoriale del suo romanzo: i premi letterari vinti e il successo di Le variazioni Reinach (2005) non avevano salvato Ultimo parallelo (pubblicato la prima volta da Rizzoli nel 2007), che Tuena descrive con rassegnazione come “un libro eccentrico e destinato, almeno così pareva, a una sorte piuttosto rapida e indolore: scomparire”. Opponendosi a questo destino, durante un incontro casuale Giuseppe Genna promette di dare una seconda vita a questo libro pieno di ghiacci e bagliori: se muoversi tra i riflessi e luci accecanti significa essere sempre vittime di allucinazioni e miraggi (quale peggiore illusione per un autore che quella di una riscoperta che però poi non si verifica?), Genna, diventato nel frattempo editor del Saggiatore, mantiene l’impegno e il libro esce di nuovo nel 2013.
Ultimo parallelo è un libro eccentrico, che si muove tra il resoconto, la mitologia e la parabola e che ne contiene tutte le forme: il diario, la ricostruzione storica e il poema.
La versione che leggiamo oggi è con poche differenze il libro che Tuena aveva pensato quattordici anni fa. In appendice ne riporta le variazioni, i tagli e le inversioni, ma, se “la perlustrazione del passato apre squarci imprevisti nel tempo che abbiamo trascorso, nei gesti che abbiamo compiuto; in quel che crediamo essere stati e che col tempo ci accorgiamo di non essere stati”, non è chiaro in questo caso quanto la distanza e le ristampe abbiano cambiato o chiarito quello che Ultimo parallelo è stato per Tuena, salvo qualche buco di memoria non risolto dai backup dei computer e titoli che cambiano.
Una cosa però è vera, cioè che Ultimo parallelo è un libro eccentrico, che si muove tra il resoconto, la mitologia e la parabola e che ne contiene tutte le forme – il diario, la ricostruzione storica e il poema – tra cui Tuena si muove con grande disinvoltura. Basta questo, forse, a spiegare perché è un peccato che i libri debbano sottostare a vite, morti e resurrezioni così repentine.
È un libro eccentrico nel senso che il nucleo verso cui si muove – il Polo Sud – è a un tempo attraente e respingente, irraggiungibile o, come un buco nero, il punto in cui tutto finirà. La lingua che usa Tuena per raccontare questo orbitare della memoria e dello spazio verso il “luogo dove l’universo appare fermo” segue l’andamento ostinato e allucinato degli esploratori irremovibili nei loro intenti, ne racconta la missione a partire dalla sua conclusione tragica, che allora getta le sue ombre su tutto ciò che avviene prima, ogni evento un’oscura premonizione per cui l’arrivo al cuore del mondo non può che coincidere con la caduta degli eroi.
Al Polo Sud, spiega Tuena, “Il sole compie questo minimo movimento rotatorio” per cui le stelle ruotano “attorno all’asse del polo come un rivolo d’acqua attorno a una piccola voragine sul punto d’essere inghiottito” e così vengono inghiottiti dai ghiacci Scott, Oates e tutti gli altri, non nel momento in cui superano le dantesche Colonne d’Ercole del Polo Sud – a cui arrivano del resto dopo i norvegesi – ma appena dopo, stremati dal corpo, chissà se con la soddisfazione della conoscenza.
Non è una storia di democrazia, ma di progressiva amnesia del mondo di prima, di tutte le cose e le banalità che compongono la vita come la viviamo.
Il filtro del tempo che Tuena cita nella prefazione è quindi più affascinante per leggere il romanzo nella sua struttura intima e non solo per la costruzione circolare, per cui sappiamo come andrà a finire, per cui tutta la narrazione è un lungo arco verso gli ultimi, ricostruiti, momenti di vita degli esploratori. Piuttosto perché, se il passato è un paese straniero, cosa accade dove non c’è niente, né la vita né la morte, neppure il presente, dove tutto è estraneo? Qui, ricorda Tuena, non ci sono dèi, perché “è antropologicamente quasi impossibile che una terra che non accolga defunti possa generare divinità”: saranno proprio loro, i cinque del Pole Party con il loro sacrificio, più che con il loro successo, a creare la mitologia dentro cui scrive Tuena. O così accade a posteriori: se il primato di Amundsen ci affascina meno della tragica sconfitta di Robert Falcon Scott è perché Scott è morto, altrimenti forse oggi racconteremmo l’epopea di un norvegese arrogante, che veloce come un fulmine, si era preso il Polo su slitte guidate da mute di cani.
In un’annotazione dal suo diario, Scott scrive “our dead bodies must tell the tale” [i nostri cadaveri racconteranno la storia]: non solo, i loro corpi sono la storia stessa. È in quel deserto di ghiacci (“La parola terreno appare ovviamente inappropriata, non essendoci terra ma soltanto ghiaccio e neve: acqua allo stato solido”) che tutta la storia personale dei singoli – quella che chiamiamo identità – si riduce alla storia dei corpi, della loro materialità. Gli esploratori hanno pure esistenze e estrazioni diverse, ma lì, lontani da tutto e da tutti, quella che raccontano è la storia delle mani che smettono di funzionare, dei talloni mangiati dalle vesciche, della cecità dovuta alla luce che si riflette sulla neve.
Questa essenzialità corporea c’è non solo quando la morte cancella le differenze e produce quella solidarietà finale per cui i corpi vengono trovati congelati uno abbracciato all’altro, ma anche prima, nelle foto di gruppo che Tuena inserisce e descrive, quando ancora tutto va bene e sono appena sbarcati su quel continente bianco.
Quella foto ricordo per loro doveva avere un significato particolare. Era saltato l’ordine gerarchico, il marinaio era accanto all’ufficiale, l’uomo di fatica accanto all’uomo di scienza. Non c’erano divise o gradi o insegne a renderli differenti.
Non è una storia di democrazia – in guerra tutti siamo uguali – ma di progressiva amnesia del mondo di prima, di tutte le cose e le banalità che compongono la vita come la viviamo. Quando Tuena elenca le merci che vengono scaricate dalla Terra Nova – una sorta di catalogo delle navi omerico – viene un groppo alla gola, una specie di commozione inspiegabile prodotta dalle marche, le confezioni, segni di preferenze e abitudini, oggetti comuni che qualcuno ha prodotto, presenze che ricordano un altrove domestico in mezzo al deserto:
Dunque per prima cosa ho visto scaricare / un numero impressionante / di scatole da imballaggio della ditta Huntley & Palmers / che fornisce il noto biscotto usato nelle traversate e diverse confezioni di pasticcini fantasia.
Nomi e oggetti che poi spariscono a poco a poco e tornano solo quando la fine è vicina, quando Oates congelato e prossimo alla disfatta scrive alla madre “I hope the alteration at Gestingthorpe have been carried out. […] it will be nice in there as I can have a fire at night better than in my old one” [Spero che i lavori a Gestingthorpe siano terminati. Starò bene lì, perché la notte avrò una stufa più bella della vecchia] e il pensiero della stufa assomiglia al conforto della morte.
Quello che si racconta in Ultimo parallelo è l’incedere imperterrito e folle verso il niente, una marcia che il Pole Party nell’ultima parte fa a occhi chiusi, in senso letterale, perché i bagliori prodotti dalla luce sul ghiaccio provocano un dolore insostenibile – una scena talmente iconica e persino metaforica (ma pur sempre un fatto reale) che è quella che apre il libro:
Quando splende il sole accecante indossano strani occhiali modificati in maniera empirica con frammenti di legno che fasciano le stanghette laterali per impedire ai raggi ultravioletti di raggiungere le pupille molto arrossate e doloranti oppure oscurano le lenti lasciando soltanto una sottile fessura orizzontale che riduce il panorama a una striscia di luce appena percepibile ma più spesso sono immersi nella nebbia o dentro la tempesta di vento che alza pulviscolo di neve e cancella il sole e nasconde la via e soffia contro il loro andare con una violenza che sa di cattiveria di ferocia di spietatezza e si domanda perché si stia scatenando contro di loro questa furia distruttiva e quale sia stata la loro colpa.
Sembra La parabola dei ciechi, il dipinto di Bruegel di cui Gert Hofmann ha scritto una genealogia (una novella splendida pubblicata da Racconti Edizioni) ispirandosi al proverbio fiammingo “quando un uomo cieco ne guida un altro, ambedue cadranno nella fossa”.
Cosa cercano, sembra chiedersi Tuena, verso cosa vanno, con le “labbra molto screpolate dal sole – sanguinanti e irritate – anche naso e viso pieni di tagli e croste”, gli esploratori? Cosa pensano mentre marciano a occhi chiusi, ognuno nella propria solitudine? Non è chiaro se sia una forma di titanismo o di ingenuità quella del Pole Party – non è chiaro dal libro di Tuena, almeno. È una sfida ai limiti dell’uomo, che ricorda il dialogo della Natura e di un Islandese delle Operette morali di Leopardi, ambientato appunto al limite ghiacciati del mondo: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?”.
Quanta letteratura: ma del resto il Pole Party si era portato con sé libri di Tennyson, Dante, Browning (“Che cosa leggi?” “Browining” “E che cosa di Browning?” “Questo: Oh to be in England. / Now that April’s there”), fino alla fine – un carico necessario, come se quelle parole fossero l’unico conforto che ricordava il mondo, la loro umanità.
E per provare a raccontare questa storia Tuena ricorre a un’altra immagine letteraria, trovata ne La terra desolata di T.S. Eliot, quella dell’”uomo in più”, (“Chi è il terzo che cammina sempre al tuo fianco?/Quando conto, ci siamo soltanto tu e io, insieme / Ma quando guardo avanti verso il sentiero bianco / C’è sempre un altro a camminarti al fianco”) che il poeta aveva scritto ispirandosi al racconto di un’altra spedizione antartica, quella di Ernest Shackleton del 1914, che nell’ultima tappa, stremato, disidratato, e in condizioni terribili, aveva percepito accanto ai suoi compagni un’altra presenza, invisibile. Quella presenza diventa qui un narratore altro che accompagna gli ultimi giorni degli Pole Party, ricostruendo quello che solo loro possono aver vissuto, una specie di miraggio e un angelo custode, che però non protegge nessuno. Un espediente letterario che consegna questa storia alla poesia, perché, sembra suggerire Tuena, in assenza di un’esperienza reale, l’idea della prova della natura è essenzialmente romantica. È affascinante come il titanismo, l’eroismo, i racconti di uomini soli e resistenti e giganti poi coincidano con il sentimentalismo, l’uomo contro la natura con la saccarina: dalla fine del mondo questi uomini scrivono a casa, alle moglie, alle madri, pensano alla stufa nella nuova stanza a cui non torneranno mai.
Noi – e Tuena con noi – dalla nostra domesticità guardiamo l’inesplorato e l’avventuroso mentre li leggiamo, loro dalle terre estreme guardano la domesticità perduta: una composizione circolare, una parabola che non sappiamo bene cosa insegni, se non ci fossero le foto come reperto e indizio che dicono che loro sono stati lì, lì dove non c’è niente.