B assano del Grappa è un paese di quasi 70.000 persone. Ci vado per visitare una delle librerie più belle della zona, per passeggiare nelle piazze o trovare qualche amico di lunga data. A seconda della stagione prendo un gelato o passeggio fino al fiume, dove si trova un ponte disegnato da Palladio su cui spuntano alcuni vecchi locali che vendono drink dal nome esotico di spritz o mezzo-e-mezzo, una versione locale la cui ricetta è misteriosamente conservata nell’archivio segreto del produttore Nardini.
A volte allungo la passeggiata e dal fiume risalgo una lunga via che porta al vecchio ospedale, oggi abbandonato e trasformato in un largo parcheggio a pagamento. Al culmine della via c’è un vecchio edificio, un tempo forse un café con vista sulla Valsugana, la valle attraversata dal fiume Brenta che da Trento conduce a Venezia. Qui, su una parete del vecchio caffè, o del vecchio albergo, spicca una targa in marmo con una citazione di George Sand che parla di Bassano come di una “delle grandi fortune in cui possa incappare un viaggiatore”.
La lunga via che corre accanto al cuore storico della città e che porta al bellavista dove George Sand potrebbe aver elogiato lo splendore della città si chiama Viale dei Martiri e il 26 settembre 1944, durante un rastrellamento del Grappa, sugli alberi che lo costeggiano furono impiccati 31 giovani.
Su 31 di questi lecci si possono notare delle piccole targhette che ricordano i giovani impiccati. Di 30 c’è il nome, il cognome e la foto. Uno è rimasto “ignoto”.
Quante volte camminiamo sul terreno del massacro senza prestarci attenzione? Quante volte, se c’è qualche memoriale, ci troviamo a ignorare lo stesso massacro, non più carenti d’attenzione, ma privi di conoscenza? Certo la storia dei martiri di Bassano è nota, la città stessa la ricorda ogni anno, ma esistono tante storie, tanti drammi, storici e personali, la cui memoria si dissolve nel tempo, perché la memoria, è un meccanismo instabile e impermanente, perché ha una capacità che non è infinita e la cui sopravvivenza dipende da noi, che attraversiamo quel luogo o meno.
Come scrive Cathy Caruth, una delle più rispettate studiose di Trauma Studies, “la storia, come il trauma, non appartiene mai a un singolo individuo. La Storia è esattamente la prova del fatto che ognuno è implicato nel trauma altrui”. Così nel mondo in cui ci muoviamo esiste una geografia a più strati, ogni luogo è un palinsesto di esperienze. Sulla mappa delle città si sovrappongono più mappe, quella degli spazi su cui camminiamo, la città “che ci appartiene”, quella puntellata dalle nostre librerie e caffè preferiti, ma anche quella di un massacro e quella di un grand tour. Le tre mappe condividono le stesse coordinate geografiche, ma non le stesse esperienze, eppure non per questo si devono ignorare perché l’ignoranza del passato di uno luogo diventa una forma di responsabilità laddove questa porta alla dissoluzione della storia.
La responsabilità sta nel mantenere il ricordo, anche se il tempo passa e le cose cambiano, mantenerlo anche se i suoi contorni sono indefiniti, frutto in parte della nostra immaginazione, perché la storia, come l’immaginazione non è che una narrazione che si tramanda, una versione che per qualche ragione si porta avanti. È per questo che quando mi trovo di fronte all’albero del ragazzo ignoto mi chiedo sempre chi fosse, dove si trovasse quando è stato catturato, perché di lui nessuno ricordasse il nome anche quando è rimasto appeso due giorni all’albero. Non aveva familiari, amici o conoscenti capaci di dargli un nome? Come lui, si dirà, la Storia ha prodotto milioni di caduti ignoti. Ancora oggi, in ogni istante da qualche parte qualcuno perisce senza che di lui o di lei si mantenga il ricordo. Eppure in quel momento di fronte a quel singolo ignoto, uno tra 31, uno particolare, la mia responsabilità sta nel ricordare che lui è esistito.
Se racconto questa storia, per certi versi molto banale, è perché leggendo Un dettaglio minore di Adania Shibli (La Nave di Teseo, 2021, trad. Monica Ruocco) non ho potuto fare a meno di pensare a quella del ragazzo ignoto impiccato a Bassano.
A volte la storia si registra perché un dettaglio minore, un dettaglio apparentemente narcisista, coglie la nostra attenzione.
Questo breve e folgorante romanzo è diviso in due parti. Nella prima metà viene raccontata la cattura, lo stupro e il successivo omicidio di una giovane palestinese dal punto di vista dell’esercito israeliano, stanziato in un angolo del Negev il 13 Agosto del 1949. Nella seconda parte invece un’anonima donna palestinese, a distanza di mezzo secolo, colpita da un trafiletto di giornale che racconta la storia della ragazza uccisa, attratta dalla coincidenza della data dell’evento – la stessa della sua nascita, venticinque anni prima – decide di andare nei territori occupati alla ricerca del luogo in cui la ragazza è stata uccisa per scoprire e riesumarne la storia.
Tanto la prima parte è un dettagliato racconto ai limiti dell’iperrealismo dell’orrore di un abuso di potere e violenza, tanto la seconda parte ha una dimensione kafkiana e onirica, e dettaglia il tentativo della giovane donna di riscoprire una storia dimenticata.
La cesura a metà libro è netta: un muro che divide l’esperienza israeliana da quella palestinese, quella degli uomini soldati, da quella della donna preda, la dimensione della violenza da quella della riparazione della violenza, il trauma nel suo accadere dal ritorno del fantasma del trauma. È una rottura che marca passato e presente, memoria storica e individuale. Eppure proprio come la barriera di separazione israeliana le due parti formano lo stesso libro e le due storie convivono sullo stesso spazio, pur se dislocate nel tempo.
Questo elemento di coesistenza ritorna insistente nel libro quando la ricercatrice, dopo essersi procurata dei documenti per attraversare i checkpoints posti a guardia dei territori occupati, si trova a consultare una serie di mappe geografiche per trovare il luogo in cui si è perpetrato il crimine.
Tiro fuori dalla borsa le carte che ho portato con me e le apro sul sedile accanto e sul volante. Tra queste ce ne sono alcune redatte dai centri di ricerca e per gli studi politici che mostrano i confini tra le quattro zone, il tracciato del Muro, la costruzione degli insediamenti e i checkpoint in Cisgiordania e a Gaza. Un’altra carta mostra com’era la Palestina prima del 1948, e un’altra ancora, che mi è stata data all’autonoleggio ed è pubblicata dal Ministero del Turismo israeliano, indica le strade e l’organizzazione urbana secondo il governo israeliano. Con le dita che mi tremano cerco di determinare la mia posizione attuale sull’ultima carta.
Se navigare le mappe e stabilire un punto preciso all’interno di un territorio radicalmente trasformato dalla guerra è difficile per mancanza di punti di riferimento, lo è ancor di più quando gli insediamenti vengono spostati per questioni propriamente geografiche (come il tipo di terreno o il livello di precipitazioni). In una zona trasformata dagli insediamenti come è quella del deserto del Negev trovare un ancoraggio a cui legare una avvenimento può risultare quasi impossibile. In questo senso, al di là dei problemi creati dalla macchina burocratica dei confini politici, la ricerca del luogo dell’omicidio si fa ancora più onirica e kafkiana, perché diventa la ricerca di un punto che in un certo senso non può essere ritrovato. Ecco allora che ogni bivio stradale diventa un pezzo di un labirinto all’interno del quale la donna ricercatrice si muove senza soluzione, girando su se stessa, inutilmente. A nulla servono le visite all’archivio dell’insediamento e al museo dell’esercito israeliano, nessuno può offrire informazioni su una storia di cui non si è registrata traccia, né negli archivi, né sulle mappe. Solo un piccolo trafiletto di giornale rimane a testimonianza dei fatti, un trafiletto che sarebbe stato forse ignorato se non per un “dettaglio minore”.
Per questo motivo, quando una mattina, mentre stavo leggendo un articolo di giornale, mi sono imbattuta nella descrizione di un incidente che mi ha fatto balzare sulla sedia, ovviamente la mia reazione non aveva niente a che fare con l’incidente principale di cui si parlava. Incidenti come questo rientrano nella normalità delle cose o, per meglio dire, sono normali in contesti come questo. […] l’incidente era avvenuto una certa mattina che sarebbe coincisa, esattamente un quarto di secolo dopo, con la mattina in cui sono nata. Ovviamente, questo può sembrare un atteggiamento puramente narcisistico, il fatto che ciò che ha attirato la mia attenzione riguardo a quell’incidente è stato questo dettaglio minore rispetto agli altri dettagli più rilevanti che possono essere definiti come assolutamente tragici. Comunque, è abbastanza normale comportarsi qualche volta in maniera narcisistica. Probabilmente è un impulso spontaneo quello che ci porta a credere nell’unicità della nostra esistenza e nel sopravvalutare a tal punto la vita che conduciamo, che diventa impossibile non amarla e non amare tutto ciò che vi è in essa.
A volte la storia si registra perché un dettaglio minore, un dettaglio apparentemente narcisista, coglie la nostra attenzione. Barthes, a proposito della fotografia, distingue tra studium e punctum. Il primo si riferisce alla percezione generale del contesto rappresentato dalla fotografia, un periodo, un soggetto, un luogo, il secondo è il punto emotivo dell’immagine, quel dettaglio che mi coinvolge e che fa sì che la fotografia agisca su di me. La data di nascita e la data dell’omicidio sono il punctum che attiva il percorso della narratrice di Shibli, quel dettaglio minore che mette in moto una ricerca attraverso archivi istituzionali (quello dell’esercito israeliano) e contro-archivi (quello dell’insediamento) alla ricerca di una storia che apparentemente non ha alcuna connessione con quella della narratrice, tanto che lei stessa si ripete “non ha senso che mi senta responsabile per lei, una perfetta sconosciuta, che rimarrà tale e la cui voce non sarà mai ascoltata da nessuno”.
Eppure è proprio quello che dice Caruth a proposito del trauma storico: non è possibile non essere implicati nel trauma altrui. Anche laddove non esiste un contatto diretto, esiste una responsabilità e il punctum barthesiano, inteso al di là del suo contesto fotografico come l’elemento soggettivo che coglie la nostra attenzione e ci mette in relazione con la storia che ci sta di fronte, è quel che la attiva e la rende percepibile. Anche Susan Sontag parla di responsabilità individuale nei confronti della Storia e del dolore altrui. Lo fa in un testo dedicato alla fotografia di guerra dal titolo Davanti al dolore degli altri (Nottetempo, 2020, trad. Paolo Dilonardo). Sebbene Sontag si interroghi principalmente sul nostro rapporto con le fotografie che rappresentano l’orrore e si chieda come sia possibile evitare che il voyeurismo ottunda e banalizzi la nostra umanità di fronte al dramma altrui, la sua riflessione è importante per capire il romanzo di Shibli, e per capire il dubbio che la ricercatrice si pone in continuazione sul perché sia interessata a quella storia in particolare. Se sia una forma di narcisismo, se il suo desiderio di riscoprire quella storia non sia unicamente un bisogno personale, se cercare informazioni su una storia particolare solo perché condivide con la nostra un unico dettaglio minore sia sufficiente per renderla più importante di tante altre.
La responsabilità sta nel mantenere il ricordo, anche se il tempo passa e le cose cambiano, mantenerlo anche se i suoi contorni sono indefiniti.
Ma come dimostra la conclusione del romanzo, con l’uccisione della ricercatrice quasi nello stesso punto in cui fu uccisa la giovane palestinese mezzo secolo prima, un dettaglio minore non è mai minore, a volte può essere il Mektoub, il destino. Forse per questo mi sento di poter dire che forse tra punctum e mektoub ci potrebbe essere una linea invisibile, quella che connette la nostra storia individuale a quella collettiva, a quella Storia, che come il trauma, torna in maniera circolare. Quella Storia che non si imprime sulle coscienze nel suo accadere, ma che ritorna come un fantasma invisibile nelle nostre vite e ne guida i passi. Ciò non significa naturalmente affermare che non siamo agenti attivi della nostra vita, che non vi siano bivi e scelte di cui siamo primariamente responsabili, ma che certi dettagli si imprimono su di noi perché qualcosa in noi già vibrava pronto a catturarli quando si fossero presentati.
Il libro di Shibli si interroga su questo e molto altro. Innegabilmente lo fa in relazione alla questione israeliano-palestinese, ma le riflessioni che attiva hanno una portata universale. Da un lato esamina e si pone domande su come si registri la Storia e su come questo processo di registrazione non sia che il risultato di una serie di scelte politiche e personali, come la storia ufficiale che cerca autolegittimazione si contrapponga alla memoria individuale e personale più frammentaria e imprevedibile. Dall’altro lato riflette sulla relazione tra spazio e trauma, su geografia e memoria, sulle invisibili relazioni tra personale e collettivo.
Se pure la scelta stilistica, di genere e formale sia diversa, a tratti la riflessione di Shibli ricorda quella portata avanti nelle sue opere da W. G. Sebald. Sebald parla del fantasma della Storia che si imprime sui luoghi che attraversiamo, ci parla della cultura della seta in Cina per mettere in evidenza l’indicibilità della narrazione del trauma dell’Olocausto. Parla di rovine e di spazi per raccontarci le vite che li hanno attraversati, dei resti che hanno lasciato e che sta a noi “vedere” al di là della loro invisibilità. Shibli e Sebald, in maniera totalmente diversa, riportano al centro della loro narrazione i dettagli minori, mostrando come in questi possano essere scritte tanto la Storia collettiva, quanto le nostre storie personali.
sono fragile, delicata come gli alberi dritti di fronte a me, oltre il vetro della finestra. Non c’è niente di più importante di questo dettaglio minore