I l pamphlet di Walter Siti Contro l’impegno avrebbe più coerentemente potuto intitolarsi “Contro il neo-impegno”, utilizzando il prefisso che Siti stesso adopera nei saggi qui contenuti per declinare in termini meno equivoci la sua meditata, colta ed equilibrata requisitoria contro il conformismo progressista, in letteratura e non. Certo, avrebbe funzionato meno da richiamo provocatorio e meno avrebbe corrisposto all’immagine di romanziere polemista che il nostro – volente o nolente – si è costruito negli anni. Ben vengano, insomma, provocazione e clamore di copertina se serviranno ad attrarre la cattiva coscienza dei buoni. La postura cinica o “cattivista” di Siti è d’altronde sempre stata solo un primo strato della sua identità autoriale (sentimentalissima, per altri versi, molto politica per altri ancora) e se c’è una cosa con cui questo libro non ha nulla a che spartire – e contro cui anzi rivolge semmai la sua, di polemica – è proprio il polemismo massimalista, regressivamente godurioso, che imperversa nell’ecosistema comunicativo contemporaneo. A ben vedere, nella sua critica del “neo-impegno” c’è molto più impegno di quello dichiarato in copertina.
I sette saggi qui raccolti (quasi tutti precedentemente apparsi in L’età del ferro, una rivista cartacea fondata dallo stesso Siti, Alfonso Berardinelli e Giorgio Manacorda, che non mi sembra abbia goduto di molta visibilità, ad onta dell’indubbio prestigio dei suoi direttori) rappresentano al contrario una rara (quindi preziosa) testimonianza di come il discorso intorno alla letteratura, quando sostenuto dalle giuste competenze e da un’intelligenza accorta e smaliziata, lontana tanto dal tecnicismo accademico quanto dalla compiacenza di molto giornalismo culturale, possa ancora oggi costituire uno strumento a suo modo insostituibile. Se non di intervento, sicuramente di diagnosi di storture che dal “mondo” finiscono nel “testo”, e viceversa. Non che la letteratura sia qui un pretesto, al contrario: i romanzi, nelle mani di Siti, diventano un fertile terreno di interpretazione del mondo proprio nel tentativo (sempre cauto, ponderato e provvisorio) di circoscrivere un fantomatico e sfuggente “specifico letterario” (o, volendo, “artistico”). D’altronde già nel suo libretto sul realismo (Il realismo è l’impossibile, Nottetempo 2013) lo scrittore aveva descritto quello strano, paradossale e sdrucciolevole miscuglio di acquiescenza, complicità e anarchica rivolta davanti alla realtà, che caratterizza la creazione letteraria, o almeno ciò che lui considera degno di tale nome.
Il primo destinatario di queste pagine è tanto l’umanista-letterato in cerca di collocazione quanto il conformista che accumula crediti morali a basso costo.
Il primo destinatario di queste pagine è tanto l’umanista-letterato in cerca di collocazione quanto il conformista che accumula crediti morali a basso costo; il fatto che le due figure tendano a sovrapporsi non è certo un caso, ma forse proprio il punto focale del libro: la cultura umanistica declinante si piega agli imperativi populisti dei nuovi media di massa (demagogia, polarizzazioni, grossolanità), questi a loro volta prendono in prestito alcuni elementi retorici dal testo letterario, lasciandone da parte la sostanza e la totalità organica, che per sua natura, essendo complessa e richiedendo spessore e alte competenze formali, molto difficilmente può sopravvivere alla prova del midcult, col suo corredo di luoghi comuni estetici e morali.
Il compito di definire uno spazio proprio della letteratura in una qualche zona liminare tra le torri d’avorio e la trincea – tra autonomia ed eteronomia, come dicono gli addetti – è assolto da Siti con la consueta intelligenza. Un esempio:
credo che Il vero bene che la letteratura può fare agli uomini sia di inseminare la testa degli scrittori con ciò che essi non sapevano di sapere, e permettere che i fantasmi così creati fecondino la società a sua insaputa.
Se la letteratura può “militare”, deve farlo in maniera molto indiretta. Siti indica i sintomi di una svalutazione endemica e pervasiva del testo letterario, collocandoli in un quadro più ampio, antropologico in senso lato. I social e i “deliri di autostima” che vi si consumano sono ad esempio messi in relazione con la sicumera pedagogica espressa dagli autori del neo-impegno e veicolata dai loro romanzi. Se internet è un po’ il convitato di pietra di questo libro, l’ultimo capitolo è invece uno spumeggiante e sardonico ritratto, tutto situazioni grottesche e frasi rubate – quasi più sul versante letterario che critico-saggistico –, degli odierni salotti televisivi. Spiegandoci cos’è, o cosa dovrebbe essere, una bella opera letteraria, Siti articola una critica affilata e di ampio spettro della società neo-impegnata, coinvolgendo scrittori accanto a influencer, politici e altri personaggi pubblici. A ben vedere, in un certo senso, è quello che ha sempre fatto anche nei romanzi.
Ho trovato particolarmente illuminante la riflessione intorno alla oggi sempre più vezzeggiata presunta funzione terapeutica della letteratura, molto in linea con una più generica proliferazione del paradigma terapeutico nei più diversi ambiti della vita nelle società ricche e “avanzate”. La letteratura può e deve “curare”? Deve farci stare bene? Sani? No, risponde giustamente Siti. La letteratura può benissimo ammalare, può e dovrebbe complicare le cose, non risolverle e semplificarle, non rimuovere e rassicurare. Può e dovrebbe creare attrito, tensione, ritorno del rimosso (da ex-discepolo di Francesco Orlando, Siti fa largo uso di concetti psicoanalitici), non assorbire ortopedicamente traumi e conflitti. Le analisi di questo saggio commentano certe tendenze commerciali, come quelle che l’autore chiama le “autopatografie” (romanzi autobiografici al cui centro c’è una malattia del protagonista o di una persona vicina all’autore), le varie applicazioni dello storytelling come strumento di formazione o guarigione personale, fino alle più recenti voghe critiche universitarie, come la biopoetica che attribuisce alla produzione e al consumo di letteratura un significato evoluzionistico e cerca i risvolti neurologici del fatto letterario. Rientra in questo discorso anche un certo diffondersi di estratti o pillole di saggezza poetica a uso delle masse virtuali, quasi una versione letteraria del microdosing. Di fronte alla perdita di supremazia della loro disciplina, i letterati (compresi quelli che per ricevere finanziamenti dallo stato devono dimostrare l’utilità pratica del loro lavoro) reagiscono attribuendole funzioni socialmente utili (Perché le storie ci aiutano a vivere è il titolo del libro di un noto magnate della comparatistica italiana), cioè conformi all’idea di utile invalsa nell’attuale sistema culturale: dietro la maschera della “scientificità” si nasconde l’ideologia (il saggio si intitola proprio “Scienza e ideologia”).
Di fronte alla perdita di supremazia della loro disciplina, i letterati reagiscono attribuendole funzioni socialmente utili, cioè conformi all’idea di utile invalsa nell’attuale sistema culturale.
Scrittori iconici come Michela Murgia e Roberto Saviano sono al centro di questo libro e delle obiezioni che Siti muove a un certo modo di fare l’autore e di scrivere (accanto ad altre figure letterariamente più evanescenti come D’Avenia, Carofiglio, Vecchioni). Obiezioni peraltro sempre molto circostanziate e garbate, che non escludono parziali riconoscimenti. Non so se qualcosa di interessato si nasconda dietro questa equanimità, di certo Siti nella polemica appare come un modello non solo di alto livello intellettuale, ma anche di moderazione e civismo – tutta la forza nel merito e non nel metodo. Qualsiasi retorica rivoluzionaria sembra espunta dal discorso di questo realista radicale. Anzi, alla democrazia liberale Siti attribuisce “l’obbligo di misurare periodicamente la propria impotenza” come utile strategia di sopravvivenza: la letteratura, in questo senso, sembrerebbe avere un valore politico. Guardando a Bret Easton Ellis e al modo in cui riflette su Trump e l’anti-trumpismo in Bianco (Einaudi, 2019), Siti suggerisce la possibilità che la letteratura sia intrinsecamente democratica perché consente di tenere dentro di sé posizioni contrastanti, all’opposto di un politicamente corretto (e della sua antitesi destrorsa) intellettualmente piatti e monodimensionali. Con le sue ambivalenze e ambiguità strutturali (mettersi nei panni del “cattivo”, per esempio, e mostrare le sue ragioni) alla letteratura è assegnata una funzione (anch’essa ambiguamente) vitale per ogni società che si voglia pluralista. I temi caldi che interessano la voga del neo-impegno insomma (il razzismo e i fenomeni migratori, il femminismo, le questioni di genere, la mafia, i cambiamenti climatici, eccetera), e che vengono opportunisticamente cavalcati dalla ragione commerciale degli editori (e dal narcisismo degli autori), se sono additati da Siti non è certo per dissociarsi da quei valori e da quelle battaglie. Il problema esiste solo nella misura in cui simili valori e battaglie (quella egemonia) stanno esercitando una pressione ricattatoria sulla libertà creativa privando la scrittura letteraria della stratificazione, della capacità di messa a distanza, e in fondo anche della sacrosanta curiosità verso i lati più oscuri della coscienza umana, che caratterizzano le opere davvero riuscite.
Tra i saggi più efficaci e partecipati dall’autore c’è proprio quello su Saviano, dove analisi stilistica e sociologia della letteratura si alleano a comporre un ritratto vivace, empatico e (forse proprio perciò) abbastanza tragico, dello scrittore casertano. Potremmo immaginare uno sviluppo più lungo sul modello del Limonov di Carrère (scrittore e libro che tornano in queste pagine come esempi virtuosi). Altra promessa (esplicita questa volta) è la “demonologia della D’Urso” a cui Siti riserva altri luoghi e tempi, accennandone soltanto nel saggio sui talk show. Aspettiamo con curiosità.
Molto ancora riservano le riflessioni di Contro l’impegno, a cui auguro l’attenzione che merita. Un’attenzione meno volatile e interessata, speriamo, di quella descritta tra le sue pagine. Il sentiero che ci indica Siti è stretto, quasi invisibile accanto alle autostrade digitali e alle nuove vie della seta della cultura e della sensibilità ipermoderna, ma francamente di quel “Dante del web” a cui accenna parlando dei fiduciosi sostenitori di un post (o trans)umanismo, ancora non si vede traccia. Pur avendo trent’anni meno dell’autore condivido in gran parte il suo “disfattismo” ma anche i suoi umili, e tutto sommato ottimistici, tentativi di tirare avanti senza vendersi (completamente) l’anima al diavolo (o alla D’Urso).