N ella quarta di copertina di un suo libro, di Giovanni Mariotti si dice che non conosce la lingua inglese, non sa nuotare né ballare, che non ha mai guidato un’automobile né mai è salito su un aereo. Non è possibile ridurre queste considerazioni, che portano a immaginare un uomo fuori dal suo tempo, a piccole curiosità di costume, a quelle notazioni che mirano alla costruzione di un personaggio eccentrico e particolare. Chi infatti conosce l’opera di Giovanni Mariotti, originario di Pietrasanta dove è nato nel 1936, noterà subito in queste poche righe quello che è forse il tema che risuona maggiormente tra le sue pagine, il tempo, come questo scorra, quale sia il nostro ruolo al suo interno, cosa resta di noi al suo procedere e se, magari, abbiamo un nostro posto in questo perpetuo e frenetico viaggio.
Dalla prosa ineffabile e leggera, che scorre sempre sul limite del silenzio e si fa materia eterea, narrazione pura, l’opera di Mariotti conta oggi di diversi libri che coprono un arco di circa cinquant’anni, dagli esordi degli anni Settanta fino agli ultimi scritti che corteggiano i nostri giorni e si inseriscono anche nel problema principe del nostro tempo, quello della pandemia, anche se non attraverso una sua narrazione, quanto invece una riflessione, ancora, sul tempo e su come questo ci inviti a un continuo ripensamento del nostro passato. Ma Mariotti è anche traduttore, saggista, curatore, stretto collaboratore di Franco Maria Ricci per il quale si è occupato della fascinosa “Biblioteca blu”, che ha pubblicato libri splendidi, probabilmente fuori dal nostro tempo per grazia e complessità, come La crociata dei bambini di Marcel Schwob, tradotto proprio dallo stesso Mariotti. Forse sta proprio nella molteplicità delle sue testimonianze, nel suo lavoro ogni volta diverso che trova però un denominatore comune nell’amore e nel rispetto nei confronti del testo letterario, la difficoltà di inserire Mariotti nel discorso letterario comune e l’apprezzamento sotterraneo nei confronti della sua opera, tanto luminosa per chi ci si accosti, quanto oscura a molti lettori.
E per avvicinarcisi al mistero dello scrittore si può partire proprio dal testo più recentemente pubblicato da Mariotti, i suoi Piccoli addii, nella collana dei Microgrammi dell’editore Adelphi, un libro assemblato durante i giorni della prima ondata della pandemia e composto da testi apparsi sul Corriere della Sera, qui rivisti e riorganizzati. Nessun intento compilativo segna però questa raccolta, che invece si snoda come una serie di “brevi congedi da un mondo che non c’era più” e che oggi, come scrive Mariotti, “a un’età in cui tutto è addio”. Le parole di Mariotti simboleggiano la fiducia nella scrittura, nella sua forza di conservare i ricordi o mantenerne quantomeno i contorni. Ma il valore assegnato agli oggetti quotidiani che occupano queste pagine (come le calze velate che giungono al grande pubblico, “la prima volta che tra i contadini – dove da sempre il prestigio era riservato al Pesante, al Ruvido, al Grezzo – si aspirava a qualcosa di così leggero, di così prossimo all’immaterialità”) va ben oltre l’aspetto documentario perché questi sono invece, nella loro fusione con lo spazio geografico che le abbraccia, in particolar modo la Pietrasanta dell’infanzia e giovinezza di Mariotti, un’interrogazione su ciò che passa e su ciò che resta, un deposito della memoria costruito attraverso i ricordi, o meglio da ciò che il tempo concede alla memoria di trattenere, ciò che resta immune dalla sua perpetua dissoluzione.
I piccoli addii sono un’interrogazione su ciò che passa e su ciò che resta, un deposito della memoria costruito attraverso i ricordi, o meglio da ciò che il tempo concede alla memoria di trattenere.
E il tempo è il protagonista assoluto di quella che è l’opera forse più importante di Mariotti, il romanzo Storia di Matilde, pubblicato in una prima edizione per Anabasi negli anni Novanta e poi in una nuova versione per Adelphi nel 2003. Pietro Citati ha avuto modo di scrivere che questo libro di Mariotti è “il più bel romanzo scritto in Italia negli ultimi vent’anni” e al di là della difficoltà di immaginare una mappa che sia in grado di una valutazione così ampia, si può dire che Storia di Matilde è sicuramente un romanzo troppo poco letto e considerato quando ci si lancia in considerazioni di così vasta portata. Se si volesse partire dalla forma di questo libro non si potrebbe prescindere dalla sua eccezionalità: il romanzo è composto infatti da un’unica frase che si allunga per oltre duecento pagine, senza che Mariotti senta mai la necessità di utilizzare il punto. Ma attraverso questa scelta Mariotti non vuole semplicemente assimilarsi a sperimentatori linguistici che si dilettano a giocare con la lingua – seppure questo libro sia anche prova di una impressionante abilità letteraria – perché in Storia di Matilde la forma si sovrappone al contenuto.
La vicenda di una piccola orfana che improvvisamente appare in un convento e sarà cresciuta da una coppia di contadini lucchesi tra stenti e miseria è solo il primo evento di una storia che procede attraverso una gemmazione continua e inarrestabile che incastona ogni momento in un altro, creando un flusso ininterrotto di immagini e quadri che portano il lettore a immergersi in questa ariosa vicenda familiare. Matilde è in realtà figlia di una giovane nobile che, poiché la piccola è nata fuori dal matrimonio, è costretta a lasciarla andare anche se, nel corso del romanzo, le sue origini torneranno a bussare all’interno della sua vita: Matilde racchiude in sé lo spirito aristocratico della madre che si sovrappone e collide con il mondo contadino in cui si trova suo malgrado a crescere.
Questa sovrapposizione tra ambienti sociali diversi innerva ogni descrizione di Mariotti e nel libro si susseguono così favolosi quadri d’ambiente, contadini (“il timore del gelo da affrontare al momento di svestirsi e della lunga immobilità necessaria a creare una nicchia calda in una Siberia di lenzuola così fredde da togliere anche ai più intraprendenti il coraggio di dire Buonanotte” ), borghesi e aristocratici, come le splendide immagini della villa di campagna della contessa Gigliotti, oppure urbani, con la città di Viareggio (“la tramontana si getterà sparpagliandosi e sfogandosi non senza prima avere zufolato per un po’ fra le torrette del Royal e i trafori liberty dei caffè e degli empori e mulinato foglie e aghi di pino e giornali sui lungomare deserti o sulla piazza del Marcopolo”).
Come ha sottolineato anche Pietro Citati, Storia di Matilde è un romanzo dove il tempo ha un ruolo fondamentale, vero protagonista che, così come nella vita reale di ogni giorno, finisce per mangiare ogni interstizio, e muovere il pensiero continuamente lungo la sua linea (e non sono rari i momenti nel romanzo in cui si rintracciano vertiginosi spostamenti cronologici). Gli orologi che appaiono nel corso del romanzo (come “certi maîtres-horlogers” di Besançon di cui è appassionato monsiuer Chantelat o l’orologio “Huit Jours” comprato proprio da un maître-horloger che fa la sua comparsa dentro la narrazione) sono la concretizzazione di questa sostanza inafferrabile, ma nello stesso tempo sono anche il segno tangibile del fallimento umano nel provare a misurare il tempo della vita perché “nel tempo, tutto muore o è destinato a morire, e talvolta muore prima di nascere”.
La parola come argine, almeno temporaneo, al caos, nell’illusione di essere in grado di fermare, almeno per un momento, il tempo.
Nel 2017 è poi uscito La carpa del sogno, che ha trovato perfetta collocazione nella collana “Il labirinto scritto” dell’editore Franco Maria Ricci, appendice letteraria non lontana dalle splendide collane di libri d’arte dell’editore da poco scomparso. La carpa del sogno è il primo volume della collana (in cui si segnala anche il poema di Rosita Copioli Le figlie di Gailani e mia madre, recentemente pubblicato) e nella sua lettera al lettore Franco Maria Ricci scrive di come il libro sia segnato da una “grazia e limpidezza” indiscutibili che necessitano forse, per essere apprezzati, di “spiriti complici, affini”. E la materia di questo libro, ancora ostinatamente slegata da qualsiasi esigenza di soddisfare un ipotetico pubblico, conferma Mariotti lo scrittore misterioso e inclassificabile di cui si è provato fin qui a delineare il carattere, elevando ancora di più lo spirito metafisico della sue storie che qua corteggiano da vicino anche alcune pagine kafkiane: qui infatti lo scrittore toscano incentra la sua narrazione su un personaggio eccezionale, Kogi, un monaco taoista, che sarà poi eremita, pittore di pesci e per un breve momento si trasformerà anche in un pesce (“dopo essersi impadroniti della sua mano a poco a poco i pesci si stavano impossessando anche del suo spirito”), per una reincarnazione fugace che genererà una discreta confusione sensoriale.
Questo libro serve anche a svelare quella che è probabilmente una delle letture fondamentali di Mariotti, il Zhuang-zi, “raccolta di facezie e paradossi” risalente al IV secolo a.C., libro che nel romanzo serve a Kogi per orientarsi lungo il suo viaggio terreno. Il taoismo, che trova in Zhuang-zi uno dei suoi testi fondamentali, è il luogo di confronto che sceglie Mariotti in questo libro: e se “per conoscere il Tao non si deve né pensare né riflettere” e “per possedere il Tao non si deve partire da un punto né seguire una Via”, un libro che si costruisce su questo diventa, al di là della vicenda del monaco Kogi, del suo amico pescatore Bunshi e del loro viaggio, un libro irraccontabile, un lungo serpente di frasi e pagine che non pare avere né inizio né fine, come sembrano non avere dei contorni precisi le esperienze del protagonista, spesso smarrito o incapace di raccapezzarsi in quella che normalmente viene considerata la realtà. Non è un caso, infine, che la maggior parte delle esperienze di Kogi trovino ambientazione privilegiata nell’acqua, elemento nel quale tutte le cose mutano e perdono i loro contorni, si fanno altro, come Kogi cercherà di capire nel corso della sua storia.
L’esperienza del monaco Kogi, travolto dalla gioia per la creazione, quella della scrittura e della pittura, pare essere anche un inno d’amore di Mariotti nei confronti della parola e dei segni che si utilizzano per descrivere il mondo, poiché questi sono lo strumento per dare un argine, almeno temporaneo, al caos, delimitando il possibile, e per illudersi di essere in grado di fermare, almeno per un momento, il tempo, che invece beffardo continua a scorrere come il corso d’acqua dove Kogi vive la sua reincarnazione.