N on c’è un solo tipo di memoria. Ce ne sono diversi, ognuno con le proprie caratteristiche e i propri meccanismi. Io posso ricordarmi i dettagli di un avvenimento di cinquant’anni fa ma non quello che ho fatto ieri; oppure posso essere in grado di effettuare un calcolo aritmetico ma non di allacciarmi le scarpe. Nell’inesorabile perdita di memoria dei pazienti affetti da demenza, invece, possono succedere molte cose, il che dipende da quali aree del cervello sono compromesse.
Poco fa ho chiamato un ristorante per prenotare una cena con gli amici. Ho cercato il numero nell’elenco telefonico, me lo sono ricordato per pochi secondi, quanto basta per comporlo sul cellulare, ho prenotato, ma adesso che ho ripreso a scrivere queste righe quel numero è svanito nel nulla. Questa è la memoria a breve termine, che spesso dura solo pochi secondi. Ricordo invece perfettamente, e potrei trascrivere o recitare ad alta voce in qualsiasi momento, per esempio, alcune poesie imparate alle elementari: una su tutte, “San Martino” di Giosuè Carducci. È rimasta nella mia testa per tutti questi anni. È incredibile che nel mio cervello ci sia ancora traccia di quelle righe e di quei suoni. Eppure non faccio alcuno sforzo a ricordarla, e posso persino recitarla a gran velocità. Questa è la memoria a lungo termine, e può durare per la nostra intera esistenza. Di tutte le informazioni che riceviamo in un giorno, solo l’1 per cento e anche meno viene fissato nel cervello per periodi lunghi. Il 99 per cento viene perso e svanisce nel nulla.
Il cervello elabora la memoria a breve e lungo termine in maniera diversa. Lo si vede chiaramente nei casi di amnesia anterograda: in questa patologia si perde la capacità di apprendimento da quando insorge il problema, per esempio un trauma, mentre la memoria precedente rimane intatta.
C’è un paziente famoso nella storia della medicina, Henry Molaison, meglio conosciuto come H.M., che ci ha fatto comprendere con chiarezza come il cervello umano immagazzini i ricordi a breve e a lungo termine. I suoi lobi temporali, cioè quelli ai lati del cervello, furono asportati a causa di una grave forma di epilessia. Dopo l’intervento, H.M. ricordava il passato lontano, ma non riusciva ad apprendere, cioè in altre parole la sua memoria più recente svaniva via via. L’uomo, per esempio, aveva cambiato casa, ma tornava sempre al suo vecchio indirizzo perché non riusciva a imparare quello nuovo.
È impressionante pensare a quanti ricordi abbiamo noi adulti, ma è altrettanto impressionante pensare a quante combinazioni di connessioni fra neuroni esistano nel nostro cervello.
I lobi temporali, e più precisamente il cosiddetto ippocampo – chiamato così per la sua forma a cavalluccio marino –, svolgono un ruolo determinante nella formazione dei nostri ricordi. Tuttavia, non è lì che le memorie vengono depositate: H.M. e pazienti simili a lui ricordano il passato remoto anche in assenza di queste aree cerebrali. L’ippocampo è dunque un primo centro di smistamento delle memorie, che poi vengono depositate nella corteccia cerebrale, quel manto di sostanza grigia che ricopre tutto il cervello.
Qual è il rapporto tra neuroni e ricordi?
Non si deve immaginare che ogni ricordo sia localizzato in un singolo neurone. Sarebbe decisamente svantaggioso per l’essere umano nel corso dell’evoluzione; la morte di quel neurone determinerebbe la scomparsa di un’intera memoria. Il volto di mia madre racchiuso in un singolo neurone? No, il cervello non funziona così. È la combinazione di migliaia di neuroni e delle loro connessioni, attivate da sostanze chimiche specifiche, a contenere il volto di mia madre. Se qualche connessione viene persa, il volto di mia madre si affievolisce, ma non viene perso del tutto. Solo quando queste migliaia di neuroni svaniranno interamente, anche il volto di mia madre scomparirà del tutto. Ecco una strategia dell’evoluzione per evitare che le memorie vengano perse con facilità.
Nel nostro cervello esistono dunque intere popolazioni di neuroni, vicini e distanti, che comunicano fra loro. È persino possibile misurare come i diversi gruppi di neuroni, o moduli, vengano attivati simultaneamente. La comunicazione è complessa e si basa sulla sincronia, e i metodi per rivelarla sono molto complicati e si esprimono con formule matematiche. Una di queste è la cosiddetta informazione reciproca. Eccola.
Per carità, non leggetela, poiché ha poca importanza al fine di questa storia. Serve solo per capire quanto sia complicata la comunicazione fra gruppi di neuroni.
Per meglio comprendere il funzionamento dei neuroni in relazione ai ricordi, torniamo all’immagine del pino. Tramite la linfa e le sottili venature dei rami e del tronco, molti aghi sono in connessione con altri, vicini e lontani. Per esempio, gli aghi del ramo in alto che guarda a est possono essere in connessione con quelli del ramo in basso rivolto a ovest. Sono fisicamente molto distanti, ma funzionalmente vicinissimi, perché sono in connessione fra loro, e la formula dell’informazione reciproca ce lo rivelerebbe. Così i neuroni: funzionano come un tutt’uno, e nella loro connessione è contenuto un nostro ricordo. È impressionante pensare a quanti ricordi abbiamo noi adulti, ma è altrettanto impressionante pensare a quante combinazioni di connessioni fra neuroni esistano nel nostro cervello.
Il numero dei neuroni è infinitamente maggiore rispetto a quello degli aghi di un grosso e vecchio pino, e compone una sinfonia meravigliosa, nel tempo e nello spazio, dove le memorie più remote e più recenti sono poste ordinatamente, in una sequenza che ci dà il senso del tempo passato.
Nella demenza queste connessioni vengono perse, parzialmente o totalmente, e allora le memorie si affievoliscono, si accavallano, si confondono, oppure svaniscono del tutto. Quella stupenda sinfonia, quella sincronia, quella meravigliosa sequenza spazio-temporale scompaiono, e le memorie divengono confuse, determinando la nascita di un nuovo Io, di una nuova personalità, di un nuovo rapporto col mondo esterno. In un certo senso, noi siamo i nostri ricordi.
Può sembrare strano, ma la meravigliosa sinfonia dei neuroni si perde anche in alcuni momenti della nostra vita di tutti i giorni: quando dormiamo e sogniamo. Lì la confusione è totale. Ieri ho sognato un cane che mi si avvicinava, ma in effetti era un mio amico che non vedo da più di vent’anni. Poi, il cane o l’amico – non so bene come definirlo – mi è salito sulle spalle, ma in effetti è salito su un aereo, cioè su me stesso che ero diventato un aereo, almeno mi sembra di ricordare così. A un certo punto ci siamo trovati sott’acqua, senza bombole, senza trattenere il fiato. Respiravamo perfettamente, anche se in fondo al mare, io e il cane (o l’amico?). Abbiamo afferrato una grossa torta di mele e ci siamo buttati a capofitto per mangiarla. Tuttavia, nel frattempo non eravamo più sott’acqua, ma in un bel ristorante di alta montagna dove facevano delle ottime torte di mele. Insomma, una gran confusione davvero!
Nel sogno le memorie sono confuse, i ricordi si accavallano per dare origine a scenari fantastici e paradossali. Mentre sognavo, la manciata di neuroni in cui si adagiava il ricordo del mio vecchio amico si è mescolata a quella in cui risiede l’immagine del cane. Il pugno di neuroni in cui risiede la memoria dell’acqua, del mare e della mancanza di ossigeno sott’acqua si è accavallato con quello in cui è localizzato il mio ricordo delle torte di mele, della loro bontà e di come sono speciali in quel ristorante in alta montagna. È un intreccio che si attiva a caso, senza un preciso ordine nel tempo e nello spazio.
La meravigliosa sinfonia dei neuroni si perde anche in alcuni momenti della nostra vita di tutti i giorni: quando dormiamo e sogniamo.
Ecco, questo dà l’idea di ciò che può succedere in una demenza, dove mucchi di neuroni muoiono, le loro connessioni si accavallano e si generano così ricordi paradossali. (…) Nella demenza il tempo si perde. Come nei sogni. Facciamo un esempio.
Qualche giorno fa ho sognato una lunga scalata faticosa verso il cielo. Una scalata di ore, che mi sembrava durata per tutta la notte: volevo raggiungere un punto lontano, in alto, dove c’erano degli oggetti simili a pentole. Poi, a un tratto, uno di quegli oggetti comincia a cadere dal cielo e si avvicina sempre più, finché riesco a distinguerlo: è una pentola gigante che viaggia a velocità supersonica. Si infrange al suolo facendo un rumore frastornante.
Mi sveglio di scatto. È caduta una pentola a mia moglie in cucina. Com’è possibile che, dopo aver sognato pentole per tutta la notte, la caduta della pentola nel sogno abbia coinciso perfettamente con quella in cucina? Il fatto è semplice: in realtà non ho sognato tutta la notte pentole. È avvenuto tutto in un secondo. La pentola sfuggita dalle mani di mia moglie ha prodotto il rumore frastornante che mi ha svegliato e ha attivato una serie di ricordi che sembrano durati tutta la notte.
Nei sogni il tempo si perde, non esiste, così come non esiste nella demenza. La confusione temporale crea incertezze sul momento in cui gli avvenimenti sono successi. Le cose si complicano ulteriormente se pensiamo che esistono diversi tipi di memoria e che, in una demenza, non necessariamente verranno persi tutti. La memoria “dichiarativa”, o esplicita, richiede l’intervento della nostra coscienza. Quando guardo un film o leggo un romanzo, per esempio, per rievocare le scene ripercorro coscientemente la sequenza di avvenimenti che ho osservato o letto.
Se vado a sciare, invece, non ho bisogno di rievocare coscientemente i movimenti da compiere per eseguire una buona sciata. Tutto avviene in maniera automatica: la sequenza di movimenti necessari è scritta nel mio cervello e nei miei muscoli. Questa è una memoria “non dichiarativa”, o implicita, in cui il tutto avviene in modo completamente inconscio. Esiste poi una memoria “semantica”, che consiste in quei concetti e in quelle conoscenze che abbiamo acquisito durante la vita, per esempio: “i gatti sono mammiferi”. La memoria “autobiografica” è invece associata ad avvenimenti della nostra vita personale, e va dalla data e luogo di nascita alla laurea presa trent’anni prima.
I meandri della memoria di pazienti affetti da demenza sono sconfinati ed è difficile, se non impossibile, afferrare la verità che si cela in essi. Come ci ricorda Piergiorgio Strata, mio mentore per almeno dieci anni dei miei studi in medicina e neuroscienze all’Università di Torino, nel suo Le false memorie:
L’uomo segna i ricordi nei fogli profondi della memoria nelle sue caverne incalcolabili ed ordinate e li affida ai posteri come hanno fatto gli indiani con i libri Veda e gli ebrei con la Sacra Scrittura. L’uomo
vive con i suoi ricordi fino alla morte (Omero).
Estratto da Il cacciatore di ricordi di Fabrizio Benedetti (Mondadori, 2021).