U na sera nella piccola sala gremita di una mediateca di periferia. Il pubblico, molto eterogeneo, è venuto malgrado il freddo per assistere a uno strano spettacolo. Si tratta di una presentazione di brevi video seguiti da un dibattito sull’impiego e il lavoro. Le organizzatrici (Hélène Crouzillat, Lisa Eddaïkra e Élisabeth Saint-Jalmes, riunite nell’associazione Adélaïde & Co che hanno fondato per approfondire artisticamente la questione del lavoro) hanno realizzato qualche breve filmato senza parole. Sette, per essere del tutto esatti; ognuno mette in scena una donna che ha per unica consegna quella di rappresentare il suo lavoro, senza parole, ma con l’aiuto di effetti sonori che lei stessa ha scelto. Sette video, dunque, per sette donne (commessa della grande distribuzione, gestrice di un parco macchine per una grande impresa, badante, bibliotecaria, operaia nel settore pelletteria ecc.) che mimano il loro lavoro, che esprimono senza parole quel che esso suscita in loro.
Queste donne dovevano in seguito intervistare alcune persone che lavoravano al Centro per l’impiego (la responsabile delle risorse umane e la direttrice, una receptionist, una coordinatrice d’organizzazione, un responsabile d’équipe) e alla mediateca per far parlare anch’esse del loro lavoro. Tutto ciò ha dato luogo a un montaggio audiovisivo di una ventina di minuti proiettato quella sera. Mi è stato chiesto, così come a Joyce Sebag-Durand, una collega sociologa specialista del lavoro e dell’immagine, di venire a commentare questi video e di partecipare al dibattito. Ci sono andata per simpatia nei confronti delle organizzatrici e di queste donne; trovavo il tentativo bello, originale e coraggioso, ma non vedevo davvero cosa sarebbe potuto venirne fuori. Difficile tuttavia non lasciarsi catturare dalle immagini di questi video. Le donne vi appaiono di volta in volta sole, a tutto schermo, esposte senza filtri alla videocamera, a raccontare il proprio lavoro soltanto con il corpo. Dapprima lo spettatore non vede che il loro imbarazzo, la difficoltà, la goffaggine nel trasmettere, attraverso semplici gesti, la realtà del loro lavoro.
Sembrano inadeguate a occupare a turno tutto lo schermo, a mettere in primo piano il proprio corpo, attraverso gesti la cui portata non è evidente. Poi, poco a poco, una logica prende forma; la maggior parte trasmette uno stesso messaggio con gesti differenti, con espressioni facciali e fisiche contrastanti: per far comprendere il proprio lavoro, hanno scelto di mostrare come esso si inscriva nel corpo, quale parte di loro stesse colpisca. Non si tratta di allusioni a disturbi muscolo-scheletrici, no; si tratta di mostrare a che punto il lavoro s’impossessi di loro, di mostrare emozioni, sentimenti, pensieri, con l’aiuto del proprio corpo. Senza vergogna le donne si massaggiano il ventre, lentamente, dolorosamente, si posano le mani sul cuore con raccoglimento, si accarezzano le spalle per raccontare la realtà di un lavoro che le prende allo stomaco, che soffia in loro vita e dolore, dolore che scacciano con le mani dall’interno del corpo. È fondamentale (almeno per sei di loro, perché la settima mimava davvero gesti del suo lavoro) far comprendere che il lavoro prende al cuore e al corpo, irriga e prosciuga, devasta e ricostruisce, trasforma; e che si tratta di una faccenda personale, una faccenda che tocca nel più profondo dell’umano; il che può anche tradursi nell’esecuzione di qualche passo di danza per mostrare che bisogna liberare energia nel bel mezzo di un grande magazzino.
La serietà con la quale ciascuna in seguito interpella i responsabili istituzionali è sorprendente. Non sembrano dubitare, queste donne gerarchicamente subalterne, della loro legittimità a spingere le intervistate a interrogarsi sulle autentiche finalità, sulle specificità del loro lavoro e a domandare di ridefinirlo. Quasi stupefatte al principio, le persone intervistate dispensano sorrisi forzati, ostentano un’espressione confusa, prima di imbarcarsi poco a poco nell’avventura e di stare anch’esse al gioco. Nessun dubbio: in maniera un po’ magica, c’è spazio per un ritorno dell’umano. Ognuna impone la sua umanità per parlare del suo lavoro e di quello delle altre.
Queste donne gerarchicamente subalterne non dubitano della loro legittimità a spingere a interrogarsi sulle autentiche finalità, sulle specificità del loro lavoro e a domandare di ridefinirlo.
Dopo la proiezione dei video e del montaggio delle interviste la parola passa alle protagoniste. Sebbene siano poco abituate a parlare in pubblico, è con la stessa forza, la stessa convinzione, che trovano le parole, questa volta per parlare davvero di ciò che hanno vissuto o vivono ancora sul lavoro e per raccontare quel che sono diventate dopo questi video; è con la stessa autenticità che si lasciano sfuggire risate, sospiri e, per dirla tutta, anche qualche lacrima.
Il silenzio rispettoso, la concentrazione estrema degli spettatori in sala impressionano. Nessuna risatina, nessun voyeurismo, i volti sono tesi, gravi, a riprova che tutto ciò parla alle persone riunite in questo contesto così poco comune. Quando la parola passa alla sala, chi mi siede a sinistra, un uomo di una cinquantina d’anni, confida le sue impressioni, pone una domanda e sento la sua voce strozzarsi mentre, furtivamente, trattiene una lacrima. Distolgo lo sguardo imbarazzata e mi accorgo che il mio vicino di destra reprime difficilmente un singhiozzo. Altri intervengono in seguito in un modo che non lascia alcun dubbio. Tutti sono toccati al cuore. Quanta sofferenza in questa sala, me ne rendo conto: le dighe sono crollate, i partecipanti alla serata sono indifesi nell’affrontare quest’esperienza in cui delle donne confidano dal più profondo del cuore quel che il lavoro fa e ha fatto loro; senza dubbio tutto ciò riattiva dei ricordi dolorosi, insopportabili per chi li ascolta. Il pubblico non è qui per caso. Evidentemente alcuni conoscono queste donne, forse le hanno incrociate al Centro per l’impiego, o vicino alla scuola che frequentano i loro figli. È qualcosa come una storia comune, come delle esperienze simili, che avvicina tutte queste persone.
Rientro sconvolta da questa serata insolita. Non so proprio cosa pensare. Ho la sensazione di avere assistito a una messa a nudo; queste donne hanno mostrato come potevano essere inghiottite dal lavoro, vampirizzate da esso e come cercavano di proteggersi per lenire il dolore, per confortarsi da sole. Hanno mostrato la parte della loro umanità colpita, straziata e che volevano, a loro modo, guarire. E questo ha toccato in risonanza gli spettatori.
L’umano, l’umano… Ma il lavoro non è anzitutto una faccenda di professionisti? Sul lavoro non ci sono uomini e donne, ma operai, operaie, amministratori e amministratrici, tecnici e tecniche, quadri dirigenti, ingegneri e ingegnere, in altri termini persone che possiedono saperi, abilità, qualifiche, mestieri, esperienza. Di colpo capisco che la sofferenza può essere senza limite quando non c’è la professionalità a proteggere l’umano al lavoro, o piuttosto quando la professionalità non viene riconosciuta, quando è ridotta all’invisibilità o ostacolata dalle condizioni di lavoro.
La sofferenza può essere senza limite quando non c’è la professionalità a proteggere l’umano al lavoro, quando non viene riconosciuta, quando è ridotta all’invisibilità.
Di fronte a un consigliere del ministro dell’Agricoltura in cerca di soluzioni che recentemente si chiedeva: “Come si può reintrodurre l’umano nelle industrie così come nei mattatoi?”, avevo tentato di spiegare che non era soltanto l’umano, ma soprattutto la professionalità che bisognava rimettere al centro dell’organizzazione del lavoro e della gestione dei dipendenti. Rispettare l’umano al lavoro, una volta significava rispettare il professionista e il suo punto di vista, la sua esperienza. Dargli spazio affinché potesse contribuire a definire il suo lavoro. Non ero certa che i miei discorsi reggessero. Tuttavia, è solo riconoscendo al professionista le sue capacità, la sua competenza, che si preserva la sua umanità e non cercando di confortarlo con dei coach, con dei numeri verdi per il supporto psicologico, con corsi di formazione contro lo stress, massaggi gratuiti, consigli per dimagrire o combattere il colesterolo o che so ancora.
L’individuo sul lavoro ha bisogno di regole professionali che rimandino a riferimenti collettivi e che lo tengano discosto da una messa in questione di sé troppo personale. Così, per esempio, Annie Dussuet scrive:
Le badanti non sono né le spose, né le figlie di quelli che assistono quotidianamente e se, per garantire un servizio di qualità e trovare un senso al loro lavoro, devono impegnare la loro soggettività, non possono farlo che al modo degli “angeli del focolare”
Dussuet spiega che le badanti hanno bisogno di regole professionali e che di questo hanno pienamente coscienza. La soggettività, le emozioni, prendono tutto il loro spazio e la loro forza sul lavoro, ma devono essere inquadrate da logiche professionali convalidate da pari; solo a questa condizione non sommergono gli individui al punto da ritorcersi contro di loro. Ed è anche a questa condizione che saranno più difficilmente manipolabili da un management pronto a tutto, pronto a mobilitarle al servizio di una visione specifica del lavoro propria di un capitalismo sempre più finanziario, che ha di mira solo il profitto a breve termine.
Il dramma del lavoro contemporaneo non proviene, paradossalmente, dal fatto che è disumanizzante, ma al contrario dal fatto che esso giochi con gli aspetti più profondamente umani degli individui, invece di rivolgersi a quei registri professionali che permettono di stabilire una delimitazione tra ciò che questi individui investono nel lavoro e ciò che essi sono. Il management moderno punta sul registro personale dei dipendenti, come un autentico imprenditore a caccia di uomini; è l’interezza della persona che cerca di mobilitare, attivando le dimensioni più complesse e più vulnerabili dell’individuo.
Di ciò rendevano conto perfettamente quelle donne che, nei video, non si presentavano come professioniste ma come corpi, che esprimevano sensazioni, sentimenti, paure, frustrazioni, nella maniera più umana, più personale che ci sia. Si può parlare qui di una disfatta del lavoro, se si intende per lavoro un’attività sociale che contribuisce a rispondere ai bisogni degli altri, a partire da una competenza, da un sapere; un ruolo sociale che definisce diritti e doveri, un ruolo che non dipende dalle particolarità di ciascun individuo, ma che si caratterizza per modi di fare convalidati dalla società. Se si vuole donare se stessi, se ci si vuole impegnare personalmente nel lavoro, ciò non può darsi che in un contesto delimitato da norme che introducano dei limiti e delle garanzie.
Il dramma del lavoro contemporaneo non proviene, paradossalmente, dal fatto che è disumanizzante, ma al contrario dal fatto che giochi con gli aspetti più profondamente umani degli individui.
Il lavoro salariato o retribuito è una faccenda di professionisti. Si accompagna a saperi, abilità, esperienza, mestiere, a valori professionali riconosciuti, che esistono per guidare, per proteggere le persone sul lavoro. Sono risorse che permettono agli individui di affrontare il lavoro e che li legano agli altri; questi non devono confrontarsi solitariamente a sfide personali, ma possono mobilitare capacità, competenze che rimandano a una realtà collettiva. Possedere un mestiere, conoscenze valide, consente di non mettere in pericolo la propria persona in ogni istante, di non dover attingere costantemente alle proprie risorse più intime.
Ora, il management moderno se la prende proprio con la persona, pizzica le sue corde più intime per farle eseguire, con tocco personale, lo spartito che, lui, il management, ha scritto interamente da solo. Poco importa che lo strumento dato non sia accordato convenientemente, che il direttore d’orchestra sveli lo spartito nell’istante stesso in cui lo fa eseguire; poco importa che gli individui non abbiano il tempo di esercitarsi e che siano in concorrenza con i colleghi di leggio: devono incantare il pubblico, e se questo non riempie la sala del concerto, la colpa sarà loro. La storia del lavoro salariato è dunque quella di una deprofessionalizzazione sistematica dei lavoratori da parte di un management preoccupato anzitutto di controllarli e dominare il loro lavoro.
Bisogna comprendere che i datori di lavoro devono affrontare parecchie sfide quando mettono degli individui al lavoro: devono trovare l’organizzazione tecnica più efficace dal loro punto di vista di imprenditori; devono anche trovare le modalità mediante le quali potranno obbligare gli individui a conformarsi agli imperativi di questa organizzazione tecnica del lavoro; devono infine legittimare ideologicamente le loro scelte.
Quando si analizzano i principi che sono a fondamento dei modelli di organizzazione tecnica del lavoro, siano essi tayloristi o contemporanei, una stessa realtà si impone: quella di un attacco ai mestieri, all’esperienza dei professionisti, al fine di assottigliare il più possibile la loro capacità di pesare sul lavoro, di influire sulla scelta delle pratiche. Gli effetti sono diversi a seconda dei modelli. Nelle officine e alle catene di montaggio tayloriste, era la disumanizzazione a prevalere (anche se gli operai riuscivano sempre a rimettere insieme i cocci di una professionalità collettiva attraverso un lavoro reale sempre sensibilmente differente dal lavoro prescritto). Abbiamo tutti in mente il film di Charlie Chaplin che riflette quest’immagine dolorosa dell’uomo robotizzato. Nella nostra epoca, al contrario, l’attacco ai mestieri e alla professionalità conduce a una superumanizzazione del lavoro che lascia gli individui soli e senza risorse di fronte alle coercizioni sempre così forti ed esigenti dell’organizzazione del lavoro.
La storia del lavoro salariato è dunque quella di una deprofessionalizzazione sistematica dei lavoratori da parte di un management preoccupato anzitutto di controllarli e dominare il loro lavoro.
Occorre analizzare la logica che prevale tanto nella superumanizzazione quanto nella disumanizzazione del lavoro, cioè l’analisi delle scelte organizzative che attaccano la dimensione professionale dei dipendenti e l’analisi delle ideologie manageriali che cercano di giustificarle. Mirare a comprendere perché e come quel che si vive sul lavoro sia, per molte persone, un inferno salariale. E anche perché la critica di questo inferno sia difficile da esercitare. L’inferno non è forse lastricato di buone intenzioni?
Propongo di dipanare la matassa tirando, in un primo tempo, il filo della superumanizzazione contemporanea; in un secondo tempo, tenendo sempre ben stretto lo stesso filo, vedremo come in essa vi siano molti punti in comune con la disumanizzazione taylorista del lavoro. Allora potremo meglio comprendere la specificità del nuovo modello manageriale che si sta istituendo e che risulta così difficile da criticare.
Estratto da La commedia umana del lavoro – Dal Taylorismo al management neoliberale di Danièle Linhart (Mimesis, 2021)