O ggi 1 aprile 2021, una ricerca su Google con le parole chiave “quantum dot” produce come primo risultato un video caricato su YouTube il 29 luglio 2020 intitolato Quantum Dots e controllo dell’umanità. Seguono altri due video dai titoli altrettanto minacciosi: Sapete cosa sono i quantum dots?verra messo nei vaccini! e FUORI DAL VIRUS:“Quantum Dot” e vaccini !. A destra di questi risultati fa timidamente capolino il familiare box di Wikipedia, in cui si legge: “Punto quantico. Un punto quantico o punto quantistico a cui ci si riferisce anche come atomo artificiale è una nanostruttura formata da un’inclusione di un materiale semiconduttore, con una certa banda proibita…” – il testo poi si interrompe, per continuare a leggere bisogna cliccare sul link. La descrizione è corredata da fotografie di fialette inoffensive piene di liquido luminescente e colorate di tutti i colori dell’arcobaleno. Più in piccolo, la sezione di un oggetto sferico che ricorda un po’ i modellini geologici della terra emette frecce rosse ondulate che si dirigono velocemente verso di noi.
A chi stesse cercando di capire cosa sono davvero i quantum dot, la definizione fornita da Wikipedia non sarebbe molto d’aiuto. Aprendo il link, il nostro ipotetico lettore potrebbe consultare un brevissimo articolo a partire dal quale, per capire anche solo vagamente di cosa si sta parlando, ci si deve perdere in un labirinto di altre pagine: cos’è un semiconduttore? Cos’è una nanostruttura? Cosa significa avere una banda proibita? “Tra le possibili applicazioni, vi sono l’implementazione dei qubit necessari per un computer quantistico e lo studio dello stato di condensato di Bose – Einstein”.
Chi volesse capire cosa sono i “quantum dot” troverà oggi, come primi risultati dei motori di ricerca, video cospirazionisti e fantasie di complotto sul controllo dell’umanità.
Cliccando invece sul link del video, dall’aspetto decisamente più accattivante, il nostro navigante si troverebbe davanti a una quarantina di minuti di una trasmissione di un noto canale dedicato alla “controinformazione” a dir poco controverso, famoso per aver abbracciato e promosso, attraverso i suoi documentari, una grandissima varietà di teorie del complotto: da quelle solo un po’ ridicole, come la “teoria” della terra cava, ad altre decisamente più pericolose e ignobili, come la cura del cancro con iniezioni di bicarbonato. Nel video, insieme al conduttore, interviene per primo un fisico di cui ci vengono subito dichiarate tutte le credenziali accademiche (perché, a quanto pare, nemmeno i cospirazionisti sono immuni al fascino discreto delle competenze). Lo scienziato, che vanta di avere un’esperienza diretta con i quantum dot, procede a una descrizione molto vaga, ma a grandi linee corretta, di questa nanotecnologia: ci dice che si tratta di particelle cristalline fluorescenti capaci di emettere fotoni, che sono fatte di cadmio o altri metalli pesanti, a volte di grafene, e che sono usate commercialmente in alcuni televisori. Ma cosa c’entrano allora i quantum dot con il controllo dell’umanità? “Facciamo un attimo i complottisti”, esorta il conduttore in un paradossale momento di autocoscienza: se qualche tecnocrate malintenzionato volesse utilizzare i quantum dot per attuare un piano di controllo globale del genere umano, che cosa potrebbe succedere? Il colpevole, come il maggiordomo nei gialli più dozzinali, è quasi sempre lo stesso. Questa particolare fantasia di complotto, infatti, prende ispirazione da un’iniziativa della fondazione di Bill e Melinda Gates che, nel 2019, ha finanziato un progetto di ricerca del MIT indirizzato allo sviluppo di un dispositivo nanotecnologico capace di somministrare vaccini e, allo stesso tempo, tenerne una traccia in situ depositando una piccola quantità di quantum dot come marker specifici di ciascun farmaco inoculato.
I quantum dot sono piccolissimi cristalli di dimensioni nanometriche formati da materiali semiconduttori, che diventano cioè conduttivi soltanto a patto che agli elettroni degli atomi che li compongono venga fornita sufficiente energia, ad esempio per irraggiamento o per effetto di una differenza di potenziale. Quando ciò avviene, gli elettroni “saltano” in quella che in scienza dei materiali è chiamata “banda di conduzione”: un’espressione che non indica una regione fisica, ma uno stato che permette agli elettroni più energetici di allontanarsi dai loro nuclei atomici e muoversi liberamente attraverso il materiale. Ritornando al loro stato di partenza, gli elettroni possono emettere l’energia acquisita sottoforma di luce, producendo un effetto di fluorescenza.
Sfruttando questo meccanismo, i quantum dot sono capaci di interagire con la luce in modo molto interessante: dato che la dimensione di queste particelle è estremamente piccola, dell’ordine di pochi nanometri, quando gli elettroni eccitati saltano nella banda di conduzione si organizzano in modo coerente in una serie di livelli energetici discreti, un po’ come avviene nei singoli atomi. Il risultato di questo comportamento collettivo è che la fluorescenza dei quantum dot è molto intensa, precisa e controllabile in base alle dimensioni delle particelle. Si tratta di una proprietà che li rende particolarmente promettenti nella ricerca biomedica: mentre i farmaci tradizionali fanno perdere le loro tracce subito dopo l’assunzione, i quantum dot possono permetterci di continuare a scambiare informazioni con le sostanze che introduciamo nei nostri corpi, per capire dove, quando e in che modo interagiscono con noi.
I “quantum dot” sono piccolissimi cristalli fluorescenti, di dimensioni nanometriche, particolarmente promettenti nella ricerca biomedica.
Nel caso del dispositivo del MIT, i quantum dot verrebbero usati come “tatuaggi intelligenti” capaci di codificare la nostra storia vaccinale direttamente sui nostri corpi, rendendola sempre accessibile anche da un semplice smartphone. In questa notizia scientifica, in effetti, ci sono tutti gli ingredienti per confezionare la fantasia di complotto perfetta: i vaccini, il controllo bio-politico, Bill Gates e una certa dose di tempismo infelice. Lo stesso nome di questa nanotecnologia, che evoca un mondo misterioso fatto di punti zero-dimensionali e radiazioni elettromagnetiche, lascia largo spazio all’immaginazione; com’è prevedibile, è proprio sulla parte “quantum” dei quantum dot che si sono scatenate le teorie più fantasiose.
La riflessione degli ospiti della trasmissione che stiamo prendendo come esempio tra tanti, e come caso di studio, si concentra soprattutto sul concetto di entanglement. Anche in questo caso, il fenomeno è descritto in modo vago ma piuttosto corretto, raccontando di come i padri della meccanica quantistica scoprirono l’esistenza di questa inquietante azione a distanza; secondo il noto paradosso EPR, infatti, due particelle entangled, intrinsecamente correlate a livello quantistico, possono modificare a vicenda il proprio stato fisico in modo istantaneo, indipendentemente dalla loro reciproca posizione nello spazio. Le conclusioni degli ospiti, però, prendono una strana e inverosimile tangente: secondo loro, gli elettroni potrebbero essere controllati a distanza proprio attraverso l’entanglement, trasformando i quantum dot impiantati sotto la nostra pelle in una sorta di materiale alchemico e proteiforme, capace di assumere qualsiasi caratteristica fisico-chimica desiderata dall’operatore. “Un quantum dot messo in entanglement con chi l’ha inserito”, cercano di suggerire, “dà potere a questo qualcuno di fare quello che vuole di noi”.
Le mistificazioni di video come questi sono già state ampiamente raccontate. Visto che si tratta di un argomento particolarmente delicato, però, permettetemi di aggiungere qui qualche considerazione personale. Quando, alcuni mesi fa, ho cominciato a interessarmi alla vicenda dei quantum dot e del controllo dell’umanità, l’ho fatto soprattutto perché, occupandomi da qualche tempo delle implicazioni epistemologiche e politiche delle nanotecnologie, ho sempre avuto l’impressione che continuasse a sfuggirmi qualcosa. Mi spiego meglio: l’angoscia di fondo che sembra invadere il nostro immaginario davanti alla possibilità di una diffusione globale delle nanotecnologie ha a che fare con un’idea piuttosto astratta, direi quasi filosofica, e allo stesso tempo molto specifica, che potremmo riassumere nel concetto di materia programmabile. Non si tratta semplicemente della paura che la materia che costituisce i nostri corpi possa essere controllata dall’esterno per via di processi tecnologici occulti. Piuttosto, l’idea di materia programmabile fa riferimento alla possibilità di una trasmutazione, miracolosa o terrificante a seconda dei punti di vista, della materia in informazione e viceversa. In altri termini, come evidenzia bene il caso dei quantum dot, l’angoscia delle nanotecnologie sembra parlarci di una paura della dematerializzazione dei corpi mediata dalla tecnologia, e, in modo speculare, della capacità di forze immateriali di retroagire fisicamente sui nostri corpi attraverso i dispositivi tecnologici.
Delle nanotecnologie fa paura la dematerializzazione dei corpi mediata dalla tecnologia, la capacità di forze immateriali di retroagire fisicamente sui di noi.
A partire dallo scorso anno, quando il virus è entrato ufficialmente nelle nostre vite, il problema della nostra relazione con la tecnologia ha cominciato a riguardare in modo sempre più evidente l’interfaccia tra il visibile e l’invisibile. Il virus esiste in uno spazio ambiguo: non è né naturale né artificiale, è microscopico ma produce effetti macroscopici globali, è una struttura materiale che ci ha esiliati dai nostri spazi fisici per confinarci in mondi digitali in cui siamo sempre più sorvegliati e monitorati. Come ha sottolineato Nicolò Porcelluzzi qualche mese fa nella newsletter MEDUSA, molte delle “teorie” del complotto che sono emerse in questo periodo, dai quantum dot al 5G, possono essere interpretate alla luce di un cortocircuito irrisolto tra materia e significato, corpi e informazione. “Parte della comunità sta somatizzando la paura della smaterializzazione e l’oltraggio delle tecnologie di sorveglianza”, si legge su MEDUSA, “e designa quindi il colpevole, cioè l’intreccio tra potere e tecnologia, l’infrastruttura; seguendo sentieri magici e millenari l’infrastruttura si incarna nella bestia, cioè Bill Gates; il contagio si incarna nel chip, e Satana vola nella banda larga.”
Lo spazio sottile tra il visibile e l’invisibile è un mondo con cui chi si occupa di nanotecnologie è, per forza di cose, molto familiare. Anche se in modo molto meno plateale di quanto suggeriscono le paranoie complottiste, il problema della gestione di questa pandemia è stato da subito una questione di controllo nanotecnologico. Nel frattempo, come è già stato ampiamente sottolineato dalla comunità scientifica, la produzione e commercializzazione dei primi vaccini anti COVID-19 a m-RNA ha rappresentato un nuovo traguardo, perché è stata la prima occasione in cui un prodotto delle nanotecnologie, in particolare della nanomedicina, è stato diffuso su scala globale.
È ovvio che la via di uscita dalla crisi passerà soltanto attraverso queste tecnologie farmacologiche, le uniche capaci di salvarci; è altrettanto ovvio che nessun intervento tecnologico di massa potrà mai ambire a essere del tutto neutrale o innocente. Qualsiasi opinione si scelga di avere, è indubitabile che l’improvvisa, diffusa promiscuità dell’essere umano con la nanotecnologia, che si tratti di quella naturale del virus o di quella artificiale dei vaccini, ci ha colti impreparati. Questo sommovimento scientifico e culturale, da cui nessuno di noi può dirsi del tutto immune, mi ha fatto sorgere molte domande: improvvisamente, le assurde fantasie dei complottisti sui quantum dot e il controllo dell’umanità hanno smesso di farmi ridere e hanno iniziato a togliermi il sonno. Possiamo ancora permetterci di guardare alle nanotecnologie soltanto con uno sguardo tecnico? Quali sono i rischi di affrontarle senza gli strumenti teorici, linguistici e culturali di cui abbiamo così urgentemente bisogno? Quali sono gli effetti di una cattiva comunicazione delle nanotecnologie? E, soprattutto: siamo davvero sicuri che si tratti soltanto di cattiva comunicazione e non di cattiva epistemologia?
La produzione e commercializzazione dei primi vaccini anti COVID-19 a m-RNA ha rappresentato la prima occasione in cui un prodotto delle nanotecnologie è stato diffuso su scala globale.
Mi sono convinta che proprio il quantum dot, lo strano ibrido materiale-elettronico che popola gli incubi dei cospirazionisti, possa trasformarsi in un prezioso alleato per trovare qualche risposta alle mie angosce. Se dovessi presentarvi la sua identità culturale in poche parole, vi direi che tra tutti gli oggetti prodotti dalle nanotecnologie il quantum dot è quello che più di tutti si è collocato lungo il confine problematico tra materia e informazione. Alla sua origine, come spesso accade quando si tratta di innovazioni tecnologiche, il concetto di quantum dot abitava una zona confusa tra scienza e fantascienza, realtà e immaginazione.
Tra i primi promotori entusiastici di questa tecnologia, non a caso, si annovera lo scrittore di fantascienza americano Wil McCarthy, che nel 2003 pubblicò un saggio dedicato ai quantum dot intitolato Hacking Matter con il sottotitolo “sedie levitanti, miraggi quantici e l’infinita weirdness degli atomi programmabili”. Secondo l’autore, la creazione di atomi artificiali attraverso la tecnologia dei quantum dot, dotati di qualsiasi proprietà immaginabile e capaci di trasmutarsi istantaneamente gli uni negli altri, avrebbe finalmente permesso all’ingegno umano di emanciparsi completamente dalla tirannia della materia, realizzando quella che lui stesso aveva definito, in un articolo del 2001 pubblicato su Wired, alchimia definitiva. Nelle parole di McCarthy, “ci potrebbe essere una sostanza veramente programmabile nel nostro futuro, capace di cambiare le sue proprietà fisiche e chimiche apparenti con la stessa facilità con cui lo schermo di una TV cambia colore. Piombo in oro baby, on demand. Chiamatela materia programmabile”.
L’angoscia nei confronti dell’idea di materia programmabile evidenzia una tensione irrisolta al cuore dei processi tecnologici in cui siamo immersi.
La lettura dei sogni alchemici di McCarthy nel cuore di questa terza ondata pandemica mi ha ricordato un articolo comparso su Internazionale poco meno di un anno fa e firmato da Paul Preciado, filosofo e attivista transfemminista, da sempre molto familiare con l’impatto delle tecnologie farmacologiche sulla relazione complessa tra materia e linguaggio. La trasformazione degli individui in materia programmabile attraverso processi nanotecnologici di dematerializzazione, infatti, costituisce il cuore della riflessione di Preciado, che ci ricorda come i nostri corpi, attraverso l’esperienza della pandemia, “non sono più regolati solo dal loro passaggio attraverso istituzioni disciplinari (scuola, fabbrica, caserma, ospedale) ma soprattutto da una serie di tecnologie biomolecolari che entrano nel corpo con microprotesi e tecnologie di sorveglianza digitale”.
In questo contesto, evidenzia Preciado, ci troviamo sempre più partecipi di quelle politiche di confine che prima erano esercitate soltanto sui soggetti marginalizzati e che, attraverso la pandemia, abbiamo iniziato a sperimentare direttamente sui nostri corpi. Il confine di cui parla Preciado non è (soltanto) il confine geopolitico: è anche il confine tra le nostre mura domestiche e il mondo esterno, il confine tra i nostri polpastrelli e il touch-screen dello smartphone, il confine tra le membrane delle nostre cellule e le nanoparticelle del virus. Ci riscopriamo, improvvisamente, fatti di sole superfici: molto più evanescenti e permeabili di quanto avessimo previsto.
Credo che sia superfluo specificare che il materiale alchemico sognato da McCarthy all’alba del nuovo millennio non è mai stato inventato, e che non è possibile controllare le proprietà fisico-chimiche dei quantum dot con uno smartphone attraverso l’entanglement quantistico. Per nostra fortuna, non soltanto la materia dei nostri corpi, ma anche quella con cui costruiamo le nostre tecnologie è ancora dotata di una grande autonomia rispetto ai flussi di dati che la attraversano; questo non significa tuttavia che il problema della virtualizzazione sia meno preoccupante o meno reale. In un senso più profondo, l’entusiasmo e l’angoscia nei confronti dell’idea di materia programmabile evidenziano una tensione irrisolta al cuore dei processi tecnologici in cui siamo immersi: dalla prospettiva delle nanotecnologie, il problema epistemologico più urgente riguarda proprio l’interfaccia tra materia e linguaggio, che l’esperienza della pandemia ha spostato sempre più in prossimità dei nostri corpi. Anche se in modo molto meno ingenuo di quanto suggerito dalle fantasie cospirative, tecnologie come i quantum dot nascono e si sviluppano in ambito biomedico per costruire una relazione produttiva tra le strutture materiali e quelle virtuali; la lotta al virus dentro al nostro organismo è un conflitto a base di stringhe di informazione genetica mediate da organizzazioni macromolecolari complesse. L’entanglement di cui dobbiamo iniziare a preoccuparci non è quello tra i vaccini e lo smartphone di Bill Gates, ma quello tra corpi e informazione.
La “sfiducia nella scienza” oggi dà spazio a molte delle domande fondamentali a cui non soltanto la scienza ha smesso di rispondere, ma che ha semplicemente trascurato di porsi.
Forse dovremmo riuscire ad ammettere che le fantasie di complotto hanno la capacità di confrontarsi con la specificità delle nostre tecnologie con più coraggio della cultura ufficiale, inclusa quella scientifica: se non iniziamo a farci le domande giuste, ci sarà sempre qualcuno che le farà al posto nostro e troverà, più o meno legittimamente, altre risposte. Quella che siamo così frettolosi a etichettare come “sfiducia nella scienza” contiene molto spesso il seme, per quanto poco sviluppato o male espresso, di molte delle domande fondamentali a cui non soltanto la scienza ha smesso di rispondere, ma che ha semplicemente trascurato di porsi.
Una buona comunicazione scientifica, allora, non è tanto una comunicazione cristallina del semplice contenuto tecnico, quanto piuttosto una riflessione politica e filosofica sulle relazioni che le nuove tecnologie intessono con noi. Esiste un rischio che la tecnologia trasformi i nostri corpi in materia programmabile? Siamo certi che la storia delle nostre tecnologie non nasconda le tracce di un’ambizione mai risolta di controllare la materia attraverso l’informazione? In che modo, quindi, possiamo fare di meglio? Qualsiasi risposta a queste domande dovrà passare attraverso un confronto diretto con la complessità dei processi tecnologici e dei loro significati politici e culturali. L’unica cosa di cui sono assolutamente certa è che quella che chiamiamo sfiducia nella scienza è sintomatica di una ferita profonda nella relazione dei corpi con le tecnologie; una ferita che l’esperienza della pandemia ha illuminato, e che richiede urgentemente tutta la nostra attenzione e tutta la nostra cura.