D ove, come e perché sia stato concepito il nome Big Bang, e che percorso abbia compiuto da quando è stato coniato a oggi, sono informazioni che tutti gli appassionati e i semplici curiosi possono raggiungere con poco sforzo. Ci sono i racconti di grandi divulgatori o le parole che hanno scritto gli storici, a cominciare dal lavoro firmato dal danese Helge Kragh, “Naming the big bang” (depositato anche su arXiv e, in una versione condensata, su Astronomy & Geophysics) o quello di Emilio Elizaide (a sua volta disponibile su arXiv). Scriverne ora, dunque, potrebbe avere poco senso, e da scoprire rimane ben poco se al materiale disponibile aggiungiamo anche il prossimo libro di Paul Halpern, Flashes of Creation, e la biografia dell’astronomo Fred Hoyle, ritenuto il coniatore del termine.
Un paio di dettagli, però, meritano di essere riconsiderati, e per pesarne l’importanza non si può che iniziare proprio da Hoyle, e dal momento in cui pronunciò per la prima volta quelle celebri due parole, Big Bang: accadde alle 18 e 30 del 28 marzo 1949, sul Terzo programma della BBC, canale radio frequentato da moltissimi professori (e, di conseguenza, pochissimi ascoltatori).
Il trentaquattrenne docente del St John’s College di Cambridge era lì per celebrare le meraviglie del suo nuovo modello di Universo “stazionario” (poi rivelatosi in disaccordo con le osservazioni, ma secondo il quale le proprietà su larga scala dell’universo sarebbero uguali a ogni istante e l’espansione sarebbe compensata dalla continua creazione di materia; la teoria era opera di Hoyle, dell’anno prima, e, allo stesso tempo ma in separata sede, di Hermann Bondi e Thomas Gold). Alla BBC Hoyle aveva affermato deciso:
Le teorie del passato sono basate sull’ipotesi che tutta la materia dell’universo sia stata creata con un big bang in un preciso istante del passato remoto (…) Questa ipotesi è un processo irrazionale che non può essere descritto in termini scientifici.
Hoyle non lo aveva detto ma nella sua mente ronzava soprattutto il lavoro del fisico e sacerdote George Lemaitre che nel 1931 aveva descritto l’inizio dello spazio e del tempo come uno “spettacolo di fuochi d’artificio” di cui in un lontano futuro sarebbero rimasti solo “cenere e fumo”. La “sensazionale teoria del famoso abate” era persino finita su Popular Science dove, nel dicembre 1932, i lettori avevano potuto scoprire come “l’esplosione (blast) di un atomo gigante ha creato il nostro universo”. “Un potente inizio”, lo avrebbe poi chiamato Pio XII nel 1951, “quel primordiale Fiat lux, allorché dal nulla proruppe con la materia un mare di luce e di radiazioni, mentre le particelle degli elementi chimici si scissero e si riunirono in milioni di galassie”.
Lo scetticismo di Hoyle non era nulla di nuovo. Sir Arthur Eddington, astrofisico, già nel 1927, giudicando l’inizio dei tempi predicato dai Teologi un’ipotesi bizzarra, una maldestra prova dell’intervento di un Creatore, era stato altrettanto netto: “In quanto scienziato, semplicemente non credo che l’Universo possa essere iniziato con un bang”. E proprio Eddington, nel 1931, aveva definito “filosoficamente ripugnante” l’idea che la storia del mondo fosse già tutta stabilita all’inizio dei tempi, guadagnando l’immediata replica di Lemaitre: quand’anche lo fosse stata, il suo racconto poteva essere scritto passo dopo passo. Insomma, a quei tempi, la natura della disputa non poteva ancora definirsi, in tutti i suoi aspetti, propriamente scientifica.
La trasmissione della BBC venne riversata su carta i primi giorni di aprile 1949, tra le pagine della rivista The Listener, e mandata in replica sullo stesso canale alle 21 e 35 del 10 aprile. L’anno successivo, sempre per il terzo programma della BBC, Hoyle registrò una serie di cinque “lezioni popolari” sulla Nuova Cosmologia dal titolo “La natura dell’Universo” che diventarono immediatamente un libro con lo stesso titolo che – raccontano – rischiò di provocare un infarto all’Arcivescovo di Canterbury (e dove il Big Bang venne citato due volte). Nell’estate dello stesso anno, a partire dal 26 luglio, venne infine messa in onda una nuova edizione, riveduta e corretta, sempre sulla BBC ma sul meno elitario Home Service. Questa volta il successo fu imponente e i tre milioni di persone all’ascolto spinsero le vendite del libro alle stelle, rendendo Hoyle uno degli scienziati più popolari del Paese. Il libro venne recensito ovunque. Il geologo Kirtley F. Mather lo fece, forse per primo, su Science nell’aprile del 1951, segnalando esplicitamente l’antipatia di Hoyle per il “Big Bang”. Il New York Times ne parlò a maggio e giugno dello stesso anno e a luglio Popular Science lo commentò pubblicandone un capitolo. Non si trattava di una cosa che non aveva notato nessuno, insomma.
Le riviste in cui se ne scriveva di più eran quelle dei filosofi ed è proprio in una di queste, la Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, che apparve la recensione più curiosa. La firmò, nel numero di maggio-giugno del 1952, Agostino Coccio, allievo del sacerdote e filosofo Amato Mansovo, e l’inizio era tutto un programma: “È possibile la discussione tra un fisico e un filosofo? Certo, meglio sarebbe che ciascuno… bazzicasse coi pari suoi!” Per Coccio la Cosmologia era roba per filosofi e teologi, non fisica com’era per Hoyle, e dunque si facesse gli affari propri. Quando Coccio cita per la prima volta il Big Bang lo traduce come “colpo di tamburo” e poi scrive:
Certo, diremo anche noi, è stranissima creazione a… big bang o colpo di bacchetta magica, che in un istante apparire tutto il materiale dell’universo, e poi si tace per sempre, non avendo più nulla da fare […] Una cosa però è bene ch’egli sappia: in filosofia, in metafisica (e quindi in religione, in teologia) la creazione è altra cosa, e non è quel “big bang” che pensa lui, assolutamente.
L’anno in cui il termine apparve per la prima volta in un articolo scientifico fu il 1957. Lo scrisse William A. Fowler e lo pubblicò la rivista The Scientific Monthly. Fowler era un fisico nucleare e astrofisico statunitense che dal 1954 aveva iniziato a collaborare con Hoyle alle ricerche nel campo delle reazioni nucleari che sono all’origine della formazione degli elementi chimici nell’Universo e che proprio nel 1957 aveva firmato con Hoyle e i coniugi Burbidge quello che è noto come “B2FH paper” (il cui vero titolo è “Synthesis of the Elements in Stars”), un lavoro che lo porterà al Nobel per la fisica nel 1983, lo stesso anno di Subrahmanyan Chandrasekhar.
Beh, Fowler, col “Big Bang” ci si era fissato un bel po’. La prima traccia di questa fascinazione risale al 1955, al 3 Novembre per la precisione, quando sul San Bernardino Sun apparve un articolo a firma Graham Berry che aveva per titolo “‘Big Bang’ Theory Concerning Start of Universe Challenge”. Il giornalista riferiva che Jesse L. Greenstein, astrofisico, e William A. Fowler, appunto, stavano sviluppando una teoria basata sull’evoluzione degli elementi, dal semplice idrogeno al complesso e più pesante degli elementi e che questa cosa aveva molto a che fare con la teoria del Big Bang, quella che spiegava “come l’universo si è formato da un’esplosione cosmica 4 miliardi e mezzo di anni fa”. Undici giorni dopo ne scrisse quasi allo stesso modo Time in un articolo dal titolo “In the beginning, H”. Un anno più tardi invece, il 1 September 1956, lo stesso Fowler citò il grande botto su Scientific American (in “The Origin of the Elements“) ma ne legò il nome anche a quello di George Gamow, fisico russo emigrato negli Stati Uniti e dalla vicenda umana e scientifica non proprio banali, creando un fraintendimento che dura fino ad oggi, visto che qualcuno lo ritiene il reale inventore del termine.
Gamow era uno degli autori del famoso articolo pubblicato il primo aprile del 1948, pure questo sull’origine degli elementi chimici, in cui aveva inserito d’ufficio la firma di Hans Bethe perché in mezzo agli altri due, Alpher e Gamow, mancava foneticamente qualcosa. Gamow era stato anche quello che per primo aveva citato il Papa (nel 1952 e proprio il Pio XII di cui abbiam già scritto) in un articolo scientifico e che, lo stesso anno, aveva spedito in libreria The creation of Universe, il libro in cui coniava il termine “big squeeze” per rappresentare il risultato del collasso di tutta la materia dell’universo in uno stato di gas estremamente caldo e compresso. Gamow ha sempre odiato il termine Big Bang, lo ha proprio detto:
Beh, non mi piace la parola “big bang”; non lo chiamo mai “big bang”, perché è una specie di cliché. Questo è stato inventato, credo, dai cosmologi dello stato stazionario – lo chiamano “big bang” e anche “palla di fuoco” ma non ha niente a che fare con esso – non è affatto una palla di fuoco.
Dunque fu certamente Fowler il primo e principale responsabile della diffusione del termine e ovunque, non Hoyle. A citarlo, a partire dal 1957, sarà soprattutto Scientific American (spesso nella rubrica “Science and the citizen”) e sedurrà, negli stessi anni, i giornalisti di Science News-Letter, il bollettino ufficiale di Science Service, prima agenzia di notizie scientifiche della storia, per venire infine sparato nei titoli dei quotidiani anglofoni. Il New York Times, per esempio, l’11 febbraio del 1961 avvertirà del suo ritorno (“’Big Bang’ theory of cosmos backed!”) e così farà cinque giorni dopo l’Herald Tribune titolando “The Big Bang Blues”. L’occasione più celebre è però quella del 21 Maggio 1965 quando, sempre sul NYT, per annunciare la scoperta dell’esistenza della radiazione cosmica di fondo a microonde, verrà dichiarato senza indugio “Signals Imply a ‘Big Bang’ Universe”. Un anno ancora e Stephen Hawking lo userà per il titolo di un suo articolo pubblicato su Nature e da lì verrà usato dappertutto e per sempre.
Probabilmente Fred Hoyle il sospetto che due parole così poco originali sarebbero diventate così popolari lo deve aver avuto. Fu il primo, in quel contesto, a metterle una accanto all’altra ma dopo il “misfatto” evitò il più possibile di citarle, dentro e fuori l’accademia. Nel 1994 la rivista Sky & Telescope bandirà una gara per sostituirle ma nessuna delle tredicimila e novantanove ipotesi alternative convincerà i giudici. Hoyle fu l’ultimo a sorprendersi: “Le parole sono come arpioni”, dirà un anno dopo a John Horgan, “una volta entrati, sono molto difficili da estrarre.”