Q uasi tutti noi presto o tardi siamo stati in uno zoo, da bambini o per portarci i nostri figli e nipoti. Li abbiamo sempre dati per scontati: gli zoo sono una delle nostre possibilità di svago, come i cinema, i musei e i parchi divertimento. Sono luoghi in cui si passa del tempo ammirando dal vivo animali che difficilmente si avrebbe occasione di vedere nei loro ambienti naturali. Tuttavia, se ci chiedessero “A cosa serve uno zoo?” sapremmo dare una risposta convincente?
A differenza dei musei, negli zoo ci sono esseri viventi e senzienti: ci sono animali che non sono liberi (anche se nei più moderni zoo sono in strutture meno brutali di piccole e disadorne gabbie). Negli zoo ci sono animali che non sono nel proprio ambiente e che, a differenza degli animali domestici (come i cani e le vacche, ad esempio), si sono evoluti lontano dall’essere umano e in libertà. Perché allora quegli animali stanno lì? Solo per il divertimento nostro e dei nostri figli nel fine settimana?
Sono pochi gli zoo che nel materiale pubblicitario rispondono direttamente a questa domanda. Navigando nei loro siti internet, oltre agli slogan che promettono divertimento ammiccando al fascino della natura selvaggia, si trovano però quasi sempre alcune parole chiave programmatiche, utili per capire la loro attuale auto-narrazione: “conservazione”, “ricerca” ed “educazione”. Seguendo anche la definizione Treccani, infatti, il giardino o parco zoologico (oppure ancora bioparco), in passato concepito “a scopo ludico come luogo dove osservare animali esotici e curiosi, ha assunto attualmente un significato educativo e scientifico, anche per la conservazione di specie a rischio”. Il divertimento, quindi, sembra oggi essere solo una ragione secondaria e accessoria. Gli zoo servono per conservare le specie a rischio, per fare ricerca e per educare i visitatori. Ma è davvero così?
Educazione e conservazione
Lasciamo per il momento da parte la ricerca (di cui diremo qualcosa alla fine) e vediamo le altre due motivazioni: conservazione ed educazione. Cominciamo dall’educazione: a cosa educa una visita allo zoo? Certo, negli zoo si vedono animali che altrimenti non si potrebbero incontrare, ma è davvero così importante l’incontro faccia a faccia con quegli animali quando oggi si hanno infinite opportunità di conoscerli tramite documentari naturalistici (e forse in futuro anche con esperienze immersive di realtà virtuale)? Nello zoo si vede l’animale dal vivo nei pochi metri quadri che gli sono assegnati, e arredati con una scenografia che dovrebbe ricordarne l’ambiente naturale. In un documentario invece si vede quello stesso animale nel luogo che la sua storia evolutiva gli ha assegnato, e lo si vede esibire tutto quel repertorio comportamentale che quella stessa storia evolutiva ha prodotto.
Se c’è una missione educativa prioritaria che riguarda le nostre relazioni con gli animali, questa ha a che fare proprio con la conoscenza degli animali come forme di vita differenti da noi, con i propri repertori comportamentali e le loro collocazioni ecologiche. Sicuramente queste cose si apprendono meglio vedendo l’animale vivere nella condizione che gli è propria piuttosto che in un recinto, magari informati da un pannello illustrativo o da una audioguida su cosa farebbe quell’animale, se solo fosse nell’ambiente che gli spetta. Se la missione è quella di fare conoscere la varietà della vita non umana e magari stimolarne il rispetto, forse il contesto della vita degli animali negli zoo non solo è poco educativa, ma anzi rischia di avere un effetto diseducativo.
Proprio il rispetto e la tutela degli animali rappresentano la seconda missione degli zoo, ovvero la conservazione. Gli animali rischiano di estinguersi e mantenere esemplari negli zoo, preservandone la varietà genetica, sarebbe un modo di assicurare la sopravvivenza di specie che in natura rischiano di andare perdute. Tralasciando il fatto che negli zoo ci sono moltissimi animali di specie non a rischio, ci si può chiedere quale sia la nozione di “conservazione” che dovrebbe giustificare il fatto di tenere animali selvatici dentro uno zoo. Questa nozione sembra essere quella che identifica la conservazione con l’Arca di Noè: raccogliamo esemplari di animali per preservarli dal disastro.
Tuttavia, se il buon Noè si dovette organizzare con un’arca per salvare se stesso e le povere bestie da un diluvio mandato da Dio, nel caso dell’estinzione delle specie cui gli zoo dovrebbero rimediare, i responsabili del “diluvio” siamo noi, gli esseri umani. Le catastrofi ecologiche e le erosioni degli ecosistemi che mettono a rischio la biodiversità sono quasi sempre effetto dell’attività umana. Non sarebbe allora più sensato occuparsi di tutelare gli ecosistemi piuttosto che stipare l’arca degli animali che in quegli ecosistemi non possono più vivere? Una volta che l’arca è riempita e gli ecosistemi sono perduti per sempre che ne facciamo di quegli animali? Che senso ha mantenere la biodiversità se l’unica opportunità di vita che questa ha è dentro una vetrina di un parco a pagamento? Certo, si può rispondere che intanto si preservano gli animali e poi si ripristineranno gli ecosistemi, ma si può anche dubitare che tutto possa andare così liscio.
Welfare zoologico
Nel cartone animato Madagascar, un gruppo di pinguini scappati dallo zoo arriva finalmente in Antartide solo per rimanere deluso dal proprio ambiente naturale e rimpiangere la vita confortevole e calda dalla quale provenivano. È uno sketch che può tornarci utile per riflettere su un’altra questione. Abbiamo visto che le basi teoriche che giustificano l’esistenza degli zoo sono, oggi, quantomeno fragili, ma possiamo almeno dire che se gli zoo funzionano bene, gli animali che si trovano al loro interno fanno una bella vita?
La gestione degli animali in uno zoo dipende dal compromesso di due variabili non sempre in equilibrio: il welfare delle singole specie e il fattore economico.
Se ci pensiamo bene, la gestione degli animali in uno zoo dipende dal compromesso di due variabili: il welfare delle singole specie e il fattore economico. Lo spazio disponibile, il cibo, il riscaldamento, le facilities, la pulizia, la sicurezza, le cure veterinarie, il tipo di esposizione dipendono esclusivamente da quanto costa e da quanto ci si guadagna nel tenere gli animali in un certo modo o in un altro. Non dimentichiamo che il grosso degli zoo, pubblici o privati che siano, sono gestiti spesso come imprese commerciali con un bilancio e un modello di business tale da ricavare un fatturato. In Europa diversi zoo sono associati alla European Association of Zoos and Aquaria (EAZA), che impone degli standard minimi di welfare sia dal punto di vista fisiologico che psicologico, “con un approccio scientifico multidisciplinare evidence-based”. Malgrado ciò, è tutt’altro che impossibile camminare uno zoo affiliato all’EAZA e notare come alcuni animali abbiano un comportamento stereotipato, o soffrano della presenza rumorosa del pubblico, o siano in spazi troppo ristretti. Negli zoo non associati all’EAZA, che quantomeno invia ispezioni periodiche, la situazione del welfare può essere ancora meno curata.
In alcuni casi, il compromesso tra il welfare e la gestione finanziaria perde a tal punto il suo equilibrio da fare notizia. Un esempio recente è quello delle otarie del Bioparco di Roma, affiliato all’EAZA. Le due otarie, acquisite dallo zoo nel 2018, non avevano uno spazio idoneo ed erano state sistemate provvisoriamente nella vasca delle foche. Erano stati quindi deliberati dei lavori per una nuova vasca, rallentati dalla chiusura e poi dallo scarso numero di visitatori a causa della Covid. All’inizio di dicembre 2020 il Comune di Roma ha stanziato un contributo straordinario di 2,6 milioni di euro, di cui parte dovrebbe servire per completare la vasca per le otarie. Il 14 dicembre il Consiglio di Amministrazione del Bioparco ha deciso invece all’improvviso di cedere le due otarie al parco marino Mediterraneo di Malta, una struttura privata, non EAZA, che, oltre alle “esibizioni” degli animali, organizza anche sessioni a pagamento che consentono ai visitatori di manipolare gli animali (in pratica quello che faceva Joe Exotic, noto anche come Tiger King, ma con le otarie invece dei tigrotti). Un business che sappiamo essere estremamente remunerativo e del tutto contrario a qualsivoglia logica di welfare degli animali. I motivi della decisione del CdA del bioparco non sono noti. Sappiamo però che uno dei consiglieri è l’amministratore del gruppo Costa Edutainment, che possiede anche il parco marino Mediterraneo. Il 18 Dicembre il presidente della fondazione Bioparco ha chiesto alle autorità comunali di Tutela Ambientale di opporsi a tale trasferimento. Il 2 gennaio il CdA ha ribadito la sua decisione. Il 16 febbraio la sindaca Virginia Raggi ha rimosso con una ordinanza sindacale 3 membri su 5 del CdA, lasciando solo Francesco Petretti e Nicola Costa. I nuovi nomi, non ancora confermati, sono quelli di due avvocati vicini al partito di Virginia Raggi e una giovane laureata in etologia, senza però alcuna esperienza né di gestione degli zoo né di gestione patrimoniale. Mentre la guerra delle otarie continuava, una leoncina è morta al Bioparco ed è saltato fuori un video che mostrava gravi comportamenti stereotipati e ripetitivi da stress in una delle due elefantesse.
Del resto è noto da molti anni che gli elefanti degli zoo vivono meno della metà degli elefanti africani allo stato libero, o anche degli elefanti indiani impiegati in Asia in lavori pesanti. Lo stress causato dal disgregamento familiare dei branchi e dalla carenza di spazio agisce presto nella vita di questi animali, che muoiono di malattie e obesità meno che ventenni, in media, contro i 56 anni medi degli elefanti liberi africani e i 42 degli elefanti in Asia.
È indubbio che qualunque sistema complesso può essere imperfetto, ed essere soggetto ad alterazioni delle prospettive che ci si erano ripromesse. Il problema si pone però quando il sistema imperfetto non solamente porta a sofferenze ingiustificate, ma perde di vista i propri obiettivi: se educazione e conservazione diventano una scusa per dare spazio al business o alla politica, se ci sono più tigri negli zoo privati americani (5-10.000) che libere in tutta l’Asia (circa 4.000), se non c’è modo di intervenire per proteggere il welfare degli animali e ridurne lo stress, se gli elefanti degli zoo muoiono giovanissimi e si continua a ignorare il problema, se non esiste più l’habitat delle specie estinte in natura, se per esibire alcune specie ci si dimentica delle altre, magari più piccole e insignificanti (come il pidocchio del condor delle ande, fatto estinguere in uno zoo durante la disinfestazione degli ultimi condor), la domanda torna sempre al punto di partenza: a cosa servono gli zoo?
Da quanto abbiamo visto l’educazione e la conservazione sono compiti che gli zoo perseguono basandosi su idee discutibili. Inoltre, nell’assolvere questi compiti spesso molti degli animali negli zoo vivono in condizioni di benessere poco o per nulla accettabili. Di fronte a questa situazione, poi, la politica, almeno in Italia, non dà grande prova di lungimiranza. Che fare dunque?
Gli animali nel dibattito pubblico
Nel dibattito pubblico della condizione degli animali e delle nostre relazioni con essi si parla poco e male. Gli animali sono un’emergenza da combattere (emergenza quasi sempre inventata, come nel caso di lupi o orsi), oppure sono casi di scontro ideologico come quasi sempre accade sul tema della sperimentazione. Di alcuni animali si parla poco e male e di altri, come quelli negli zoo, non si parla per niente.
È ora di avviare un dibattito pubblico aperto e informato sugli zoo, che coinvolga la comunità scientifica e che possa immaginare anche soluzioni alternative.
Sarebbe forse il caso, allora, di avviare un dibattito pubblico aperto e informato sugli zoo e su quanto accade in essi. In questo dibattito andrebbe coinvolta in modo significativo la comunità scientifica (ovvero studiose e studiosi qualificati) per una valutazione della reale sostenibilità della vita negli zoo per gli animali e per la proposta di reali alternative alle missioni di educazione e conservazione che gli zoo assolvono in modi così discutibili. Inoltre, la comunità scientifica dovrebbe essere sollecitata a dare una valutazione attendibile e oggettiva sulla terza missione degli zoo, ovvero quella della ricerca.
Gli zoo sono davvero luoghi dove si può fare buona ricerca sugli animali, oppure se ne potrebbe fare di migliore (e più rispettosa del benessere animale) se, in prospettiva, quegli animali che non possono essere rimessi in natura venissero collocati in santuari accessibili agli umani solo a scopo di ricerca?
Questo dibattito non riguarda, ovviamente, solo la comunità scientifica, ma dovrebbe coinvolgere la società nel suo complesso e la politica nelle sue funzioni più “alte”. In un contesto democratico, infatti, non possiamo pensare che siano solo gli esperti ad avere voce in capitolo (per quanto ogni decisione debba essere presa su basi scientificamente attendibili). È una caratteristica della vita democratica dei nostri giorni quella di essere attraversata anche da movimenti di opinione che vorrebbero ripensare le nostre relazioni con gli animali e dare ad essi sempre maggiori tutele e protezioni. Gli animali sono un tema politico e la politica se ne dovrebbe interessare seriamente, smettendo di farne merce di scambio, come già accade con i circhi, la caccia, la fauna selvatica.