L e madri ti rovinano la vita pure quando te la salvano.
L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito si apre con una scena che ricorda, anzi vivifica, questa verità. È il rovesciamento di un’immagine che continua a conservare un certo rigore icastico: quella della madre coraggio. L’eroismo di queste madri – figure che attraversano il cinema e la letteratura da sempre, finendo nella collezione di santini femminili – è un miscuglio di ostinazione e fede nel bene, soprattutto di quel bene che dovrebbe coincidere con il riscatto dei loro figli.
Caminito si mette allora dalla parte dei figli, nel suo caso in particolare di una figlia, la voce narrante del romanzo. All’ammirazione che di solito è riservata dal pubblico alle madri coraggio, Caminito sostituisce l’intima inclemenza di un pubblico più viscerale che per anni ha dovuto subire quel coraggio come una minaccia, un’oppressione alla propria identità.
Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia, una donna con i capelli rossi che entra in una stanza e ha addosso un completo di lino.
Sono queste le prime righe del libro, la donna in questione è Antonia, la madre della protagonista. Da lì parte un lungo incipit che si conclude alcune pagine dopo con questa frase:
E io è come se fossi lì, in piedi, a guardarla dall’angolo della stanza, la giudico e non la perdono.
Il lungo incipit descrive Antonia alle prese con un ufficio dell’ATER. Gli impiegati dell’ufficio sono un’unica forza di burocratica ottusità, un coro greco malmostoso che ha deciso di sfidare l’eroina. Antonia non ha un appuntamento quel giorno. Si siede a terra come forma di protesta (sua figlia è presente) finché non “la alzano e la spostano di peso, la sollevano per braccia e gambe e allora la camicetta si apre e mostra un reggiseno senza ferretto, seni gonfi, la gonna si strappa e spuntano le sue mutande, mia madre ha già fatto a brandelli il vestito buono e scalcia e grida, come fiera spietata”.
Lo stoicismo di Antonia è ciò che la figlia giudica e non perdona.
Spesso quando a uno scrittore o a una scrittrice riesce particolarmente bene una scena, si proietta quella scena nel proprio cinematografo mentale come ad attestarne il buon esito: sembra di vedere un film. La scena inziale di Caminito è una bellissima scena letteraria che non ha bisogno di autolegittimarsi con la seduzione di un’ipotetica macchina da presa. Tutta la scrittura di Caminito è costruita intorno a una sorta di ossimoro: è fluidità densa, in grado di rendere vivide ma ambigue le immagini. Uno stilema che ricorre spesso è la trasformazione di singoli sostantivi che potrebbero essere determinati in sostanze universali (“Sentirsi ingombro”, “farne accusa”, “trovare flagello”, “come biscia al sole”, “come roditore o blatta”).
Al nitore del neorealismo – a cui potrebbe essere associata per i temi – sostituisce l’opacità dell’inconscio, è come vedere al tempo stesso troppo e troppo poco, sfilare alla povertà il suo appeal di fotogenia drammatica.
Anni fa lavoravo per un programma che si sarebbe dovuto occupare di “tematiche sociali” e una delle puntate era sul disagio abitativo a Roma. Il giornalista e conduttore non aveva idea di cosa fosse l’ATER, non era mai stato in un’occupazione, non ne sapeva nulla dei movimenti di lotta per la casa. La sua idea era di descrivere “l’inferno” di quella gente (quale gente?) come fosse un girone dantesco. Il girone dantesco è ovviamente diventato metafora di qualsiasi cosa, e proprio per questo non serve a granché se non a evocare un grado barocco di sofferenza. Dal punto di vista filmico ci teneva che si vedessero dei ratti e molti “disgraziati” che piangevano.
Presentare nelle prime pagine di un romanzo un ufficio dell’ATER per me è una scelta politica. È dire che il girone dantesco è una brutta metafora e che l’oppressione è fatta di burocrazia, di cavilli, di volontarie incomprensioni e abusi di potere. Caminito ci porta dentro la storia, fin dalle prime pagine, con una violenza quasi irritante, e per questo effettiva: l’ingombro di quella creatura seduta sul pavimento (“questo tronco di donna”) ci resta addosso nella sua funzione, un intralcio, una dissonanza visiva. Possiamo rimuoverlo, ma al suo posto resterà comunque un pieno. L’intero libro di Caminito è percorso da un tipo di violenza simile: costante, ansiogena, molesta. Non vedremo ratti e disgraziati che piangono, ma persone che occultano il proprio disagio provocandone altro, appaltandolo a chi da quel disagio non è mai stato investito.
Al centro del romanzo c’è la vita di una famiglia povera, il margine della propria condizione è filtrato dallo sguardo della protagonista – Gaia – la figlia, il contraltare emotivo di madre coraggio. Il suo nome viene rivelato molto tardi nel libro portandosi dentro tutto lo stridore del suo personaggio. Gaia è una ragazzina che non sa cosa sia la felicità ma che non se l’è mai posta come obiettivo. Anzi, sembra suggerire Caminito, l’idea che esista una felicità come forma di riscatto è funzionale al sistema che produce un’infelicità materiale. E probabilmente è funzionale anche all’eroismo delle madri coraggio come Antonia, che non sanno ammettere di lottare principalmente per se stesse e postulano la felicità dei figli come bene superiore.
Gaia prende direttamente dal dizionario il significato di coraggio: (un dizionario che arriva da un consiglio altrettanto violento: “Dice che ha chiesto alla signora Festa, a cui pulisce la casa, quale avrebbe potuto essere un dono per una ragazza che legge, e lei con meticolosa ferocia, le ha risposto: un dizionario”).
“coràggio . m. [dal provenz. coratge, fr. ant. corage, che è il lat. *coratĭcum, der. di cor “cuore”]
Ha a che fare col cuore, con quanto cuore metti e quanto lo butti lontano, con il sangue pompato, le arterie, le vene, i battiti, il flusso, il movimento d’animo, la pressione e lo sbalzo di volontà. E io non sono un’appassionata di cuori, disegnarli, mimarli con le dita, colorarli a margine, vederli in cartoleria a febbraio, trovarli stampati su tessuti e pantofole, i cuori, rosa, rossi, li uso solo quando devo fingere”.
Per Gaia fingere deliberatamente è un altro atto di sovversione nei confronti della madre:
So soltanto che della nostra infanzia bisogna tacere i dettagli, di nostro padre diciamo che è invalido e non altro, sulla casa diciamo che ci abitiamo e non altro. Non è fingere e non è mentire, è omettere.
L’adolescenza per Gaia vedrà incarnarsi quel principio di omissione nei suoi rapporti più stretti. Si può tradire ed essere traditi omettendo i dettagli. Il punto è che i dettagli sono esattamente ciò che determina la distanza tra Gaia e i suoi coetanei. In una società costruita sul consumismo, sono i particolari, l’accumulo di beni (i cuori in cartoleria a febbraio) a generare la propria identità.
Quando siamo andate dal cartolaio per comprare la cancelleria necessaria ho provato a proporre a mia madre una Smemoranda nera e lei ha guardato il prezzo e m’ha detto che con due quaderni di piccole dimensioni ce lo saremmo fatte da sole il diario, come ogni anno. Bastava dividere la pagina a metà, scrivere il numero e il giorno, lasciare le righe per i compiti.
Ed ecco di nuovo il rovesciamento di un neorealismo affettivo. Gaia non imparerà ad amare quei due quaderni riconvertiti a diario, non accadrà il miracolo benevolo di una deprivazione che si trasforma attraverso la fantasia in un bene prezioso. Non c’è nulla di prezioso nella sua vita. E la sua stessa famiglia – i legami di sangue – si convertono in un ingombro violento come quel tronchetto di donna in un ufficio dell’ATER.
Invitare qualcuno a casa mia vuol dire, senza scampo, esporlo alla conoscenza di chi divide con me un legame di sangue.
L’acqua del lago non è mai dolce non è una storia di riscatto. Non ti salva l’amore, non ti salva lo studio (Gaia si iscrive a filosofia “Era troppo semplice iscriversi a lingue, a lettere, a scienze politiche, bisognava trovare flagello, eccedere, pescare dal mare il pesce con più spine e ingoiarlo a bocca aperta”). È un romanzo che al contrario mette in crisi il concetto stesso di riscatto. E lo fa in una maniera splendida.
Io sono diventata la figlia a carico che non produce, non moltiplica, non incassa, non cucina e non ha tesori o dispense, la figlia mai cacciata e mai tornata, la statua di sale che a tutti tocca vedere all’ora di cena, eppure vorrei interrogare mia madre, chiederle cosa dovrei fare, perché lei ha sempre trovato soluzioni sul da farsi, sul mettersi in moto e risolvere, mentre io ho solo preso armi e carrarmati e ho attaccato altrui barricate, il suo agire è progetto, il mio agire è guerra, nel primo caso l’obiettivo è noto, nel secondo ciò che si sa è solo che conviene distruggere prima che siano gli altri a pensarci.