D ici energia e capiscono tutti a cosa ti riferisci, anche se darne una descrizione soddisfacente rimane un’impresa. Dalla fisica sappiamo che la materia è energia in stato di riposo, che l’energia si manifesta in forme diverse, e che una forma può mutare nell’altra in processi talvolta macroscopici e incessanti, talaltra contingenti e fugaci. Più in là non ci spingiamo. Eppure dell’energia ci serviamo davvero per fare di tutto: la sfruttiamo per nutrirci e compiere lavoro, per sprigionare forze e luce e calore, per fabbricare gli oggetti e metterli in movimento.
Nel suo Energia e civiltà. Una storia (Hoepli, 2021), Václav Smil la definisce l’unica vera moneta universale: “per fare qualsiasi cosa, una delle sue tante forme deve cambiare, subire una trasformazione”. La società potrebbe anche funzionare senza denaro, ma senza energia assolutamente no. E sono proprio le trasformazioni dell’energia ad avere plasmato la storia dell’umanità più di ogni altra cosa, più delle pandemie, delle rivoluzioni e delle ideologie. Più delle guerre, anche, che è l’energia stessa ad alimentare, decidere, e molto spesso motivare.
Smil è professore emerito di geografia e storia dell’ambiente all’Università di Manitoba, in Canada, e divulgatore. Come scrittore è prolifico: in carriera ha dato alle stampe oltre quaranta saggi densi e ambiziosi, uno ogni otto-nove mesi circa (una media di cinquecento parole al giorno). Alcuni dei suoi libri più recenti sono stati poi consigliati da Bill Gates, e per questo sono diventati anche dei casi editoriali di successo, negli Stati Uniti. Per qualcuno l’incredibile facilità di scrittura e le buone vendite, con la benedizione di Gates, potrebbero magari essere ragioni sufficienti per dubitare della serietà scientifica di un autore. Ma non bisogna farsi trarre in inganno: Smil è uno studioso stacanovista e sinceramente alieno a ogni gioco di potere (vive da anacoreta in una piccola casa coibentata, senza cellulare, legge un centinaio di libri all’anno e guida una modesta Honda Civic in una nazione di SUV).
La società potrebbe anche funzionare senza denaro, ma senza energia assolutamente no.
Si definisce uno scienziato fuori moda, per certi versi retrivo, uno che ha iniziato a occuparsi di cambiamenti climatici in tempi non sospetti, nel 1972, quando venne pubblicato il suo primo studio sulla materia. Energia e civiltà è un condensato delle ricerche di una vita sulle transizioni energetiche passate e future che riprende, aggiorna e approfondisce molte delle argomentazioni già presentate nel precedente Energy in World History (Westview, 1994). Il libro esce in Italia a poche settimane di distanza dalla traduzione di un altro suo successo – I numeri non mentono. Brevi storie per capire il mondo (Einaudi, 2021) – e come quello è un buon viatico per avvicinare il lavoro di questo storico materialista cresciuto in Cecoslovacchia ai tempi del blocco sovietico, incline a interessarsi di cemento, container, automobili, oleodotti e altri “temi minori” che letterati e intellettuali sono soliti bistrattare.
In Energia e civiltà Smil compila una storia dell’umanità scandendola in “ere energetiche”, con l’obiettivo di offrire una comprensione sistemica dell’energia, dei suoi sviluppi, del suo impatto sulla società e sull’ambiente. A suo modo di vedere è bizzarro che, di norma, gli storici non considerino l’energia quale fattore esplicativo determinante nelle loro analisi, quando in realtà:
Sia l’evoluzione umana nella preistoria sia il corso della storia possono essere visti come una continua ricerca di modi per controllare depositi e flussi di energia in forme sempre più concentrate e versatili, allo scopo di convertirle, in modalità sempre più convenienti, a costi più bassi e con maggiore efficienza, in calore, luce e movimento.
Tra energia e vita organica sussiste infatti un nesso inscindibile, adamantino, e così anche tra energia e società. Se poi ci si ferma all’economia quel nesso diventa addirittura tautologico:
Ogni attività economica, di fatto, non è altro che una trasformazione di un tipo di energia in un altro, e il denaro è semplicemente un modo conveniente (e spesso neppure così rappresentativo) per dare un valore ai flussi di energia.
“Flussi” e “depositi” sono concetti chiave, quando si discetta di energia: ogni essere vivente impiega gran parte del suo tempo a procurarsela dall’ambiente nell’una o nell’altra forma, e in questo le piante sono in assoluto le più efficienti perché convertono direttamente l’energia solare, il flusso. Gli animali dipendono principalmente dai depositi – altra biomassa animale o vegetale – ma non solo: correnti d’acqua, d’aria e di calore sono sempre state utili a molte specie, umani compresi. Venendo subito a noi, dice Smil che:
I progressi della civiltà possono essere interpretati come la ricerca di un maggiore uso di energia, necessaria per produrre maggiori quantità di cibo, per mobilitare una maggiore produzione e varietà di materiali, per produrre un numero maggiore e più diversificato di beni, per consentire una maggiore mobilità e per dare accesso a una quantità virtualmente illimitata di informazioni.
Rileggere lo sviluppo sociale usando l’energia e le sue trasformazioni come chiave di lettura è una proposta analitica che potrebbe tradire un certo determinismo riduzionista e teleologico, ma che nella dettagliata ricostruzione di Smil appare auspicabile e persino convincente.
Quella della civiltà può dunque essere descritta come la storia della nostra crescente capacità di raccogliere e sfruttare l’energia dall’ambiente, e di farlo in maniera sempre più efficace, intensiva, con il minor sforzo umano possibile. Da questo “compromesso di sussistenza” – ottenere di più, con meno – è dipesa tanto l’evoluzione naturale della nostra specie quanto quella culturale, e gli esempi a conferma di questa ipotesi si sprecano. Muoversi in posizione eretta, ad esempio, costava ai nostri primi antenati bipedi circa il 75% in meno di energia rispetto alla camminata su due o quattro zampe degli scimpanzé. La regolazione della temperatura corporea tramite sudorazione degli esseri umani è poi tra le più efficienti del regno animale, e questo permetteva ai nostri antenati di inseguire le prede fino a sfinirle. A essere cacciati erano preferibilmente animali di grossa taglia o radunati in branchi, ovvero maggiori depositi di energia chimica disponibile sotto forma di cibo. Ancora più efficaci dal punto di vista energetico si rivelarono essere la custodia delle prede (allevamento) e la raccolta pianificata delle sementi (agricoltura).
Ogni innovazione successiva in queste due attività – e Smil non lesina minuzie sull’impiego dei fertilizzanti e del lavoro animale, sull’aratro, la ferratura dei cavalli, le tecniche di canalizzazione e irrigazione, la macchinizzazione dell’agricoltura, l’ibridazione delle specie domestiche… – non è che un tentativo riuscito di aumentare la resa di raccolti e allevamenti. I sistemi più efficaci si sono diffusi in ogni nicchia ambientale utile, quelli improduttivi sono invece stati abbandonati nel processo di selezione evolutiva delle innovazioni tecniche. È una tesi, questa, molto vicina al concetto di “design intelligente” formulato dal filosofo della scienza Daniel Dennet nel suo Dai batteri a Bach. Come evolve la mente (Raffaello Cortina, 2018): l’evoluzione per selezione naturale della cultura come un lungo processo costellato di prove, fallimenti, miglioramenti progettuali e tecnologici per ottenere il massimo dall’ambiente, in primis il massimo di energia.
Si potrebbe credere allora che a determinare le transizioni energetiche del passato sia stata soprattutto la scoperta di fonti via via più efficienti, quando in realtà è la loro efficacia (o potenza) il fattore davvero determinante. Si pensi di nuovo all’agricoltura: rispetto a un secolo fa, uno stesso appezzamento di terreno produce oggi dieci volte più cibo ma consuma novanta volte più energia tra macchine agricole, irrigazione, fertilizzanti e tutto il resto. L’efficacia da sola però non basta quasi mai, e in molte circostanze storiche ad affermarsi sono state le alternative energetiche più versatili, sicure, facili da controllare. Per tornare all’esempio dell’agricoltura, l’impiego della forza animale raggiunse il limite a inizio Novecento, in California, con gli attrezzi agricoli trainati da 40 cavalli contemporaneamente al giogo: mantenere un numero così alto di animali da lavoro, combinare e coordinare i loro sforzi divenne un’impresa insostenibile, ragion per cui le innovazioni successive non poterono che giungere dai motori meccanici.
Per smentire l’apparente linearità e “necessarietà” dello sviluppo energetico, Smil racconta le vicende di alcune fonti e loro convertitori che si imposero nella storia solo temporaneamente, o a seguito di lunghi periodi di marginalità e latenza. I mulini ad acqua e quelli a vento, ad esempio, furono inventati nei tempi antichi ma si diffusero solo dopo molti secoli. Così anche il petrolio, che è stato raccolto e utilizzato per millenni in quantità esigue prima di diventare il combustibile fossile prediletto in epoca moderna. L’effetto fotovoltaico fu scoperto addirittura nel 1839 e le prime celle solari al silicio prodotte già nel 1954, ma l’adozione di massa dei pannelli solari è un fatto quanto mai recente e tuttora da compiersi. Il caso del motore a vapore è forse il più emblematico: che si potesse usare il fuoco per muovere rapidamente e senza fatica gli oggetti era noto sin dai tempi dell’invenzione della polvere da sparo, eppure ci volle quasi un millennio per vedere un prototipo di pompa a vapore e almeno un altro secolo prima che i motori termici fossero applicati con successo all’industria e ai trasporti.
In alcuni casi gli sviluppi nel controllo dell’energia sono stati brucianti – Edison accese la prima lampadina durevole nel 1879, quattro anni dopo una sola centrale termoelettrica negli Stati Uniti dava energia a 11 000 lampadine a uso domestico – mentre in altri ancora hanno preso direzioni impreviste, spesso indesiderate. Si immagini che durante gli anni universitari Rudolf Diesel, inventore del motore eponimo e convinto socialista, sognava di mettere a punto un sistema alimentato a gasolio, leggero e di facile manutenzione, che potesse essere adottato in laboratori gestiti direttamente da cooperative di artigiani. Sappiamo come è andata a finire:
I suoi motori non hanno trovato i loro impieghi principali nelle piccole officine – commenta Smil – ma in macchinari pesanti, camion e locomotive e, dopo la Seconda guerra mondiale, in grandi petroliere, navi da carico e portacontainer, contribuendo a creare l’esatto contrario della visione di Diesel, una concentrazione senza precedenti di produzioni su larga scala e distribuzione a basso costo dei prodotti in una nuova economia globale.
Se in Making the Modern World: Materials and Dematerialization (Wiley, 2013) Smil raccoglieva dati e conferme per sfatare il mito della dematerializzazione, in Energia e civiltà confuta quello dell’efficientamento energetico:
Le maggiori efficienze sono state sommerse dalla combinazione di una domanda crescente e di una popolazione più numerosa, e sebbene lo sfruttamento dell’energia nell’economia globale sia diventato relativamente meno intensivo, l’utilizzo di energia è aumentato.
Storicamente, più le tecnologie diventano efficienti, più energia consumiamo in termini assoluti: limitandosi al valore globale degli ultimi due secoli, 20 Exajoule nel 1800, 45 nel 1900, 380 nel 2000. Una tale voracità di energia porta oggi a credere che abbandonare i combustibili fossili non sarà facile, né indolore.
I dati sull’energia eolica e solare presentati in Energia e civiltà sono aggiornati a diversi anni fa, e questo è un limite evidente delle tesi di Smil sulla transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili. Per potersi davvero compiere, sostiene lui, alla rivoluzione “verde” occorreranno tempo (“due o tre generazioni”), investimenti strutturali (“tecniche di produzione, distribuzione e conversione”) e innovazione tecnologica (“la disponibilità di nuovi, economici modi per immagazzinare l’energia eolica e solare su larga scala”). Occorrerà soprattutto un limite massimo globale ai consumi di energia, in assenza del quale i miglioramenti tecnologici nell’efficienza delle fonti, anziché diminuire le emissioni di gas serra, finiranno per aumentarle. In Growth: From Microorganisms to Megacities (MIT Press, 2019), lo stesso Smil accumulava esempi su esempi di sistemi naturali e sociali – dalla riproduzione delle cellule tumorali all’espansione di galassie e imperi – che hanno inizio con numeri esigui, entrano in una fase di crescita iperbolica, e alla fine si fermano. A volte il rallentamento è fisiologico, altre è catastrofico. L’unica certezza, avverte Smil, è che ogni pattern di crescita raggiunge il limite, prima o poi. Nel caso dello sfruttamento antropico dell’energia, quel limite sta in bilico tra la necessità di preservare l’abitabilità della biosfera e il bisogno di assicurare una vita decente a tutti gli esseri umani.
“Decente” è un termine troppo ambiguo per entrare nelle argomentazioni di Smil, che preferisce dare un intervallo numerico, 100-110 Gigajoule annui pro capite: è grosso modo la quantità di energia che consuma oggi un cittadino cinese medio. Negli Stati Uniti si viaggia a 300 Gigajoule, in Giappone a 170, in Unione Europea a 150, mentre l’India si ferma a 20 Gigajoule, la Nigeria a 5 e l’Etiopia a 2. A chi sta molto al di sotto di quel valore-soglia si conceda di continuare a crescere, ossia di bruciare combustibili fossili; per chi sta sopra si tratta invece di cominciare a decrescere. Cosa che, sempre secondo Smil, non sarebbe poi così male per gli europei:
Potremmo dimezzare i nostri consumi energetici e materiali e tornare all’incirca ai livelli degli anni Sessanta. Potremmo farlo senza rinunciare a nulla di importante. La vita non era poi così orribile negli anni Sessanta, in Europa.
Per una buona fetta di mondo decrescere non sarebbe neanche difficile, visto che gli usi energetici superflui e “voluttuari” esistono da sempre – Smil dedica diverse pagine del libro a quantificare l’energia impiegata nella costruzione della Grande Piramide, o a spiegare come l’energia contenuta nella bomba Zar testata in Unione Sovietica nel 1961 sia pari a quella che consumerebbe in un anno un miliardo di persone con lo standard di vita di un cittadino giapponese medio – sebbene oggi siano talmente sistematici e interiorizzati che non ne abbiamo più contezza. Qualche esempio iconico scelto da Smil, per rendere l’idea:
Decine di milioni di persone prendono ogni anno voli intercontinentali per raggiungere le spiagge, rischiando di contrarre il cancro alla pelle; la cerchia sempre più ristretta degli appassionati di musica classica possiede più di 100 registrazioni delle Quattro Stagioni di Vivaldi tra cui scegliere; ci sono più di 500 varietà di cereali per la prima colazione e più di 700 modelli di autovetture.
Il sentimento oggi dominante, fomentato tra gli altri dallo stesso Bill Gates, è che la combinazione di capitalismo “verde” ed efficientamento energetico ci condurrà presto alla condizione di eccesso sostenibile – stessi consumi materiali con un uso minore di combustibili fossili – ma sarebbe un grave errore credere che la tecnologia e il mercato renderanno sostenibili i nostri comportamenti senza alcun sacrificio.
L’attenzione di Smil è tutta calamitata dallo sforzo di verificare e inanellare informazioni: è un testo compatto e accademico, anche se l’aggettivo nel complesso più appropriato sarebbe forse enciclopedico. Al netto di poche digressioni, la forza del libro sta proprio nel presentare, su uno stesso piano, temi che vengono normalmente trattati in campi specialistici non comunicanti, e di farlo con un livello di dettaglio difficilmente riscontrabile altrove. Come ha osservato Jonathan Watts sul Guardian, nei saggi di Smil ci sono i numeri che cerca chi vuole fare divulgazione sui cambiamenti climatici. Sono libri esigenti, ma affidabili e duraturi, utili a capire meglio in che stato si trovi oggi l’umanità, e dove sia diretta.