R ossella Panarese meriterebbe un ricordo che racconti nel dettaglio l’enorme contributo che ha dato alla divulgazione scientifica in Italia e che citi tutti i programmi, i riconoscimenti e le collaborazioni della sua carriera a Radio3, dove coordinava una parte del palinsesto. Bisognerebbe poi elencare le tante persone che ha scoperto e a cui ha dato spazio e fiducia negli anni, persone che sceglieva tra i suoi studenti nei corsi di giornalismo scientifico oppure cercandole in posti inaspettati, seguendo un fiuto che la portava a innamorarsi delle passioni degli altri con la stessa attrazione irresistibile con cui da adolescenti scopriamo una nuova canzone del cuore grazie al nostro compagno di banco (era uno slancio istintivo che Rossella bilanciava, visto il suo ruolo, con una determinazione e un’autorevolezza che potevano essere altrettanto impetuose).
Nel 2014 Rossella mi chiamò a lavorare a Radio3 Scienza, il programma che curava e conduceva dal 2003. Sono rimasto lì per più di quattro anni.
Vivere una redazione è un privilegio ormai sempre più raro. Vuol dire avere l’opportunità di imparare come funziona la cultura studiandola dai volti e dalle smorfie delle persone, condividere i tempi morti, le riunioni infinite, gli aspetti più intimi e sfibranti del fare qualcosa insieme seguendo i libri che si ammucchiano sulle scrivanie, i ritagli di giornale, le indicazioni e le insistenze degli uffici stampa, le scocciature delle scadenze, le ricorrenze, gli anniversari. Fare un programma come Radio3 Scienza, in più, è un’impresa quasi donchisciottesca per quanto è generosa e folle: bisogna parlare mezz’ora al giorno di scienza, in diretta, e bisogna cercare di farlo sempre con il massimo rigore, studiando bene tutte le materie – materie, proprio come un esame di maturità che si ripete ogni mattina. A volte bisogna provare a spiegare l’attualità del dibattito scientifico (vaccini, terremoti, cambiamenti climatici, virus, politiche della ricerca) altre volte raccontare libri e vicende con un tono e un approfondimento più lento, più laterale o più storico. Radio3 Scienza ha preso la forma multicolore e sfaccettata che ha oggi costruendosi attorno alla presenza premurosa e testarda di Rossella, che era la depositaria della linea editoriale e la più alta giudice dei ritmi di ogni puntata; cercava costantemente di rinnovare l’ equilibrio tra le anime della trasmissione – dobbiamo essere più narrativi, dobbiamo stare più sul pezzo.
Io non ho mai avuto una grande attrazione né un talento particolare per la divulgazione o il giornalismo, e anche per questo dopo quattro anni ho deciso di provare a fare qualcos’altro, nel mondo culturale. Eppure crescere a Radio3 Scienza non mi ha cambiato solo la vita lavorativa, ma ha modificato anche il modo in cui penso e mi oriento tra gli argomenti. Sento di dovere tutto questo a Rossella, e non riesco a immaginare cosa sarei oggi (come lavorerei? Cosa scriverei?) se non mi avesse chiamato a lavorare accanto a lei sette anni fa.
A casa ho un libro che Rossella mi aveva prestato, credo proprio in quei primi mesi, e che non le ho mai restituito: un piccolo saggio sulle possibilità di ibridazione delle due culture, scientifica e umanistica, scritto da Primo Levi e da Tullio Regge, grande fisico italiano, e che lei mi aveva consigliato di leggere quando aveva capito che mi interessava più la letteratura che la scienza. Il libro si chiama Dialogo. “Proviamo a dialogare di scienza e di temi scientifici” era anche il modo in cui Rossella raccontava la sua trasmissione a chi non l’aveva mai ascoltata. In radio invitava i ricercatori e gli esperti, e spesso anche filosofi e scrittori accanto agli scienziati, e coinvolgeva molto gli ascoltatori, anche quelli più esigenti o più critici, quelli che noi in redazione avremmo preferito semplicemente ignorare.
In Italia la conoscenza scientifica ha sempre avuto una vita tortuosa e accidentata, schiacciata com’è da estremismi diversamente irritanti e pericolosi. Da molti è ancora vista come un sottogenere di conoscenza tassonomicamente inferiore: c’è la cultura e c’è la cultura scientifica. Cito proprio da Dialogo (è un passaggio evidenziato, nella copia che ho, e non so se sono stato io o lei a sottolinearlo):
PRIMO LEVI: Avevo un ottimo rapporto con la mia insegnante di italiano, ma quando ha detto pubblicamente che le materie letterarie hanno valore formativo, e quelle scientifiche hanno valore informativo, mi si sono rizzati i capelli in testa.
All’angolo opposto, c’è invece chi guarda alla conoscenza scientifica come fosse l’unico sapere davvero valido e degno e la usa così come uno strumento di esclusione, o di potere (o altre volte ancora di marketing). In entrambi i casi quello che viene negato è appunto il dialogo, a mancare è un discorso comune. Il lavoro e il pensiero di Rossella, e le sue trasmissioni, hanno avuto la pazienza, invece, di rimanere lì in mezzo e cercare di scardinare questa contrapposizione assurda.
Chi non conosce la voce di Rossella, può riascoltarla sul sito di Radio3 Scienza. La redazione – Marco Motta, Paolo Conte, Roberta Fulci e Francesca Buoninconti – ha raccolto alcune delle sue dirette più significative degli ultimi anni in una playlist.
Rossella era insofferente alla noia. E si annoiava spesso. Vedeva arrivare la noia con almeno un minuto di anticipo rispetto a noi altri, e ce la segnalava, in diretta, gonfiando le guance e ruotando le mani sui polsi. Aveva il terrore di mandare in onda discorsi che girassero a vuoto, conversazioni lente, senza immagini, senza concetti chiari o magari semplicemente espresse da ospiti con toni di voce che riteneva soporiferi. Non ricordo una puntata di Rossella che sia venuta male.
Le dirette che le riuscivano meglio erano quelle che conduceva dai festival della scienza in giro per l’Italia, quando aveva davanti un piccolo pubblico ad ascoltarla e una carrellata di ospiti che si passavano il microfono sul palco. Aveva sviluppato un istinto da comica: sapeva leggere la temperatura della stanza, capiva quando era il momento di buttare lì una freddura per ravvivare il tono di una conversazione che si stava facendo troppo tecnica. Aveva adottato anche una mimica particolare: dopo aver fatto una battuta troppo azzardata o semplicemente un po’ fessa si nascondeva dietro un’espressione colpevole, come dire scusate non l’ho detto davvero, mentre aspettava i sorrisi o le risate degli altri.
Le sue puntate erano musica leggera; le sue interviste mantenevano ogni volta una grande serietà e raffinatezza, da libro di testo. Come faceva? Il talento non può essere ridotto a una formula, e noi che stavamo lì a cercare di imitarla quando era il nostro turno di andare al microfono, non ci riuscivamo quasi mai. Questione d’istinto, sfumature intraducibili a parole o nelle istruzioni di un manuale.
Le puntate dai festival le permettevano anche di eseguire un altro esercizio a cui teneva moltissimo, quello di raccontare la ricerca scientifica attraverso gli uomini e le donne che la fanno, le loro vite imperfette, i tic, gli accenti e le piccole ossessioni, i vestiti che portano, i dettagli che lasciano trapelare delle loro relazioni personali.
Una delle prime puntate che ricordo è proprio una diretta da un festival. L’intervistato era David Quammen, erano i tempi della pubblicazione di Spillover. Rossella si fece raccontare in che modo il lavoro per il libro lo avesse portato a incontrare cacciatori di virus in foreste, caverne e sobborghi dell’Africa e del Sudest asiatico, veterinari e ecologi e epidemiologi. Si fece mimare i gesti con cui i ricercatori infilavano questi enormi pipistrelli nelle sacche prima di studiarli in laboratorio. Nei giorni che seguirono, Quammen mandò messaggi e ringraziamenti per la splendida intervista. Succedeva sempre così.
Proprio leggendo l’ultimo libro di Quammen mi sono imbattuto in un passaggio che sapevo le sarebbe piaciuto e che le ho girato via email:
La scienza stessa, per quanto precisa e oggettiva, è un’attività umana. È un modo non soltanto di conoscere, ma di interrogarsi. È un processo, non un corpo di fatti o di leggi. Come la musica, la poesia, il baseball e le partite a scacchi dei grandi maestri, è qualcosa di meravigliosamente imperfetto fatto dalle persone, su cui si riconoscono dappertutto le impronte sbavate della nostra umanità.
Incredibilmente, Rossella non ha mai scritto un libro. Forse perché le parole della radio sono più fluide, meno definitive, di sicuro le riteneva più intime, più consone al tipo di delicatezza che cercava.
Ho aspettato la fine di una diretta da un festival della scienza per dirle che volevo cambiare città e che avrei voluto lasciare almeno per un po’ la radio, per provare a fare altro, a scrivere di più. Mi sentivo come se stessi annunciando alla mia famiglia che non sarei mai più tornato a casa per Natale; con Rossella era impossibile dividere il piano personale da quello lavorativo, e lavorare con lei era come lavorare con una zia adorata e caparbia. Fece finta di non rimanerci male, quando ne parlammo, mi incoraggiò e non smise mai di farlo.
Tout se tient, tutto si tiene, era una delle espressioni che usava più spesso, durante le dirette, per chiudere una di quelle puntate-universo particolarmente ispirate in cui finiva per parlare di decine di cose differenti. Era un tormentone per cui, di nascosto, la prendevamo un po’ in giro. Mi rendo conto solo ora di quanto fosse un motto fedele alla sua visione: tenere insieme le culture e le opinioni, l’attualità e il racconto, le pareti levigate dell’edificio scientifico e il legno storto dell’umanità. Uno sforzo troppo grande per chiunque, che a lei riusciva alla perfezione.