E siste una correlazione tra la salute mentale e la classe sociale: le condizioni di povertà e precarietà generano maggiori fattori di stress che a loro volta possono portarci a sviluppare disturbi specifici. Ma secondo uno studio della Columbia University, pubblicato sulla rivista Epidemiology, per capire le cause del disagio mentale non basta guardare il reddito di una persona, il suo livello di istruzione o il prestigio della sua professione: l’insorgere delle malattie mentali dipende in questo caso dal livello di sfruttamento. Gli esempi più chiari sono gli straordinari non retribuiti, l’aumento dei ritmi di produzione, il taglio dei salari o la precarizzazione dei contratti. La salute o il disagio mentale sarebbero quindi, tra le altre cose, anche un prodotto del conflitto di classe: da un lato le esigenze imprenditoriali dell’aumento della produttività, dall’altro la salute dei lavoratori e delle lavoratrici.
L’organizzazione scientifica del lavoro
Come si inserisce la psicologia del lavoro nel rapporto tra disturbi dei lavoratori e interessi dei datori di lavoro? Per capire meglio il ruolo degli psicologi nelle organizzazioni produttive può essere utile partire dalle origini dell’alleanza tra il mondo delle imprese e quello degli studiosi della psiche. I manuali citano come precursore di questa alleanza Hugo Munsterberg, psicologo nato a Danzica nel 1863 e considerato uno dei fondatori della psicologia applicata. A cavallo tra il XIX e il XX secolo Munsterberg decise di mettere in pratica gli studi di psicologia sociale nelle industrie che richiedevano il suo aiuto per migliorare l’efficienza dei lavoratori. “Abbiamo messo i nostri interessi psicotecnici al servizio di compiti economici” spiega in modo molto chiaro in Psychology and Industrial Efficiency.
Taylor sosteneva che l’operaio perfetto per la lavorazione del ferro grezzo “dovrebbe essere così stupido e flemmatico da somigliare a livello mentale più a un bue che a qualsiasi altra cosa”.
Per comprendere il personaggio sono utili le sue considerazioni sulla società dell’epoca. Secondo Munsterberg gli attivisti sindacali erano delle persone disturbate a livello emozionale che sfogavano la loro frustrazione nella militanza. Le donne, invece, erano incapaci di deliberare razionalmente e quindi inadatte a frequentare studi troppo complicati o partecipare nelle giurie dei processi. Munsterberg fu presidente dell’American Psychological Association e coordinò uno dei laboratori più importanti degli Stati Uniti presso l’Università di Harvard. In un’altra sua opera, Psychology and the Market, teorizza l’applicazione della psicologia nel campo del management, della pubblicità, del miglioramento della performance lavorativa e della motivazione degli impiegati. Sono queste le condizioni in cui avviene la prima stretta di mano tra gli psicologi e i proprietari delle industrie, un esordio che porrà le basi per il futuro sviluppo della psicologia industriale.
A raccogliere l’eredità di Munsterberg fu Frederick Winslow Taylor che nel 1911 pubblica L’organizzazione scientifica del lavoro in cui presenta la teoria dello scientific management. Il management scientifico ha come obiettivo quello di organizzare scientificamente ogni aspetto del lavoro, razionalizzare ogni azione dell’operaio e raggiungere il massimo livello di produttività.
Nonostante Taylor fosse un ingegnere, e non uno psicologo, fu capace di rivoluzionare i modelli organizzativi della produzione e promuovere una nuova idea del funzionamento mentale del lavoratore. Lo scientific management di Taylor, infatti, si fonda sulla teoria dell’homo economicus, ovvero una concezione filosofica dell’essere umano come puro ottimizzatore di interessi. Un essere vivente totalmente razionale e interessato solo a raggiungere il massimo guadagno con il minimo sforzo. Un individualista totalmente pragmatico. Da qui deriva la concezione taylorista dell’operaio come mero esecutore, mentre le attività di pensiero, gestione e responsabilità sono riservate allo staff (i dirigenti e quadri aziendali). Come afferma Taylor nella sua opera, l’operaio perfetto per la lavorazione del ferro grezzo “dovrebbe essere così stupido e flemmatico da somigliare a livello mentale più a un bue che a qualsiasi altra cosa”.
La risposta delle lavoratrici e dei lavoratori all’applicazione dello scientific management si trasformò in un’ondata di scioperi che travolsero sia gli Stati Uniti che la Francia. Secondo il rapporto Hoxie del 1915, redatto dalla Casa dei Rappresentanti degli Stati Uniti, il taylorismo stava generando una grave degradazione delle condizioni lavorative. Le battaglie sindacali e legali non riuscirono però a fermare il suo diffondersi nella cultura aziendale della maggior parte dei paesi occidentali, grazie anche alla sua affinità con il modello produttivo fordista e con l’individualismo liberale promosso dal capitalismo targato USA.
Siate felici di essere sfruttati
Negli anni ’30 gli psicologi dello Human Relations Movement, guidati da Elton Mayo, mossero critiche fondamentali all’impianto teorico dello scientific management. In seguito a una serie di esperimenti eseguiti sulle lavoratrici e i lavoratori di diverse industrie statunitensi tra cui la Western Electrics, arrivarono alla conclusione che il comportamento dell’operaio viene influenzato anche da dinamiche sociali, oltre che da premi e punizioni di carattere economico. A parità di fattori oggettivi (pause, tempi di lavoro, retribuzione, etc…) i ricercatori notarono che le relazioni sociali all’interno del gruppo di lavoro possono far diminuire o aumentare la produttività del reparto. L’ideale dell’homo economicus si sgretola davanti alla scoperta del potere del gruppo, dei bisogni sociali, delle relazioni che non hanno a che vedere con il denaro o gli orari di lavoro. Quello che però rimane intatto, per il Human Relations Movement, è il criterio di valutazione del modello organizzativo, l’unità di misura della buona riuscita o meno dell’intervento dello psicologo: la produttività.
A parità di fattori oggettivi come pause e retribuzione, le relazioni sociali all’interno del gruppo di lavoro possono far diminuire o aumentare la produttività.
L’obiettivo quindi, nonostante la maggiore attenzione alle dinamiche sociali, continua a rimanere lo stesso: produrre di più nel minor tempo possibile. Produrre cioè plusvalore, in modo che il lavoro degli operai permetta al proprietario della fabbrica di accumulare più ricchezza. Il gruppo deve essere studiato in modo da garantire il massimo dell’efficienza produttiva, e i fattori che potrebbero ostacolare l’ascesa verso il successo, vanno evitati. Secondo il sociologo William Whyte, autore nel 1956 de L’uomo dell’organizzazione, quello che Taylor ha fatto con la razionalizzazione del lavoro fisico, il Human Relations Movement lo ha fatto con le dinamiche sociali, reificandole, alienandole e manipolando ancora più in profondità la psicologia delle lavoratrici e dei lavoratori. In comune i due modelli hanno anche l’ostilità nei confronti del dissenso sociale: Taylor riteneva i sindacati un’organizzazione inutile che doveva essere superata o per lo meno limitata, mentre Elton Mayo definiva gli agitatori sociali personaggi mossi da tendenze neurotiche, ossessioni di distruzione dell’ordine sociale e traumi infantili.
Nel suo L’estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata, pubblicato nel 2010, la filosofa Michela Marzano spiega come i concetti peculiari della gestione aziendale vengano sempre di più applicati anche alla dimensione intima dell’esistenza. Non si tratta più solo di pianificare ogni singolo gesto produttivo, serve ora promuovere stati d’animo e atteggiamenti che favoriscano la produzione: autonomia, conformismo, spirito d’iniziativa, adesione totale alla mission, etc… Non basta più accettare le direttive del manager, bisogna crederci, bisogna farlo con il sorriso e con spirito di abnegazione. Nella commedia Office Space – Impiegati… male, diretta da Mike Judge nel 1999, troviamo un esempio di questo processo. Joanna lavora in un fast-food e il suo responsabile la motiva a esprimere la sua personalità mettendo sulla divisa da lavoro delle spille. La ragazza chiede quante deve indossarne e il manager le spiega che 15 spille è il minimo. Joanna rispetta questo standard ma il manager continua a metterle pressione perché si sta accontentando di fare “il minimo necessario”, e sarebbe meglio aggiungere altre spille per migliorare il suo stile e dimostrare il suo entusiasmo.
Partecipare senza decidere
Negli anni Settanta hanno cominciato a diffondersi nuove teorie del management più improntate alla partecipazione, offrendo l’illusione della democrazia industriale senza però mettere in discussione il sistema verticale e autoritario su cui si basa la produzione capitalista. Un esempio celebre sono i Circoli di Qualità, un modello sviluppato dal sindacato giapponese degli scienziati e ingegneri. Il modello dei Circoli di Qualità venne applicato in un primo momento nelle fabbriche Toyota e poi nelle multinazionali Ford, Bank of America, General Electric e Boeing. Prevede spazi di discussione sul luogo di lavoro senza gerarchie di ruolo con l’obiettivo di stimolare la condivisione orizzontale delle idee. La libertà di discussione è limitata però solo alle questioni di problem solving legate alla qualità del lavoro, mentre le politiche del management rimangono un non discusso e non questionabile a priori.
Ancora una volta i beneficiari di questo modello sono coloro che lo propongono cioè gli imprenditori, che riescono così a innalzare la qualità dei prodotti e risparmiare sui costi. Ancora una volta un’innovazione che viene venduta come un passo in avanti verso l’emancipazione dall’alienazione e dallo sfruttamento risulta essere una strategia per ottenere migliori prodotti e estrarre più valore possibile dal lavoro manuale, sociale e intellettuale della classe lavoratrice.
Un’innovazione venduta come un passo in avanti verso l’emancipazione risulta essere una strategia per estrarre più valore possibile dal lavoro manuale, sociale e intellettuale della classe lavoratrice.
Uno dei più famosi teorici della consulenza aziendale contemporanea, Edgar Schein, ha proposto un modello di intervento e diagnosi nelle organizzazioni produttive che prende il nome di Consulenza di Processo. Nonostante la definizione e l’impianto formale del modello cerchino di comunicare un approccio più dinamico e meno autoritario della psicologia industriale, in uno dei suoi testi più famosi, Consulenza di Processo del 2001, insiste sull’importanza degli interlocutori, che, prima di tutto, devono essere i manager dell’azienda, o meglio ancora i top-manager. Sono loro, spiega Schein, coloro i quali devono accettare i termini e fissare gli obiettivi della consulenza, altrimenti l’intervento risulterà inefficiente: “I livelli più alti settano il clima dell’organizzazione e di conseguenza determinano i criteri per un funzionamento organizzativo efficace”.
L’algoritmo del padrone
Non vedere l’elefante nella stanza, la normalità classista della psicologia applicata nelle imprese, vuol dire mettere a rischio la salute della classe lavoratrice. Rimuovere il conflitto tra gli interessi di chi possiede i mezzi di produzione e chi viene messo sotto contratto per produrre significa ignorare anche gli effetti deterioranti che questo conflitto produce sugli sfruttati e gli oppressi. Effetti dannosi per la salute mentale e fisica dei lavoratori che non accennano a diminuire, anzi, al contrario, sembrano acuirsi quando le stesse logiche psicologiche vengono applicate con il sostegno dell’automazione e degli algoritmi dell’intelligenza artificiale.
Non è un segreto che i percorsi da seguire per consegnare una pizza, il tragitto da percorrere per dare un passaggio a un cliente, l’ordine con cui pulire le stanze di un hotel e i turni di lavoro di migliaia di impiegati vengano calcolati da software aziendali. Come scrive Josh Dzieza, giornalista investigativo della rivista The Verge, “I robot non ci stanno rubando il lavoro, stanno diventando i nostri capi”. Nella sua inchiesta Dzieza descrive come il ruolo del management in importanti aziende venga oggi interpretato sempre di più da programmi informatici.
Un caso esemplare è quello di Amazon, i cui magazzini statunitensi vengono quasi interamente gestiti da un software che decide quando i lavoratori sono di turno e a quale velocità devono svolgere le loro mansioni. La produttività dei dipendenti è misurata e codificata attraverso un rate, il tasso di produttività. I lavoratori sono motivati ad aumentare il loro rate anche grazie ad uno schermo che mostra un cartone animato di un corridore e sul quale vengono annunciati i migliori performer del momento tra i loro colleghi di lavoro. L’impianto manageriale in questo caso è pensato per annullare i cosiddetti micro-rest, i tempi morti che rallentano la produzione.
Non vedere l’elefante nella stanza, il classismo della psicologia applicata nelle imprese, vuol dire mettere a rischio la salute della classe lavoratrice.
Rallentare il proprio ritmo può significare essere automaticamente licenziati dal software, lo stesso succede quando si sfora il limite dei permessi non retribuiti come successo a una lavoratrice in California che ha chiesto un’ora di troppo in seguito a un lutto familiare. L’intensità lavorativa che viene imposta è così alta che il 10% dei dipendenti di Amazon negli Stati Uniti ha subito un infortunio sul lavoro, il doppio rispetto alla media nazionale.
Qualcosa di simile succede con le piattaforme di delivery in Italia, le quali non hanno bisogno di licenziare i loro dipendenti ma si limitano a declassare il loro ranking reputazionale, e quindi ridurre drasticamente lo stipendio di chi non può coprire una fascia oraria prenotata o addirittura togliere l’accesso alla App che assegna i turni. Questo tipo di pressione psicologica può mettere a rischio la vita dei cosiddetti rider, degli autisti Uber e dei corrieri di Amazon o di altre imprese che sono costretti ad aumentare la velocità di produzione e quindi di movimento nelle città se non vogliono perdere il lavoro o farsi decurtare lo stipendio.
Questa sorta di ‘taylorismo automatizzato’ è applicato anche dalle imprese di call-center. Il software Voci, per esempio, fornisce un’Intelligenza Artificiale capace di misurare, e nel caso sanzionare, un calo di umore o di empatia rilevata nella voce dell’impiegato. Il software Cogito istruisce in presa diretta i lavoratori a usare il “giusto” tono di voce e a essere empatici. L’importanza dell’empatia per i profitti di queste aziende deriva dal fatto che l’assistenza tecnica è stata ormai talmente automatizzata che agli umani viene richiesto di rispondere solo alle esigenze più complesse e “umane” dei clienti, da qui il bisogno di addestrare gli impiegati a un modello di empatia standard. L’alienazione del lavoratore raggiunge così il suo stesso vissuto emozionale ri-educandolo a provare emozioni più produttive. Questo tipo di compito, con i ritmi del capitalismo contemporaneo, può portare facilmente a un burn-out emozionale. Nel film Sorry to bother you diretto da Boots Riley nel 2018, è esemplare come il protagonista Cash, che lavora in un call center, riesca a fare carriera perché è in grado di mascherare la sua parlata da proletario nero e imitare perfettamente il tono di voce di un uomo bianco di classe media, fattore che aumenta la sua produttività – a costo di privarlo della sua identità.
Il software WorkSmart permette alle aziende di monitorare ogni singolo click e ogni singola azione sul desktop dei dipendenti che lavorano da casa, in smart-working. I lavoratori sono quindi costretti a dare l’accesso alla loro webcam con la quale il software scatta una foto ogni 10 minuti. Per ogni foto in cui non appari, 10 minuti del tuo lavoro non ti verranno retribuiti.
Il controllo della classe lavoratrice e di chi organizza il dissenso rimane ancora, come ai tempi di Taylor, il principale obiettivo di chi vuole accumulare ricchezza.
Non è un caso che aziende come WallMart stiano brevettando imbragature che permettono di monitorare i movimenti dei dipendenti che lavorano in magazzino, mentre Amazon sta sviluppando dei braccialetti in grado di vibrare per migliorare l’efficienza dei lavoratori. Non è un caso che durante una pandemia che sta mettendo a dura prova i sistemi sanitari di decine di Paesi, nella quale milioni di persone hanno perso il loro posto di lavoro e rischiano di rimanere senza casa, Jeff Bezos, presidente e amministratore delegato di Amazon, sia diventato l’uomo più ricco del pianeta.
Il controllo della classe lavoratrice e di chi organizza il dissenso rimane ancora, come ai tempi di Taylor, il principale obiettivo di chi vuole accumulare una ricchezza smisurata ed è spinto a farla crescere vertiginosamente per impedire che si sgretoli. Per raggiungere questo obiettivo è dunque coerente che aziende come Amazon svolgano attività di spionaggio contro attivisti sindacali e movimenti sociali e che grandi multinazionali come Coca-Cola, Microsoft, Google, Facebook, Motorola, Wallmart, Starbucks e la stessa Amazon, elargiscano tramite fondazioni private ingenti somme di denaro alle forze di polizia, per difendere i propri interessi, come succede negli Stati Uniti.
L’espropriazione della salute mentale
Lo scientific management è il modello su cui si è fondata l’imprenditoria capitalista dell’ultimo secolo, un modello la cui precisione e pervasività è andata affinandosi di pari passo con lo sviluppo tecnologico e con i suoi dispositivi di controllo. L’alleanza con le discipline psicologiche ha permesso di estendere il dominio dello sfruttamento fino a contaminare la sfera sociale, emozionale e sentimentale della classe lavoratrice, minacciando così non solo la salute fisica ma anche quella mentale dei lavoratori e delle lavoratrici. La sottomissione della psicologia agli interessi del capitale ha tutelato la salute di quest’ultimo, mentre ha esposto in modo spietato quella delle persone che presume di voler aiutare.
Se lo sfruttamento genera disagio mentale, allora per riappropriarci del benessere psicologico non abbiamo bisogno di guru aziendali e workshop motivazionali, ma di cambiare le condizioni materiali che permettono il dominio e l’oppressione di lavoratori e lavoratrici. Per tutelare la salute di chi lavora bisogna partire dai suoi bisogni e dai suoi interessi altrimenti la cura psicologica continuerà a essere una maschera dietro cui si nasconde il disciplinamento degli sfruttati.
Per riappropriarci del benessere psicologico non abbiamo bisogno di guru aziendali e workshop motivazionali, ma di cambiare le condizioni materiali che permettono il dominio e l’oppressione di lavoratori e lavoratrici.
In questi tempi in cui lo smart-working, il self-empowerment, il mental coaching, il team building e il job placement hanno invaso il gergo delle organizzazioni lavorative, diventa sempre più urgente chiedersi quale sia il rapporto tra psicologia e mondo del lavoro. O meglio ancora: per chi lavorano i consulenti aziendali, gli psicologi del lavoro e i responsabili delle risorse umane? La risposta è tanto banale quanto importante: per l’azienda. Ovvero il proprietario, il padrone, i manager, gli azionisti, gli investitori, i CEO, gli amministratori delegati, etc… Perché è importante questa risposta? Perché da questa lista sono escluse le dipendenti, i tirocinanti, i collaboratori esterni, le lavoratrici autonome, i freelance, le apprendiste, etc…
Quando lo psicologo del lavoro sta dando dei consigli su come gestire le emozioni, le condotte, i conflitti e i fattori di stress che ci circondano, non lo sta dicendo nei nostri interessi, ma negli interessi dell’azienda. Interessi economici e produttivi, non legati alla persona e al suo benessere. Interessi non nostri, perché noi non siamo il cliente. Siamo il paziente senza essere il committente, che in questo caso sarà il nostro capo, o, molto più probabilmente, il capo del nostro capo. Subordinare la salute mentale al bilancio di un’azienda, può portare ad alienarci dalle nostre stesse emozioni e dal nostro benessere psicologico.