Matteo Moca
/ Immagine:
Lebbeus Woods Conflict Space 4, 2006 San Francisco MOMA
25.2.2021
I miracoli e i mostri di scienza e letteratura
Un’intervista a Benjamín Labatut, autore di Quando abbiamo smesso di capire il mondo.
Matteo Moca si è laureato in Italianistica all’Università di Bologna con una tesi su Landolfi e Beckett. Attualmente è dottorando in letteratura italiana e studia il surrealismo tra Bologna e Parigi. Collabora, tra gli altri, con Gli Asini, Blow Up, Alfabeta2, minimaetmoralia. Il suo ultimo libro è "Un' esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico" (LiberAria, 2022)
L’11 maggio 1916 Karl Schwarzschild, astronomo, fisico, matematico, dopo aver combattuto la Grande guerra sul fronte russo, muore dilaniato da una rara malattia autoimmune della pelle. Fino all’ultimo, il suo pensiero è tormentato dai calcoli e le ricerche che ha svolto negli anni, e che hanno profetizzato l’esistenza dei buchi neri, entità fisiche capaci di accartocciare lo spazio come un foglio di carta ed estinguere il tempo come fosse la luce di una candela.
All’alba del 31 agosto 2012, sul blog del matematico giapponese Shinichi Mochizuki appaiono quattro articoli, oltre cinquecento pagine che dimostrano una delle congetture più importanti della teoria dei numeri conosciuta come “a + b = c”. Mochizuki da quel momento scompare, non vuole discutere una dimostrazione che nessun matematico al mondo riesce a capire fino in fondo, tanto che alcuni dicono che si tratta “di una serie di relazioni sottese ai numeri, invisibili a occhio nudo”.
Quando abbiamo smesso di capire il mondodello scrittore cileno Benjamín Labatut (in Italia per Adelphi, traduzione di Lisa Topi), mescola in maniera organica realtà e fiction, scienza e creazione letteraria, storia e invenzione. Tra le pagine troviamo Heisenberg e Schrödinger che lavorano sulla meccanica quantistica – aprendo il mondo a un universo sconosciuto –, o la vita e le opere straordinarie di Alexander Grothendiek, innovatore radicale della matematica che all’apice della sua carriera diventa un eremita, forse perché incapace di sopportare il peso di una rivoluzione tanto profonda. Storie e vite cresciute attorno al limite, indagando la natura ultima del mondo, i meccanismi che regolano il pensiero quando questo si scontra con i confini, suoi e della scienza, ed è costretto, per provare a comprendere, a rivoluzionare il proprio modo di lavorare, ad aprirsi a nuovi universi di senso, correndo anche il rischio di scivolare nella follia.
Nel primo capitolo, Blu di Prussia, intrecci decine di storie di scienziati che, dal Settecento alla Seconda Guerra Mondiale, girano attorno alla scoperta del cianuro e alle sue applicazioni commerciali e belliche: è un disturbante viaggio in nefandezze di vario tipo, il caso più eclatante è probabilmente quello del chimico premio Nobel Fritz Haber che sviluppò lo Zyklon B, un agente fumigante che sarebbe poi stato usato nelle camere a gas naziste. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli studi di Haber portarono al primo utilizzo, nella storia militare, di un’arma di distruzione di massa: l’attacco con gas di cloro nella seconda battaglia di Ypres. La moglie di Haber, Clara Immerwahr, convinta pacifista, si suicidò perché aveva visto l’effetto di quei gas e rinfacciò al marito di aver corrotto la scienza. È un caso limite, ovviamente, ma che mostra compiutamente quanto difficile può essere la relazione tra scienza ed etica.
La tensione che esiste tra ciò che possiamo fare e ciò che dovremmo fare è qualcosa con cui ogni anima su questa terra deve fare i conti. Fa parte della condizione umana. Nella scienza diventa più importante a causa dei suoi molteplici effetti. Ma non c’è una risposta facile a questa domanda. La comprensione ha sicuramente un prezzo. La conoscenza è una cosa pericolosa, che non può essere facilmente domata. Ci collega a un aspetto della realtà che è profondamente inumano, perché non può essere ridotto, è sia il bene che il male, il buio e la luce.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che la scienza, questa impresa “luciferina”, perché potenzialmente utile a qualsiasi scopo, ma indifferente a tutti, è fatta da uomini e donne che portano con sé le loro colpe: si può essere un genio della matematica e uno stolto emotivo. Puoi diventare un mago della chimica o della fisica ed essere un completo fallito moralmente. Vista da questa prospettiva, una persona cosiddetta “normale” è veramente un’opera d’arte. Un po’ noiosa, forse, ma comunque una meraviglia.
Ammetto di avere un debole per le persone anomale, ma soprattutto perché sono in soggezione per ciò che queste persone possono fare. Claire Denis, John von Neumann, Werner Herzog, Georg Büchner, Kurt Gödel, Pascal Quignard, W.G. Sebald; tutte queste persone mi sembrano incomprensibilmente brillanti e perfettamente singolari. Faccio fatica a comprendere come possano fare le cose che fanno, e sono sicuro che loro stessi ne siano all’oscuro. Sono vere e proprie singolarità, nel senso più stretto della parola, oscure e misteriose come quelle che si nascondono al centro di un buco nero.
Nella parte più corposa del libro, quella dedicata ai travagli intellettuali di Werner Heisenberg durante la prima formalizzazione della meccanica quantistica, citando i consigli che un altro grande fisico, Niels Bohr, diede a Heisenberg circa la necessità di parlare del mondo degli atomi con un linguaggio diverso, scrivi: “Il fisico – come il poeta – non deve descrivere i fatti del mondo, ma creare metafore e connessioni mentali”. Avendo ideato un libro come questo immagino tu riponga una discreta fiducia sia nella scienza che nella letteratura: che rapporto esiste tra loro?
Non ho una fede considerevole in niente. Ho una fede tremolante che è piena di buchi e che mi permette a malapena di credere che il mondo sarà ancora lì dopo che avrò chiuso gli occhi per più di un paio di secondi. Quello che provo per la scienza e la letteratura non è una fede, ma attrazione. Le trovo entrambe fonti di grande meraviglia, modi in cui possiamo interagire con il mistero, con l’orrore, con l’estasi. Non sono un uomo di fede, poiché mi sono convinto che quando la gente comincia a credere in qualcosa smette immediatamente di pensarci.
La scienza e la letteratura ci aiutano a costruire un senso del mondo. La scienza sarebbe la sorella maggiore, più concreta e potente, ma dove la scienza non può arrivare, è lì che inizia il regno della letteratura. La scienza studia il mondo esterno, mentre la letteratura ha un campo più ampio, poiché include ciò che l’essere umano considera fondamentale: i sogni, i desideri, i miracoli, l’intero universo misterioso che è germogliato dentro i nostri crani. La prima ci dà potere e conoscenza, la seconda ci mostra un’immagine di noi stessi e, se si tratta di letteratura vera e propria, dovrebbe anche permetterci di confrontarci con l’insensatezza di questo mondo, il suo orrore e le sue gioie. Il ruolo di entrambi è quello di far brillare una luce. Ma ciò che la loro luce mostra è un’altra cosa: può e farà nascere nuovi mostri, può e farà nascere miracoli.
È questo che ti ha convinto a scrivere Quando abbiamo smesso di capire il mondo?
Ci sono due forze che mi hanno spinto a scrivere il libro, e credo che si possa anche riconoscere la loro interazione nelle vite e nelle idee che cerco di rappresentare: una è personale, l’altra, intellettuale. A livello puramente intellettuale, mi affascinano i limiti della ragione, le idee che le nostre menti non possono sopportare, le esperienze che ci spingono al di là del limite della conoscenza e nello strano deserto dell’irrazionale. Mi sento attratto dalle singolarità, aspetti così fuori scala che non possono essere paragonati a nulla e che offrono una potente resistenza contro l’essere racchiusi in qualsiasi tipo di ordine, per quanto grande e onnicomprensivo.
Su un aspetto più personale, mi sono sempre sentito respinto dai limiti, e sento una spinta istintiva a spingermi oltre qualsiasi linea tracciata sulla sabbia. Questo mi ha portato a prendere alcune decisioni molto stupide, soprattutto una decina di anni fa, quando stavo per compiere trent’anni, quando ho sofferto una crisi autoinflitta che ha fatto a pezzi il mio buon senso e mi ha lasciato, come dicono i buddisti, senza terra sotto i piedi e senza cielo sopra la testa. Anche se è durato non più di un paio di mesi, quel periodo di stranezza ha cristallizzato qualcosa dentro di me e mi ha spinto verso i temi e le idee di cui non posso smettere di scrivere.
Rigirando il titolo italiano del tuo libro come fosse una domanda (e in effetti a un certo momento uno strano personaggio in un bar chiede a Heisenberg: “Quando abbiamo smesso di capire il mondo?”), la riposta potrebbe essere un’altra domanda: “Quando abbiamo iniziato a capire il mondo?”. Nei personaggi del tuo libro pare infatti che anche nei rari momenti in cui sembra arrivare una comprensione, lo scivolamento verso il fallimento sia dietro l’angolo.
Per ogni singola cosa che pensiamo o percepiamo, ne lasciamo fuori altre. Viviamo con un’immagine incompleta e frammentaria del mondo. Cerchiamo di capire e rincorriamo il significato come un cane ossessionato dalla propria coda. Niente di nuovo, naturalmente, e non significa che dobbiamo cadere nella disperazione, ma è qualcosa che ci costringe ad essere consapevoli del fatto che costruiamo modelli del mondo, e che dobbiamo continuamente armeggiare con quei modelli per ampliarli, per far entrare cose nuove, e per vedere le lacune, le crepe, le linee di faglia che indicano i nostri inevitabili punti ciechi. Queste crepe sono ciò di cui mi piace scrivere.
Oggi avere una chiara visione del mondo sembra un compito quasi impossibile, perché le grandi storie che ci raccontiamo per ordinare i fatti disparati dell’esperienza sembrano crollare intorno a noi. Adam Curtis [documentarista britannico], che ha su di me un’influenza enorme e dal quale ho ottenuto molti dettagli con i quali ho scritto il mio libro, parla di questo con enorme chiarezza in una recente intervista. Ha descritto l’insensatezza che stiamo attraversando oggi:
“D’altra parte, potrebbe essere un momento in cui tutte le vecchie storie che davano un senso al mondo stanno crollando – e in quel momento, prima che arrivi la prossima grande storia, una massa di trilioni e trilioni di frammenti senza senso si precipita nel vuoto, e per un breve momento nella storia siamo semplicemente immersi in un mondo che è completamente senza senso. E poi, da qualche parte che al momento non possiamo immaginare, qualcuno inizierà a riassemblare tutti quei frammenti in un modo completamente nuovo – e da lì nascerà la nuova grande storia”.
Credo che questo parli alla nostra confusione attuale, ma penso anche che ogni essere umano cosciente dovrebbe avere una conoscenza di prima mano del crudo potere delle esperienze che non possono essere comprese da nessun modello, anche se solo per un tempo molto breve. Vedere la follia che è anche parte di questo mondo, uscire dalla bolla in cui galleggiamo. E poi quelle stesse persone dovrebbero tornare a frequentare il modo di pensare sano e razionalmente ordinato che tutti dobbiamo condividere, perché non possiamo davvero sopravvivere a questo mondo senza una sorta di buon senso. Quindi sono un fermo sostenitore del potere dell’irrazionale, ma sono anche consapevole che se si passa tutto il giorno tra le nuvole, combattendo i demoni dell’ignoto, si potrebbe finire come quei saggi e poeti e cercatori che diventano così illuminati da dimenticare come pulirsi il culo.
Benjamín Labatut. Foto di Juana Gomez
Nei ringraziamenti scrivi: “Questa è un’opera di finzione basata su fatti reali”. E in effetti nel libro mescoli, con gradazioni diverse per ogni capitolo, realtà e finzione, pur rimanendo sempre fedele alle idee scientifiche che analizzi. Perché hai scelto questo tipo di scrittura? Credi che possa essere un modo per giungere in maniera più semplice in territori complessi?
Credo che la fiction non sia solo più potente dei fatti, è anche più importante, perché fornisce la cosa più essenziale, l’unica cosa senza cui l’umanità non può vivere: il significato. La finzione ci permette di puntare oltre ciò che è reale, di raggiungere substrati più profondi che non possono essere ridotti alle comode categorie di vero/falso, giusto/sbagliato. È uno dei modi in cui possiamo attraversare il deserto in cui siamo intrappolati. In questo senso la vera narrativa dovrebbe essere qualcosa in cui ci si perde, perché traccia un territorio che contiene ogni nostra fantasia, i nostri demoni più oscuri, i nostri sogni più selvaggi.
Il mondo senza finzione è insopportabile. Non parlo semplicemente della letteratura, ma dei molti aspetti “finzionali” con cui ci avvolgiamo: il linguaggio, il sentimento, il pensiero, l’emozione, la percezione; tutte queste cose sono, in un certo senso, finzioni che dovremmo coltivare e di cui dovremmo fare tesoro affinché illuminino e trasformino il mondo che abitiamo.
Detto ciò, sono anche affascinato dal mondo così com’è (se si può davvero parlare di una cosa del genere) e scrivo fiction abbastanza controvoglia. Preferisco di gran lunga attenermi ai fatti. Le mie prime bozze sono tutte al 100% non-fiction. Ma poi le leggo e scopro che manca qualcosa. Questa sensazione – che qualcosa di essenziale manchi al mondo – è ciò che mi ha attirato verso i libri in primo luogo, quando ero un bambino. E ne sono ancora schiavo.
Ogni storia mi sembra contraddistinta da una circolarità della narrazione. Tu parti sempre da un punto e poi, attraverso deviazioni che, forse, ricordano proprio il procedere della ricerca scientifica, alla fine ricostruisci tutti i pezzi. Mi sembra la strada migliore per raccontare storie di scienza perché paiono ricalcare i suoi itinerari tortuosi.
La forma di cui parli è fondamentale, e arriva al cuore di ciò che rende la finzione così artificiale e così allettante. Perché la vita non ha quella forma, solo le storie ce l’hanno. Questo è il motivo per cui non si può mai scrivere veramente in modo veritiero sul mondo. L’unica cosa che si avvicina alla verità sono i romanzi cut-up di Burroughs, pieni di piscio, merda e sesso, e completamente privi di struttura, di significato o di un punto di vista stabilito. Quando si scrive (come quando si parla), si tradisce la realtà in tanti modi diversi. Almeno la narrativa e la letteratura sono più oneste su questo: scrivere correttamente è un atto di tradimento e arroganza. Citerete male le vostre fonti, distorcerete i vostri personaggi e stravolgerete la verità storica semplicemente perché credete in una forma di verità più alta e più strana: la verità della finzione. Ma la letteratura, a differenza della scienza, non ha il disgusto di proporre un’idea fissa di ciò che è vero. Questo è il motivo per cui è così importante, ma è anche ciò che la rende così totalmente impotente.
Nell’ultimo capitolo del libro, Epilogo. Il giardiniere notturno, c’è una differenza letteraria sensibile rispetto agli altri. Si tratta sempre di un brano dove viene misurata la forza, anche oppressiva, della matematica, in questo caso un giardiniere che ha abbandonato la matematica dopo aver conosciuto l’opera geniale di Alexander Grothendieck, ma c’è un narratore in prima persona e la vicenda è ambientata in Cile, dove vivi anche tu. A cosa è dovuto questo scarto? Quanta biografia c’è in questo libro?
Quella storia è ambientata sulle montagne dove ho passato i lunghi e bui mesi della pandemia e dove scappo il più spesso possibile. Il giardino di quella storia è davvero reale, ed è una delle cose più preziose della mia vita. Il cagnolino bianco che corre di notte è un West Highland Terrier, il mio cane Kali, dea oscura della morte e dell’abisso infinito. Il veleno che uccide i randagi, quei cani pigri che amiamo tanto qui in Cile, è tanto mortale quanto reale, e sapere che è là fuori, nascosto da qualche parte in città, o nel profondo della foresta, mi fa perdere il sonno nel cuore della notte. L’identità dell’assassino di cani, l’uomo o la donna che li avvelena, rimane un mistero, anche se posso dire che non è il mio vicino di casa, come ho scritto nel libro, perché l’ho incontrato durante la pandemia ed è un ragazzo molto simpatico, uno che conosce la solitudine e che è stato così vicino alla morte (era un alpinista e ora è malato terminale) che prende tutto con un senso dell’umorismo che è, almeno per me che sono abbastanza timoroso, assolutamente invidiabile.
L’epilogo è un testo strano; l’ho scritto, come il resto del libro, senza sapere cosa stessi facendo, e l’ho fatto in inglese, invece che in spagnolo. È nato poco prima della pandemia, ma le sue prime righe, che ho scritto mentre camminavo nella foresta guardando i licheni sbocciare con le prime piogge d’autunno, parlano di un parassita che si sta rapidamente diffondendo sulla faccia della terra, e sembrano stranamente profetiche:
“È una peste vegetale che si trasmette di albero in albero. Implacabile, silenziosa, invisibile, è una putredine occulta, nascosta agli occhi del mondo. Sarà germogliata dalle oscure viscere della terra? O l’avranno portata in superficie insignificanti creature? Sarà un fungo? No, viaggia più veloce delle spore, cresce dentro le radici degli alberi, si annida nei loro cuori di legno. È un demonio antico, strisciante. Uccidetelo. Uccidetelo col fuoco. Bruciatelo e rimanete a guardarlo mentre arde, sacrificate tutti i faggi infetti, gli abeti e le querce giganti che hanno resistito alla prova del tempo, con i tronchi mutilati dalle mandibole di un milione di insetti. Stanno tutti morendo adesso, malati, moribondi, eretti durante l’agonia. Lasciateli bruciare, osservate le loro fiamme lambire il cielo, o quel male consumerà il mondo, alimentandosi della morte, divorando il verde ormai grigio. Tacete, adesso. Ascoltate. Sentite come cresce”.
Per essere del tutto onesti, io sono il giardiniere notturno. Ci sono momenti durante l’anno in cui divento così ossessionato dal mio giardino da montare luci e continuare a scavare e piantare fino a tarda sera, quando riesco a malapena a vedere cosa sto facendo. Oppure esco di notte e vado a cercare nei terreni vuoti per salvare le piante ai lati della strada. O aspetto che sia poco prima del buio e mi intrufolo nei giardini dei miei vicini (ma mai nelle loro case), per guardare gli alberi, alcuni dei quali, qui in montagna, hanno più di 100 anni.
Una delle figure più impressionanti del libro è il matematico Alexander Grothendieck – che torna in due capitoli diversi – di cui proponi la parabola esistenziale come la storia di un grande romanzo: pugile, fanatico di Bach e degli ultimi quartetti di Beethoven, un autentico genio che ha rivoluzionato la geometria come non avveniva dai tempi di Euclide ma che poi, all’apice della sua carriera, abiura la matematica, lascia la sua famiglia e vive come un eremita fino alla fine dei suoi giorni.
Grothendieck era un gigante, in tutti i sensi della parola. Un uomo che non si adattava a questo mondo, un matematico con idee fuori misura e un dono per qualcosa che, credo, è una proprietà che si trova nel cuore delle nostre più grandi realizzazioni e delle nostre più crudeli cadute: l’astrazione. Il modo in cui guardava alla matematica mi ricorda il desiderio di assoluto che ho provato molte volte nella mia vita e per cui ho sofferto. Nel suo caso l’astrazione lo ha spinto oltre la ragione e nei territori della follia, ma riconosco che, nel corso della storia, molti uomini e donne hanno sentito questo richiamo profondamente. È allo stesso tempo meraviglioso ed estremamente pericoloso, perché ti allontana dal mondo che puoi condividere con gli altri, verso un insieme di esperienze che sembrano quasi inumane, una realtà popolata da demoni, angeli e molte altre figure dell’immaginazione umana, che possono, in certe circostanze, diventare molto reali.
Al quinto congresso Solvay nel 1927 a Bruxelles si riunirono gli scienziati più importanti del mondo per analizzare come la meccanica quantistica stesse mettendo in dubbio le fondamenta della fisica. Nel loro intervento Heisenberg e Bohr presentarono la loro versione della meccanica quantistica in maniera sconcertante dicendo, riprendo le tue parole: “Semplicemente, là fuori non esisteva un ‘mondo reale’ che la scienza potesse studiare. […] Il metodo basato sull’analizzare, spiegare e classificare il mondo ha preso coscienza dei propri limiti, limiti che nascono dal fatto che il nostro intervento altera gli oggetti che indaga. La luce che la scienza getta sul mondo non cambia soltanto la nostra visione della realtà, ma il comportamento delle sue unità fondamentali”. Potrebbe essere questo uno di quei momenti dove gli uomini hanno iniziato a non capire più il mondo?
Assolutamente. La Conferenza di Solvay è stata davvero un punto di svolta, un profondo cambiamento che ha scosso la scienza nel profondo, e dal quale non ci siamo ancora ripresi, se sia mai possibile riprendersi del tutto. Eppure il mondo è ancora una cosa molto solida, anche se abbiamo scoperto il ruolo che la casualità gioca nel regno dei quanti e anche se sappiamo che non possiamo parlare delle cose subatomiche con le metafore della realtà del senso comune. Noi continuiamo a vivere – e così dobbiamo – in un regno che è per lo più newtoniano, e quindi comprensibile, non semplicemente ignorando le possibilità ribollenti e gli strani paradossi del mondo dei quanti, ma sfruttandoli attivamente in modi che ci stanno portando oltre i nostri sogni più selvaggi. C’è sempre questo strano ritmo nell’esperienza umana: apriamo una nuova porta a meraviglie e orrori, e poi ci giriamo e ci facciamo una bella tazza di caffè, come se non avessimo appena guardato giù in un abisso incomprensibile. Questo luogo comune, la capacità di vedere oltre noi stessi e tuttavia rimanere relativamente sani di mente, è davvero una delle meraviglie della nostra specie.