L’ 11 maggio 1916 Karl Schwarzschild, astronomo, fisico, matematico, dopo aver combattuto la Grande guerra sul fronte russo, muore dilaniato da una rara malattia autoimmune della pelle. Fino all’ultimo, il suo pensiero è tormentato dai calcoli e le ricerche che ha svolto negli anni, e che hanno profetizzato l’esistenza dei buchi neri, entità fisiche capaci di accartocciare lo spazio come un foglio di carta ed estinguere il tempo come fosse la luce di una candela.
All’alba del 31 agosto 2012, sul blog del matematico giapponese Shinichi Mochizuki appaiono quattro articoli, oltre cinquecento pagine che dimostrano una delle congetture più importanti della teoria dei numeri conosciuta come “a + b = c”. Mochizuki da quel momento scompare, non vuole discutere una dimostrazione che nessun matematico al mondo riesce a capire fino in fondo, tanto che alcuni dicono che si tratta “di una serie di relazioni sottese ai numeri, invisibili a occhio nudo”.
Quando abbiamo smesso di capire il mondo dello scrittore cileno Benjamín Labatut (in Italia per Adelphi, traduzione di Lisa Topi), mescola in maniera organica realtà e fiction, scienza e creazione letteraria, storia e invenzione. Tra le pagine troviamo Heisenberg e Schrödinger che lavorano sulla meccanica quantistica – aprendo il mondo a un universo sconosciuto –, o la vita e le opere straordinarie di Alexander Grothendiek, innovatore radicale della matematica che all’apice della sua carriera diventa un eremita, forse perché incapace di sopportare il peso di una rivoluzione tanto profonda. Storie e vite cresciute attorno al limite, indagando la natura ultima del mondo, i meccanismi che regolano il pensiero quando questo si scontra con i confini, suoi e della scienza, ed è costretto, per provare a comprendere, a rivoluzionare il proprio modo di lavorare, ad aprirsi a nuovi universi di senso, correndo anche il rischio di scivolare nella follia.
Nel primo capitolo, Blu di Prussia, intrecci decine di storie di scienziati che, dal Settecento alla Seconda Guerra Mondiale, girano attorno alla scoperta del cianuro e alle sue applicazioni commerciali e belliche: è un disturbante viaggio in nefandezze di vario tipo, il caso più eclatante è probabilmente quello del chimico premio Nobel Fritz Haber che sviluppò lo Zyklon B, un agente fumigante che sarebbe poi stato usato nelle camere a gas naziste. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli studi di Haber portarono al primo utilizzo, nella storia militare, di un’arma di distruzione di massa: l’attacco con gas di cloro nella seconda battaglia di Ypres. La moglie di Haber, Clara Immerwahr, convinta pacifista, si suicidò perché aveva visto l’effetto di quei gas e rinfacciò al marito di aver corrotto la scienza. È un caso limite, ovviamente, ma che mostra compiutamente quanto difficile può essere la relazione tra scienza ed etica.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che la scienza, questa impresa “luciferina”, perché potenzialmente utile a qualsiasi scopo, ma indifferente a tutti, è fatta da uomini e donne che portano con sé le loro colpe: si può essere un genio della matematica e uno stolto emotivo. Puoi diventare un mago della chimica o della fisica ed essere un completo fallito moralmente. Vista da questa prospettiva, una persona cosiddetta “normale” è veramente un’opera d’arte. Un po’ noiosa, forse, ma comunque una meraviglia.
Ammetto di avere un debole per le persone anomale, ma soprattutto perché sono in soggezione per ciò che queste persone possono fare. Claire Denis, John von Neumann, Werner Herzog, Georg Büchner, Kurt Gödel, Pascal Quignard, W.G. Sebald; tutte queste persone mi sembrano incomprensibilmente brillanti e perfettamente singolari. Faccio fatica a comprendere come possano fare le cose che fanno, e sono sicuro che loro stessi ne siano all’oscuro. Sono vere e proprie singolarità, nel senso più stretto della parola, oscure e misteriose come quelle che si nascondono al centro di un buco nero.
Nella parte più corposa del libro, quella dedicata ai travagli intellettuali di Werner Heisenberg durante la prima formalizzazione della meccanica quantistica, citando i consigli che un altro grande fisico, Niels Bohr, diede a Heisenberg circa la necessità di parlare del mondo degli atomi con un linguaggio diverso, scrivi: “Il fisico – come il poeta – non deve descrivere i fatti del mondo, ma creare metafore e connessioni mentali”. Avendo ideato un libro come questo immagino tu riponga una discreta fiducia sia nella scienza che nella letteratura: che rapporto esiste tra loro?
La scienza e la letteratura ci aiutano a costruire un senso del mondo. La scienza sarebbe la sorella maggiore, più concreta e potente, ma dove la scienza non può arrivare, è lì che inizia il regno della letteratura. La scienza studia il mondo esterno, mentre la letteratura ha un campo più ampio, poiché include ciò che l’essere umano considera fondamentale: i sogni, i desideri, i miracoli, l’intero universo misterioso che è germogliato dentro i nostri crani. La prima ci dà potere e conoscenza, la seconda ci mostra un’immagine di noi stessi e, se si tratta di letteratura vera e propria, dovrebbe anche permetterci di confrontarci con l’insensatezza di questo mondo, il suo orrore e le sue gioie. Il ruolo di entrambi è quello di far brillare una luce. Ma ciò che la loro luce mostra è un’altra cosa: può e farà nascere nuovi mostri, può e farà nascere miracoli.
È questo che ti ha convinto a scrivere Quando abbiamo smesso di capire il mondo?
Su un aspetto più personale, mi sono sempre sentito respinto dai limiti, e sento una spinta istintiva a spingermi oltre qualsiasi linea tracciata sulla sabbia. Questo mi ha portato a prendere alcune decisioni molto stupide, soprattutto una decina di anni fa, quando stavo per compiere trent’anni, quando ho sofferto una crisi autoinflitta che ha fatto a pezzi il mio buon senso e mi ha lasciato, come dicono i buddisti, senza terra sotto i piedi e senza cielo sopra la testa. Anche se è durato non più di un paio di mesi, quel periodo di stranezza ha cristallizzato qualcosa dentro di me e mi ha spinto verso i temi e le idee di cui non posso smettere di scrivere.
Rigirando il titolo italiano del tuo libro come fosse una domanda (e in effetti a un certo momento uno strano personaggio in un bar chiede a Heisenberg: “Quando abbiamo smesso di capire il mondo?”), la riposta potrebbe essere un’altra domanda: “Quando abbiamo iniziato a capire il mondo?”. Nei personaggi del tuo libro pare infatti che anche nei rari momenti in cui sembra arrivare una comprensione, lo scivolamento verso il fallimento sia dietro l’angolo.
Oggi avere una chiara visione del mondo sembra un compito quasi impossibile, perché le grandi storie che ci raccontiamo per ordinare i fatti disparati dell’esperienza sembrano crollare intorno a noi. Adam Curtis [documentarista britannico], che ha su di me un’influenza enorme e dal quale ho ottenuto molti dettagli con i quali ho scritto il mio libro, parla di questo con enorme chiarezza in una recente intervista. Ha descritto l’insensatezza che stiamo attraversando oggi:
“D’altra parte, potrebbe essere un momento in cui tutte le vecchie storie che davano un senso al mondo stanno crollando – e in quel momento, prima che arrivi la prossima grande storia, una massa di trilioni e trilioni di frammenti senza senso si precipita nel vuoto, e per un breve momento nella storia siamo semplicemente immersi in un mondo che è completamente senza senso. E poi, da qualche parte che al momento non possiamo immaginare, qualcuno inizierà a riassemblare tutti quei frammenti in un modo completamente nuovo – e da lì nascerà la nuova grande storia”.
Credo che questo parli alla nostra confusione attuale, ma penso anche che ogni essere umano cosciente dovrebbe avere una conoscenza di prima mano del crudo potere delle esperienze che non possono essere comprese da nessun modello, anche se solo per un tempo molto breve. Vedere la follia che è anche parte di questo mondo, uscire dalla bolla in cui galleggiamo. E poi quelle stesse persone dovrebbero tornare a frequentare il modo di pensare sano e razionalmente ordinato che tutti dobbiamo condividere, perché non possiamo davvero sopravvivere a questo mondo senza una sorta di buon senso. Quindi sono un fermo sostenitore del potere dell’irrazionale, ma sono anche consapevole che se si passa tutto il giorno tra le nuvole, combattendo i demoni dell’ignoto, si potrebbe finire come quei saggi e poeti e cercatori che diventano così illuminati da dimenticare come pulirsi il culo.
Nei ringraziamenti scrivi: “Questa è un’opera di finzione basata su fatti reali”. E in effetti nel libro mescoli, con gradazioni diverse per ogni capitolo, realtà e finzione, pur rimanendo sempre fedele alle idee scientifiche che analizzi. Perché hai scelto questo tipo di scrittura? Credi che possa essere un modo per giungere in maniera più semplice in territori complessi?
Il mondo senza finzione è insopportabile. Non parlo semplicemente della letteratura, ma dei molti aspetti “finzionali” con cui ci avvolgiamo: il linguaggio, il sentimento, il pensiero, l’emozione, la percezione; tutte queste cose sono, in un certo senso, finzioni che dovremmo coltivare e di cui dovremmo fare tesoro affinché illuminino e trasformino il mondo che abitiamo.
Detto ciò, sono anche affascinato dal mondo così com’è (se si può davvero parlare di una cosa del genere) e scrivo fiction abbastanza controvoglia. Preferisco di gran lunga attenermi ai fatti. Le mie prime bozze sono tutte al 100% non-fiction. Ma poi le leggo e scopro che manca qualcosa. Questa sensazione – che qualcosa di essenziale manchi al mondo – è ciò che mi ha attirato verso i libri in primo luogo, quando ero un bambino. E ne sono ancora schiavo.
Ogni storia mi sembra contraddistinta da una circolarità della narrazione. Tu parti sempre da un punto e poi, attraverso deviazioni che, forse, ricordano proprio il procedere della ricerca scientifica, alla fine ricostruisci tutti i pezzi. Mi sembra la strada migliore per raccontare storie di scienza perché paiono ricalcare i suoi itinerari tortuosi.
Nell’ultimo capitolo del libro, Epilogo. Il giardiniere notturno, c’è una differenza letteraria sensibile rispetto agli altri. Si tratta sempre di un brano dove viene misurata la forza, anche oppressiva, della matematica, in questo caso un giardiniere che ha abbandonato la matematica dopo aver conosciuto l’opera geniale di Alexander Grothendieck, ma c’è un narratore in prima persona e la vicenda è ambientata in Cile, dove vivi anche tu. A cosa è dovuto questo scarto? Quanta biografia c’è in questo libro?
L’epilogo è un testo strano; l’ho scritto, come il resto del libro, senza sapere cosa stessi facendo, e l’ho fatto in inglese, invece che in spagnolo. È nato poco prima della pandemia, ma le sue prime righe, che ho scritto mentre camminavo nella foresta guardando i licheni sbocciare con le prime piogge d’autunno, parlano di un parassita che si sta rapidamente diffondendo sulla faccia della terra, e sembrano stranamente profetiche:
“È una peste vegetale che si trasmette di albero in albero. Implacabile, silenziosa, invisibile, è una putredine occulta, nascosta agli occhi del mondo. Sarà germogliata dalle oscure viscere della terra? O l’avranno portata in superficie insignificanti creature? Sarà un fungo? No, viaggia più veloce delle spore, cresce dentro le radici degli alberi, si annida nei loro cuori di legno. È un demonio antico, strisciante. Uccidetelo. Uccidetelo col fuoco. Bruciatelo e rimanete a guardarlo mentre arde, sacrificate tutti i faggi infetti, gli abeti e le querce giganti che hanno resistito alla prova del tempo, con i tronchi mutilati dalle mandibole di un milione di insetti. Stanno tutti morendo adesso, malati, moribondi, eretti durante l’agonia. Lasciateli bruciare, osservate le loro fiamme lambire il cielo, o quel male consumerà il mondo, alimentandosi della morte, divorando il verde ormai grigio. Tacete, adesso. Ascoltate. Sentite come cresce”.
Per essere del tutto onesti, io sono il giardiniere notturno. Ci sono momenti durante l’anno in cui divento così ossessionato dal mio giardino da montare luci e continuare a scavare e piantare fino a tarda sera, quando riesco a malapena a vedere cosa sto facendo. Oppure esco di notte e vado a cercare nei terreni vuoti per salvare le piante ai lati della strada. O aspetto che sia poco prima del buio e mi intrufolo nei giardini dei miei vicini (ma mai nelle loro case), per guardare gli alberi, alcuni dei quali, qui in montagna, hanno più di 100 anni.