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o incontrato l’opera di Stig Dagerman, straordinario scrittore libertario che decise di togliersi la vita il 5 novembre 1954 alla giovane età di 31 anni, alla fiera “Più libri più liberi” al palazzo dei congressi di Roma, una decina d’anni fa. Ero lì perché lavoravo in una casa editrice. Tra gli stand, in un momento di pausa, incontrai Pietro Biancardi, editore di Iperborea, che mi chiese se avevo mai letto Il nostro bisogno di consolazione e alla mia risposta negativa rispose: “Devi assolutamente conoscere Stig Dagerman, sono certo che ti colpirà”. Ricordo che tornai allo stand dove lavoravo molto incuriosito, iniziai a leggere questo piccolo libro e come se fosse una droga psicotropa mi prese totalmente, non soltanto la testa ma tutto il corpo. Vissi una sorta di realtà alterata: ero alla fiera, certo, ma la mia mente si era completamente staccata e con una sorta di esperienza allucinatoria entrai nel testo, anzi nel contesto dirompente dello scrittore svedese.
Poche pagine, taglienti e dure, che negli anni ho letto e riletto decine di volte. Conoscevo tanti libri di autori e autrici anarchiche ma mai mi era capitato di leggere qualcosa di simile. Quest’opera piccola solo per numero di pagine è un vero e proprio testamento spirituale: in poche righe si rivela un autore intransigente che non riesce ad accettare le contraddizioni della vita. Dagerman è un anarchico senza mezzi termini che non può e non vuole separare la teoria dalla pratica.
La frase di apertura di questo testo riassume memorabilmente la sua ragione di vita, quella dell’individuo contro il sistema: “Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa”. Una frase che se da un lato esprime quella che Rudolf Steiner chiama “nostalgia dell’assoluto”, dall’altro si dichiara completamente alieno ai soliti trucchi del nostro tempo per combatterla. Dagerman non aveva altra scelta, per riconciliarsi con il mondo, che cercare disperatamente una libertà totale e impossibile. Nonostante l’infelicità che menziona, l’anarchia di Dagerman è una rinuncia permanente alla rassegnazione: non poteva, non voleva rassegnarsi a una vita insignificante.
Il suo immenso talento si traduceva in una crescente insoddisfazione per la vita limitata che gli si presentava, l’impotenza di fronte all’impossibilità di cambiare la realtà in meglio si ribaltava (o forse rifletteva) in un’ambizione smodatamente esigente: puntava a realizzare l’opera letteraria perfetta. Sentendosi schiavo del suo talento, minacciato dal potere dell’eccesso e dell’amarezza, Dagerman si trova stretto tra la disperazione e l’attesa. Imprigionato, perché nessuna libertà disponibile è sufficiente, e insoddisfatto nonostante le parziali consolazioni e le meraviglie di cui talvolta gode. Si sente solo, disinteressato al denaro o alla gloria: “Mi interessa solo quello che non ottengo mai”. Da qui la sua invocazione premonitrice del suicidio come unica vera libertà.
Esiste la verità?
L’antropologia si è sempre posta il problema della verità, di come rappresentare la realtà evitando alterazioni dovute all’osservatore. Oggi sappiamo che questo paradosso è impossibile da evitare, perché la sola presenza dell’osservatore cambia la realtà osservata. Per questo negli ultimi decenni di riflessione antropologica c’è stato un avvicinamento sempre più importante tra letteratura e antropologia, abbiamo capito che la narrazione è fondamentale anche nel contesto di scritti accademici. Sono convinto che una delle priorità per un* antropologa/o sia quella di essere capace di dubitare.
La lettura dell’opera di Stig Dagerman ci aiuta a farlo, basti pensare al meraviglioso Autunno tedesco, opera di giornalismo letterario, dove l’autore si mette all’ascolto degli affamati e disperati tedeschi che uscivano sconfitti dalla seconda guerra mondiale. Come un etnografo Dagerman si muove nelle zone grigie di Amburgo, Berlino, Colonia, tra i senzatetto costretti a vivere per strada o in cantine malsane e lo fa con il nobile scopo di comprendere la sofferenza dei vinti. Dagerman in questo reportage commissionato dall’ Expressen scava nelle contraddizioni della Germania postbellica, ma soprattutto firma un manifesto di accusa contro tutte le guerre.
L’antimilitarismo è stato prima di tutto un movimento sociale contro la guerra e le istituzioni militari. Un fatto da non trascurare per comprendere il periodo storico attraversato dall’autore è che dai primi del Novecento si svilupparono in tutta Europa, regioni nordiche comprese, pensieri antimilitaristi specialmente nei movimenti rivoluzionari e di ispirazione libertaria. Sono molti i volti noti di questo movimento dai pacifisti come Lev Tolstoj e Voltairine de Cleyre passando sino a Malatesta e Bakunin, sono convinto che Dagerman merita di essere iscritto tra questi celebri nomi come antimilitarista libertario. Dagerman nella sua opera si contrappone in maniera totale alle istituzioni militari proprio perché ispirato e coinvolto nei movimenti antimilitaristi, per gli anarchici come Dagerman l’antimilitarismo ha però una valenza particolare: rappresenta l’inevitabile sbocco di una lotta più ampia contro la gerarchia, l’autorità, lo Stato e ad ogni forma di dominio e discriminazione. Sono proprio questi i temi ricorrenti dell’opera letteraria di Dagerman, in cui l’opposizione a ogni autorità, alle gerarchie statali e all’ordine costituito sono concetti chiave.
La guerra è un tema al centro della riflessione antropologica contemporanea anche per la sua essenza di fenomeno multidimensionale, stratificato e intrinseco alle leggi del sistema politico contemporaneo, un fenomeno complesso che per essere compreso nella sua interezza non può essere analizzato all’interno di rigidi confini disciplinari, per questo la lettura di uno scrittore antimilitarista come Dagerman, che invita di fatto a non abbandonare mai il senso critico e allo stesso tempo a non essere mai neutrali, soprattutto quando si parla di guerra e ingiustizie sociali, è fondamentale.
La lettura antropologica degli eserciti aiuta a comprendere che essi sono strutturati come forza repressiva utile alla difesa e alla protezione delle classi dominanti e dello Stato. Come scrive Dagerman, di fatto gli eserciti sono apparati che ritualizzano un falso ordine e una inutile disciplina:
Poche cose, in realtà risultano tanto deprimenti, tanto corrosive dell’idea di ordine quanto la concezione militare dell’ordine.(…) Che sia finto o no non importa, l’ordine in quanto tale è la chiave della mentalità militare (…). Il grigio canone dei comandi viene intonato come da rituale.
Il serpente
Da pochi giorni (Febbraio 2021) anche in Italia è finalmente disponibile la sua opera prima che era rimasta per troppo tempo inedita nel nostro paese; Il Serpente (Iperborea), una di quelle opere che, negli anni Quaranta, contribuì a cambiare la configurazione della narrativa europea, a internazionalizzare le sue realizzazioni e ad aprire nuove prospettive sulle letterature nordiche.
Si tratta di un testo che Dagerman ha scritto a soli ventidue anni, ma in cui dimostra di essere una penna già matura, cosa che si manifesta con la ricchezza di un linguaggio metaforico potente e con una lucidità di analisi che spiazza il lettore. Il Serpente è un testo quasi nichilista, che ci parla della fine del tempo e forse anche dell’uomo, sottoposto alla solitudine e all’impotenza più radicale di fronte al vuoto e all’insensatezza dell’esistenza. Un’opera segnata dall’angoscia vissuta tra le guerre mondiali e la burrasca dei totalitarismi, a cui si aggiunge nel suo caso la sconfitta della proposta anarchica e più precisamente della guerra civile spagnola che in modo tangenziale entra anche in questo suo primo libro attraverso la storia di un vecchio che accudisce le sue oche.
Pagine scritte a partire proprio dall’esperienza personale, dove con grande astuzia letteraria l’autore ci narra storie che solo inizialmente ci fanno perdere tra i personaggi e la noia della caserma ma che di fatto si concretizzano nel testo nuovamente in una critica radicale al militarismo e nell’opposizione alla guerra.
Dietro ogni villetta, infatti, sono stati costruiti con cura e decorati con arte e gusto del tutto personale i gabinetti esterni, schierati quasi in linea retta come soldati in parata al confine tra il terreno della casa e il bosco.
Il serpente non è un volume di memorie o una mera descrizione della vita in caserma, né tantomeno soltanto una critica al militarismo, per quanto elegante e non retorica: è chiaro in tutto il testo che questa è solo un mezzo per parlare di temi più ampi. Una vera e propria opera che vuole apportare una critica radicale alla società della gerarchia e del dominio nel suo complesso.
A mio modo di vedere, rispose Edmund, si può vivere solo se si è padroni di se stessi. E invece, porco diavolo, non sei quasi neanche nato e già ti vendono. Ci vendiamo tutti i giorni per un po’ di sicurezza, un po’ di sicurezza di merda, un’assicurazione a poco prezzo per avere le patate e l’acquavite nella dispensa. Poi accettiamo senza un lamento l’insicurezza veramente grande. Accettiamo per esempio che lo Stato, quello che dovrebbe darti sicurezza, ti metta in mano una granata senza sicura, e poi puoi andartene all’inferno con le tue cartelle delle tasse, i certificati di assicurazione, le ricevute del banco dei pegni e tutto il resto.
Il serpente non è solo l’animale catturato e rinchiuso in uno zaino militare, è la manifestazione della paura inseparabile dalla condizione umana, il filo rosso dell’opera. Nella seconda parte del testo ci parlano i soldati che vivevano nel padiglione dell’esercito svedese, ci raccontano gli aneddoti più indimenticabili e traumatici della loro vita, escamotage utili per allontanare la paura per non pensare al serpente strisciante, cioè l’angoscia e alla solitudine. Omicidi “accidentali” di ufficiali autoritari e rabbiosi, storie di orrore e violenza in territori desolati, esperienze della guerra civile spagnola raccontate dal punto di vista di quel vecchio che accudisce le sue oche in una fattoria dove passano i miliziani con le brigate internazionali. E che poi verrà trovato impiccato a un albero, dopo un bombardamento fascista sotto al quale muoiono le oche che hanno sostenuto il suo precario equilibrio tra guerra e disperazione.
È alla fine del testo che Stig Dagerman si lascia andare e rivela la sua visione della vita. Da uno dei paesi più dichiaratamente privilegiati del mondo, lancia la sua chiara invettiva contro gli eccessi dello Stato e del capitale. “Considero invece un obbligo, per quanto è in mio potere, inquietare e abbattere argini. Solo chi ha un intimo rapporto con la sua paura è consapevole del proprio valore, il che significa che non ha alcun bisogno di chiudere gli occhi.” Rifiuta quello che chiama “cerchio di ferro”: una specie di casco con paraorecchie che lo Stato installa simbolicamente sui suoi cittadini per fargli sentire il bisogno della sua imperiosa assistenza. L’autore sa che questo cerchio di ferro è la principale schiavitù per un essere che si crede intellettualmente e materialmente libero, ma che rischia di rimanere sottomesso al dominio. E non solo, ma poiché lo stato sociale è una fabbrica di garanzie immaginarie, ogni suo membro viene a sentirsi a suo agio con questa sproporzionata elargizione di sicurezza.
La sicurezza è un tema molto attuale per la nostra riflessione contemporanea: viviamo in uno stato di continua messa in scena di minacce nel discorso pubblico, che contribuiscono a determinare il clima di paura e necessità di sempre maggiore sicurezza per tutti. Questa sicurezza però la paghiamo al prezzo di una corazza di ferro che copre sempre più pezzi del corpo, dell’anima, fino a che si può guardare solo nella direzione che le aperture concesse nella corazza lasciano intravedere.