Q ualche mese fa 14 banche e fondi di investimento hanno ricevuto un ultimatum. Restava un mese di tempo per mettere in affitto 194 immobili vuoti di loro proprietà nel centro di Barcellona, pena l’esproprio pubblico degli stessi e la rivendita sul mercato al 50 per cento del loro prezzo. Firmato: Ada Colau, la sindaca.
L’amministrazione catalana ha voluto mandare un segnale forte ad alcuni tra i principali responsabili della profonda crisi abitativa che si vive in città. Il valore degli affitti è insostenibile per larghe fette della popolazione e la crisi economica indotta dalla pandemia di COVID-19 non ha fatto altro che peggiorare questa situazione. A Barcellona il numero di edifici vuoti è in crescita, spazi in tempi normali destinati agli affitti brevi e agli uffici ora sono dismessi con i lockdown e lo smart working. Oltre alla diffida agli istituti finanziari proprietari, il comune ha revocato le licenze di 597 appartamenti turistici e ha imposto ad altri 6mila di cessare la loro attività di locazione. Misure simbolicamente forti, che si sommano a iniziative simili adottate in altre città del mondo.
Se fino a oggi la turistificazione e il connesso mercato degli affitti brevi l’hanno fatta da padrone un po’ ovunque nelle logiche metropolitane, la pandemia potrebbe aver cambiato gli scenari, favorendo in alcuni casi processi di restituzione della città ai suoi abitanti, gli unici rimasti a viverla. Siamo davanti a un cambio di paradigma nel diritto alla città?
La crisi del turismo
Nel 2020 il modello Airbnb ha dovuto fronteggiare la peggiore crisi della sua storia. Prendiamo le città italiane: secondo i dati di Otex, un osservatorio sul turismo residenziale extra-alberghiero, il giro d’affari legato agli affitti brevi è calato di circa il 70 per cento nei mesi di aprile, maggio, giugno e settembre. “Dopo due settimane di coronavirus abbiamo registrato cancellazioni che ci fanno prevedere una perdita del 40 per cento su tutto il 2020”, spiegava a inizio marzo Rocco Lomazzi di Sweetguest, primo partner italiano di Airbnb. Non sapeva che le cose sarebbero andate decisamente peggio.
Più case per tutti, a prezzi più bassi: questa l’eredità che ci ha lasciato il 2020, ma in uno scenario in cui sono cresciute esponenzialmente anche povertà e disoccupazione.
A livello globale, Airbnb ha riportato entrate per 2,5 miliardi di dollari nei primi nove mesi del 2020, in calo rispetto ai 3,7 miliardi di dollari dell’anno precedente. Il 25 per cento dei dipendenti della compagnia è stato licenziato e la società ha visto crollare il suo valore dai 31 miliardi di dollari pre-pandemici a 18 miliardi, un elemento che ha portato alla decisione di rinviare la data di quotazione in borsa, prevista in estate e tenutasi poi a dicembre. Se il più grande colosso degli affitti brevi non se la passava bene, per molte altre società del settore più piccole è andata peggio. Halldis, per esempio, è una compagnia italiana che gestiva 1.800 proprietà in 20 località italiane ed europee. In estate ha depositato al tribunale di Milano la richiesta per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo per risolvere lo stato di crisi in cui si è ritrovata a causa della pandemia.
È stato un anno nero per il mercato degli affitti brevi. La de-turistificazione delle città causata dalle limitazioni agli spostamenti e dalle frontiere chiuse ha lasciato migliaia di case vuote e i proprietari in molti casi hanno deciso di riorganizzarsi, tornando al buon vecchio mercato degli affitti a lungo termine, meno profittevole ma a questo punto unica alternativa. A Milano per esempio la disponibilità di locazioni è aumentata del 68,7 per cento, una crescita dell’offerta che si è tradotta in una riduzione degli altissimi costi degli affitti, un’inversione di tendenza in una città abituata da anni a fare i conti con la penuria di soluzioni abitative sostenibili. Secondo il report annuale di SoloAffitti, l’effetto dell’ampliata offerta di mercato e della ridotta richiesta da parte degli inquilini ha portato nel 2020 a una riduzione media in Italia del 7,5 per cento del costo delle locazioni, un valore che nelle grandi città è arrivato a sfiorare il 10 per cento.
Più case per tutti, a prezzi più bassi. Ecco l’eredità che ci ha lasciato il 2020, un elemento che va però contestualizzato in uno scenario dove anche povertà e disoccupazione sono schizzate verso l’alto. Le trasformazioni positive nel mercato abitativo ne escono quindi ridimensionate, ma non abbastanza da sconfessare il trend. Il problema, piuttosto, è che il nuovo scenario post-pandemico rischia di essere provvisorio e che presto tutto potrebbe tornare come prima: turistificazione, affitti brevi e speculazioni varie si sono solo prese una pausa, in attesa che anche il mercato riceva il suo vaccino.
“Quella degli affitti brevi molto probabilmente sarà una crisi provvisoria, una parentesi. Una volta superata la pandemia la situazione potrebbe tornare peggiore di prima. Come da sua stessa ammissione, Airbnb è stata una delle risposte alla crisi del 2008, un modo per affrontarla. Perché la situazione dovrebbe cambiare ora che stiamo vivendo una nuova recessione e una volta che si potrà tornare a viaggiare?”, si domanda Sarah Gainsforth, ricercatrice e autrice del saggio Airbnb città merce. In effetti, per quanto il colosso degli affitti brevi abbia registrato numeri difficili quest’anno, continua a essere una realtà molto forte, anche perché strutturata in modo da far ricadere le esternalità negative sugli utenti più che su sé stessa. Il suo modello di business ha permesso di scaricare sui proprietari degli immobili la parte più pesante della crisi, imponendo per esempio la cancellazione gratuita di tutte le prenotazioni e facendo sì che fossero loro i primi a rimetterci. Gli investitori di conseguenza non si sono fatti troppo intimorire dalla situazione corrente e il grande successo della quotazione in Borsa di Airbnb dimostra che la macchina è pronta a rimettersi in moto. Anche perché il mercato degli affitti a lungo termine non ha saputo offrire un’alternativa abbastanza redditizia, motivo per cui è molto probabile che i proprietari non vedano l’ora di tornare a destinare le loro case al turismo.
Il modello di business di Airbnb ha permesso di scaricare sui proprietari degli immobili la parte più pesante della crisi.
“Mai come nel 2020 c’è stato un calo di fiducia nel rapporto tra affittuari e inquilini. La gente fatica a pagare gli affitti, c’è la normativa sul blocco degli sfratti e la crisi abitativa è ricaduta anche sulle spalle dei proprietari”, spiega Gainsforth. Le richieste di contributo d’affitto a livello nazionale hanno toccato quota 800mila e alcuni dati sottolineano che solo a Roma questa domanda sia stata presentata da un locatario su tre. A livello nazionale, poi, il tasso di morosità è passato dal 9 per cento di gennaio al 25 per cento dell’autunno. Elementi che si aggiungono ai guadagni più bassi che il lungo termine garantisce ai proprietari rispetto al breve. “Chi oggi sta affittando le sue case sul lungo periodo appena potrà tornare al mercato degli affitti brevi lo farà senza esitazioni, per fuggire da queste difficoltà”, chiosa Gainsforth.
Il ritorno al passato è insomma dietro l’angolo. Eppure, ci sono luoghi dove già prima della pandemia il pubblico stava intervenendo per porre un freno alle criticità abitative indotte dal boom degli affitti brevi e dove la crisi attuale potrebbe lasciarsi dietro ulteriori strascichi positivi da questo punto di vista.
Un nuovo diritto alla città?
In primavera il comune di Lisbona ha offerto ai proprietari degli immobili del centro la possibilità di affittare le loro case vuote all’amministrazione pubblica. In cambio avrebbe corrisposto loro una cifra tra i 450 e i mille euro al mese, mentre le case sarebbero state subaffittate alla popolazione per cinque anni, al prezzo di un terzo del reddito degli affittuari (come vuole la regola degli affitti sostenibili). L’iniziativa aveva come obiettivo quello di immettere nuove case nel disastrato mercato abitativo della capitale portoghese, ormai completamento votato al turismo, offrendo al contempo una nuova soluzione ai proprietari d’improvviso costretti a fare i conti con un crollo delle prenotazioni. In realtà in pochi hanno aderito, probabilmente fiduciosi che la pandemia sarebbe stata una faccenda veloce, ma ora il comune ha dato il via a una nuova tranche del progetto, convinto che la risposta potrà essere differente.
Qualcosa di simile si è visto anche a Porto, mentre altre iniziative di restituzione delle case ai residenti hanno contraddistinto nuovi paesi e città del mondo. In Inghilterra è stato predisposto un piano per mettere oltre 3mila case a disposizione dei senza dimora, un po’ ovunque gli hotel solitamente pieni di turisti sono stati riconvertiti in asili per le persone più in difficoltà, a Venezia diversi alloggi a destinazione turistica sono stati trasformati in studentati. Poi ci sono le iniziative sull’esproprio delle proprietà a chi le tiene vuote, come quella di Barcellona, ripresa anche a Parigi. E in generale i sindaci di molti altri centri, come Amsterdam o Firenze, negli ultimi mesi hanno intrapreso nuove crociate contro Airbnb, dicendo di voler limitare il suo monopolio dei centri storici prima svuotati solo di residenti, ora di persone.
Occorre lavorare su un’infrastruttura pubblica già esistente. Solo a queste condizioni la pandemia potrebbe trasformarsi in un’opportunità per un nuovo diritto alla città.
Qualcosa sta cambiando nelle città globali e gli abitanti ricominciano lentamente ad avere un ruolo nel dibattito delle amministrazioni locali, anche se spesso solo per questioni di comodo. “Iniziative come quelle di Lisbona sono buone in astratto, ma molto ipocrite se poi contestualizzate nella realtà delle città in cui avvengono”, spiega Sarah Gainsforth. “Non si può fino a ieri proporre politiche esclusivamente volte ad attirare turisti e ricchi investitori per poi fare dietrofront da un giorno all’altro. Servirebbe un’altra visione per non stare sempre a rincorrere il mercato privato, che fino a ora si è voluto favorire”. Calare dall’alto iniziative di restituzione della città ai residenti come fulmini a ciel sereno porta insomma nel terreno dell’insuccesso e la scarsa presa del progetto di Lisbona ne è una dimostrazione. Occorre piuttosto lavorare su un’infrastruttura pubblica già esistente ed è per questo che lì dove già le amministrazioni si stavano spendendo in questo senso, la pandemia potrebbe trasformarsi in un’opportunità per un nuovo diritto alla città.
“Non si può cambiare la città solo con le piccole iniziative, serve piuttosto che esse si sommino ad altre misure più forti messe in campo per calmierare il mercato”, sottolinea Gainsforth. “All’estero molti centri già da anni stavano facendo battaglie in questo senso, vedi Parigi, che ha ingaggiato una battaglia legale sul tema degli affitti brevi e ha approvato norme per favorire la residenzialità, o Berlino, con le sue leggi sugli affitti. Luoghi dove già si avevano segnali sulla volontà di cambiare la situazione e riportare a riabitare la città e dove la pandemia potrebbe dare ulteriore slancio positivo e offrire nuove opportunità in questo senso”.
San Francisco nel 2015 ha limitato a 90 giorni il periodo di tempo in cui poter affittare la propria casa su Airbnb, Barcellona da anni ha intrapreso una guerra ai locatari degli affitti brevi senza autorizzazione, a Parigi la sindaca socialista Anne Hidalgo ha introdotto misure molto restrittive nei confronti della piattaforma e fissato un tetto massimo di locazione di 120 giorni, a Berlino le seconde case non possono essere affittate per più di 60 giorni e l’amministrazione locale ha un potere molto forte riguardo alla concessione dei permessi. Il diritto alla città nella sua versione più recente, quella piegata all’overtourism, era insomma già stato messo in discussione in questi luoghi, dove ora quell’uragano economico, sociale e sanitario che è stato il 2020 sta trovando terreno fertile perché la trasformazione vada avanti, come mostrano d’altronde nuove iniziative forti come quella sugli espropri. Non è un caso che proprio alcuni di questi centri, come Parigi e Barcellona, siano all’avanguardia anche nel discorso della città dei 15 minuti, quel nuovo modello urbano post-pandemico più a misura di residente, fondato sulla prossimità delle attività, dei servizi e delle relazioni.
Più difficile sarà invece un cambio di paradigma nel diritto alla città lì dove fino a ora sono mancati ogni forma di pianificazione e di intervento pubblico sul tema della casa. Come l’Italia, dove la questione di limitare Airbnb è sempre stata un tabù nel dibattito politico. Nel 2020 le proposte in chiave trasformativa non sono mancate, ma tutto si è fermato ai proclami e anzi dopo l’entusiasmo iniziale ogni slancio di rivoluzione urbana che rimettesse al centro la residenzialità ha perso di velocità. Quando tutto sarà finito è molto probabile allora che la vecchia città italiana, totalmente sacrificata al turismo e alle sue logiche, tornerà a farla da padrone. Con buona pace dei residenti, respinti ancora una volta da uno spazio di cui si erano illusi di potersi riappropriare.