Scrittore gotico e ironico, elusivo e geniale, uno dei più grandi autori del Novecento italiano.
Matteo De Giuli è scrittore e editor. È stato senior editor del Tascabile. Ha collaborato con Treccani, Radio3 e Rai3. Ha scritto "Buoni a nulla. Fondamenti di una teoria dell'ozio" (Quanti, Einaudi, 2022) e, con Nicolò Porcelluzzi, "MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)" (Not, NERO editions, 2021).
Matteo Moca si è laureato in Italianistica all’Università di Bologna con una tesi su Landolfi e Beckett. Attualmente è dottorando in letteratura italiana e studia il surrealismo tra Bologna e Parigi. Collabora, tra gli altri, con Gli Asini, Blow Up, Alfabeta2, minimaetmoralia. Il suo ultimo libro è "Un' esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico" (LiberAria, 2022)
La pubblicazione del saggio Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba, 2020) di Matteo Moca è lo spunto per questa conversazione su Tommaso Landolfi.
Matteo De Giuli: In questi giorni sto rileggendo Racconto d’autunno. Inizia come un romanzo sulla Resistenza nella provincia italiana. Un partigiano (o forse è un brigante o un renitente) è in fuga nei boschi, inseguito da una pattuglia dell’esercito. Dopo poche pagine il lettore si ritrova però dentro una storia gotica, dell’orrore: appare “un cupo maniero”, la tipica casa stregata. È abitata da un vecchio che offre rifugio al protagonista. Durante la sua permanenza, l’uomo vaga per i corridoi del castello, avverte una presenza inquietante, si convince di sentire dei rumori indefinibili. A questo punto il lettore si aspetta che l’elemento perturbante prenda il sopravvento con l’arrivo di creature mostruose, o qualche fantasma, un vampiro, e invece non succede praticamente nulla. Gran parte del libro è un’illusione onirica, paranoica, l’incubo della ragione in un uomo con i nervi a pezzi. È un romanzo puramente psicologico, allora? No, perché nel finale, in ritardo sulle convenzioni del canone, l’ansia accumulata esplode finalmente in una scena pienamente sovrannaturale, un fenomeno occulto [che non mi interessa svelare qui].
Racconto d’autunno non è il mio Landolfi preferito ma c’è tutto quello che amo di Landolfi: l’eccitazione del gioco intellettuale; lo stile volutamente superato, elegante, talmente raffinato da riuscire a essere sia ottocentesco che d’avanguardia, sperimentale. Si dice che Landolfi buttasse giù di getto i suoi racconti, e correggesse solo qualche dettaglio in seconda battuta. Mi chiedo se sia vero, se sia possibile, vista la maniacalità della sua scrittura: sceglieva alcune parole perché vibrassero nella testa di chi legge, come un bagno di campane tibetane.
Pesco, quasi a caso, dalle prime pagine di Racconto d’autunno:
I soldati mi intimarono l’alt e, come non obbedii, mi salutarono con qualche colpo di moschetto. Dovetti pertanto ritornare precipitosamente sui miei passi: speravo che coloro non si sarebbero, dopotutto, arrischiati in un bosco sconosciuto. Li udii presto, invece, sfrascare sulle mie orme: mi gattonavano.
Una premessa: Landolfi è uno scrittore tenebroso, come Poe, come Lovecraft. Ma è anche capace di bilanciare l’esistenziale e l’ironico, come Gogol’: ogni riflessione profonda viene quasi sempre frenata da una battuta, l’angoscia si intreccia al sarcasmo che però non arriva mai a soffocare il sentimento. In questo paragrafo c’è una sparatoria, è il momento più pericoloso della fuga del narratore tra i boschi, e subito arriva il contrappeso ironico: “mi salutarono con qualche colpo di moschetto”. La frase con cui chiude invece è sinestetica: Li udii presto sfrascare sulle mie orme: mi gattonavano. Riesce a farti sentire il rumore di rametti spezzati, l’odore delle foglie bagnate sollevate dai passi dei soldati.
Matteo Moca:Racconto d’autunno è stato scritto a caldo dopo la fine della guerra nel 1946 e pubblicato l’anno dopo. Custodisce uno dei procedimenti chiave dell’opera di Landolfi che tu metti bene in luce, ovvero l’utilizzo del reale come semplice pretesto per poter dare poi sfogo all’invenzione. La vicenda narrata subito si distacca dal tipo di narrazione della Resistenza divenuta immediatamente canonica in Italia e si fa altro, l’andamento del racconto svia subito dalla Storia collettiva, che sparisce dall’intreccio per la quasi totalità del romanzo, per condensarsi in una storia d’amore e di morte che si svolge in un maniero. Questo spostamento ha una natura complessa nella quale però è ravvisabile uno degli elementi fondamentali e ricorrenti della scrittura landolfiana. La casa natale di Landolfi a Pico in effetti, durante la guerra, è stata saccheggiata dai soldati, e questo costituirà una ferita vera e propria nella vita dello scrittore in quanto sentirà profanata, come ha notato la figlia Idolina, la casa in cui erano nate le sue prime opere, cioè il Landolfi uomo: questa lesione entrerà all’interno del Racconto d’autunno ma, come sempre accade in Landolfi, il reale viene mediato e così questo dolore sarà interrogato attraverso lo schermo della letteratura.
Nel romanzo viene in effetti raccontato un accadimento biografico, ma questo viene mescolato con la più naturale inclinazione nera della sua scrittura, tanto da indurre il lettore a perdere il contatto con il reale e ritrovarlo solo nel finale. Sta in questo procedimento una delle chiavi di accesso più importanti per l’opera landolfiana, perché il fantastico, a cui spesso la critica reindirizza la sua scrittura, straborda dai limiti della definizione trasformandosi in realtà, nell’unico modo che ha lo scrittore per narrare la sua storia: dal reale parte sempre Landolfi e al reale fa ritorno. MDG: Nei libri di Landolfi la scintilla dello “strano”, del perturbante, si accende quasi sempre in un contesto tutt’altro che eccezionale, lo sfondo è anzi di solito la quotidianità pigra di una cittadina di provincia come era la sua Pico. E c’è un altro elemento ricorrente: spesso il piano fantastico è innescato da oggetti e animali: oggetti che rivelano poteri sorprendenti o animali con comportamenti inaspettati.
Faccio un paio di esempi. In “La Penna” un poeta non riesce più a scrivere perché tutte le penne che usa iniziano a impuntarsi, smettono di funzionare, lasciano solo una traccia pallida di inchiostro sulla pagina. Il poeta scopre che non è un caso: le penne sono diventate vive, pensanti, coscienti, e si oppongono alla sua poesia scadente e affettata.
Il romanzo breve Le due zittelle – zittelle, con due t, per distaccarsi dall’italiano corrente –, è la storia di due sorelle che si trovano a vivere con Tombo, una scimia – scimia, con una sola m, per rafforzare l’arcaismo del titolo – lasciata in eredità dal fratello, grande viaggiatore.
Tombo inizia a comportarsi come un essere umano, è sessualmente attratto da una delle zitelle. Di nascosto fugge dalla gabbia per intrufolarsi nella chiesa del paese, e viene sorpreso sul fatto mentre divora le ostie consacrate, orina sull’altare, imita il prete nell’atto di dire messa. Viene giustiziato e condannato a morte con uno spillone, in una sorta di goffa rievocazione storica della Santa Inquisizione. Durante l’esecuzione l’animale diventa definitivamente umano.“E neppur fu cosa d’un momento, e Tombo sentì fin troppo di morire”.
“La spada” invece è la storia di Renato, un nobile decaduto, discendente inetto di una famiglia un tempo potente (“la sua illustre prosapia pareva destinata a estinguersi in lui”), che un giorno trova una spada prodigiosa capace di tagliare in due qualsiasi cosa senza alcuno sforzo (“contro qualunque oggetto vibrata, quella lama di sole non sembrava conoscere ostacoli e s’apriva la sua via”). Il nobile annoiato sembra ritrovare interesse nella vita, uno scopo addirittura, ma dopo aver usato la spada per affettare di tutto – statue, alberi, rocce, mucche vive –, viene di nuovo sopraffatto dall’inedia. A questo punto, dal nulla, entra in scena una ragazza: è la principessa delle favole, bionda, timida, bellissima, che dichiara amore eterno a Renato. Lui la caccia: non vuole essere amato, in un impeto di violenza si convince che la sua “grande impresa” da cavaliere, quella per cui è venuto al mondo, è uccidere la fanciulla, tagliarla in due con quella spada potentissima. Solo dopo l’assassinio capisce di aver perso l’unica occasione di essere felice, e getta via l’arma.
Come dicevi anche tu, i racconti di Landolfi seguono spesso uno schema simile: la vita del protagonista è dominata da una noia esistenziale, da una solitudine pigra e malinconica. Poi succede qualcosa di fantastico che sembra riscattarne le sorti. Ma il fantastico non dura molto, e diventa assurdo, diventa orrore, violenza, mostruosità. Alla fine si torna quasi sempre al punto iniziale, a quella stasi accidiosa e indifferente. Landolfi ci fa tornare dove eravamo partiti, ma nel frattempo ci ha reso diversi, un po’ più inquieti. Tu nel libro riporti una bellissima citazione di Giacomo Debenedetti: “Landolfi non è uno che scagli la pietra e nasconda la mano; mostra anzi la mano, ma intenta ad altro gesto: quello, poniamo, di guardare l’orologio o di fare ombre cinesi”.
MM: La citazione credo sia decisiva per comprendere uno degli aspetti centrali dell’opera di Tommaso Landolfi, ovvero quel suo muoversi sottilmente tra la massima chiarezza e l’oscurità, tra la presenza e l’assenza scrive Debenedetti. E in effetti la risposta più comune in chi si imbatte nell’opera di Landolfi per la prima volta è un sentimento che mescola attrazione e repulsione proprio perché nel combattimento di Landolfi tra l’oscurità e la chiarezza, e quindi tra storie reali e storie immaginate, lo scrittore sceglie una terza e scomoda via perché, sono sempre parole di Debenedetti, sceglie di mettere “tutta la chiarezza al servizio del massimo di procurata oscurità, o meglio occultamento”.
Il lettore allora, se non riesce a capire o condividere le regole del gioco landolfiano, si può sentire preso in giro, muoversi in cerchio dentro i racconti e i romanzi senza riuscire a carpirne alcun senso (se mai questo c’è). Ma il meccanismo del “perturbante”, perfettamente descritto da Freud, sta proprio qui, nella presenza in ciò che conosciamo bene e che ci è familiare di un elemento spiazzante e inquietante che poi ci perseguita: e che cos’è che ci è più familiare se non la nostra lingua?
Ed eccoci al punto di cui tu parli. Perché gli oggetti e gli animali sono prima di tutto, per Landolfi, fatti di linguaggio, di significanti che generano significati che hanno una precisa posizione nella nostra percezione del mondo e se qualcuno, come un eccentrico nomoteta platoniano che anziché creare nuovi nomi li confonde come in una matrioska, sposta o mette in dubbio questi strumenti di cui ci sentiamo padroni non possiamo che prenderlo per un pazzo o uno sbruffone (cosa che credo, tra l’altro, non sarebbe dispiaciuta a Landolfi) perché a venire messa in crisi è la nostra visione del mondo, noi stessi.
Tu fai giustamente riferimento al valore degli oggetti nell’opera di Landolfi e hai citato “La spada”, raccontando quello che succede a uno degli eroi più tragici dell’opera landolfiana: lo spostamento di significato rispetto agli oggetti è decisivo perché quella spada che Renato trova, spicca per la sua valenza simbolica e dietro di essa si può riconoscere, senza molti sforzi conoscendo il percorso landolfiano, un riferimento alla scrittura, al linguaggio che, come la lama omicida, diviene portatore di morte, di annientamento. Renato vuole possedere la donna, è il suo desiderio più profondo, ma in una chiave simbolica, quella donna diventa simbolo della realtà e la lama del linguaggio, cioè di quello strumento che noi crediamo di poter padroneggiare per muoverci nel reale e comprenderlo.
Ma per Landolfi questa nostra padronanza non esiste, è continuamente messa in dubbio dalla realtà stessa che non si fa addomesticare dal linguaggio e la lama quindi è solo una violenta e sofferente illusione. E allora, sempre in chiave simbolica, l’unica strada è il silenzio, cioè l’uccisione della donna, e quindi della realtà stessa. E credo sia utile anche ricordare come Landolfi non accettasse in alcun modo di essere definito uno scrittore “fantastico”, in parte per dare seguito al personaggio inclassificabile che critica e lettori stavano identificando. In Rien va Landolfi infatti scrive:
Su una rivista italiana, a nessun proposito, giudizio sommamente lusinghiero sulla mia «opera»; e tra l’altro vi son definito, con lodi da fare il viso rosso, «autore di racconti fantastici». Sommamente lusinghiero, cioè inteso come tale: come mi dispiace, al contrario, e come è anacronistico.
Il piacere che prova Landolfi ad aumentare il senso di mistero della sua opera può risultare in effetti fastidioso, ma io credo che non ci sia pagina landolfiana che non nasce dalla realtà, dagli oggetti e animali che tu citi e il fantastico è quindi spesso solo una conseguenza di questa visione del mondo e del linguaggio.
MDG: Il racconto “La spada” ci costringe anche a ragionare un po’ di più sulle figure femminili nei libri di Landolfi, dove la donna è archetipica, idealizzata, eterna, divina, e per questo fonte di un amore soffocante e alieno, impossibile da gestire. Le donne di Landolfi finiscono quasi sempre per essere raccontate con sospetto, sono bersaglio di assurde violenze fisiche e psicologiche da parte di uomini accecati dal fastidio, dalla perversione, frustrati dalla mancanza di comprensione. Ogni tanto non sono neanche davvero donne, sono creature bestiali, come la licantropa in La pietra lunare, oppure sono assenze, simulacri, come in “La moglie di Gogol’”, uno dei racconti più ironici e grotteschi di Landolfi:
La moglie di Nikolak Vasil’evič, è presto detto, non era una donna, né un essere umano purchessia, neppure un essere comunque vivente, animale o pianta (secondo taluno, peraltro, insinuò); essa era semplicemente un fantoccio.
Tu scrivi che la rappresentazione della donna in Landolfi è in sintonia con quella che ne fanno Breton e i surrealisti: una sintesi di figura angelica e demoniaca. Spesso però sfocia in un’autentica misoginia. Prendi la raccolta Le labrene: nel primo racconto omonimo (uno dei suoi più belli, anche qui con un animale comune-fantastico, ma lasciamo da parte per un attimo questa cosa) a un certo punto una moglie viene picchiata dal marito geloso. Nel secondo racconto, “Encarte”, un signore, per rimettere al suo posto la moglie che non lo rispetta più, chiede al suo gemello più abile e determinato di passarci una notte a letto. Il terzo racconto, “Perbellione”, inizia così: “Che cosa teme più che tutto una moglie? Essere picchiata da un marito senza scrupoli. Teme, nel senso che lei teme fisicamente; ma teme, anche nel senso che le percosse sono il solo mezzo per ridurla alla ragione”. Nel quarto racconto, che si chiama direttamente “Uxoricidio”, un marito riesce a uccidere sua moglie senza usarle violenza fisica, facendola soffocare nel pianto mentre le rinfaccia tutte le sue presunte malefatte. E ci sono tanti altri esempi, mi viene in mente su tutti l’incipit fulminante di “L’eterna provincia”: “Ho una gamba di legno. Ragion per cui odio le donne”.
Non mi interessa una lettura moralistica. In più, a guardare bene, quella di Landolfi non è una misoginia “programmatica”, totale, non è insomma un manifesto politico, e ci mancherebbe: alla fine, anzi, i mariti, questi uomini sospettosi e spietati che non si fidano delle proprie mogli e non si permettono di comprenderne l’amore, quasi sempre si autodistruggono, risucchiati nel vortice della loro violenza. Ma, lo stesso, mi ha comunque sempre colpito il fatto che questa misoginia non sia stata mai davvero problematizzata – o almeno così mi sembra, tu conosci gli studi critici su Landolfi molto meglio di me, che non ho mai frequentato l’accademia: mi sembra che continui a essere letta in maniera troppo superficiale, solo come una sua “caratteristica vena polemica”, come mi ricordo di aver letto da qualche parte.
MM: No, in effetti hai ragione, anche nella critica landolfiana viene considerata in maniera maggioritaria la valenza simbolica delle figure femminili e questo credo obbedisca anche a un modo un po’ vecchio di fare critica letteraria, non considerando per esempio molti aspetti che esulano dal testo e non utilizzando strumenti che oggi sono parte organica della critica letteraria, ma non molte sono le voci contemporanee che si occupano di Landolfi. Partendo però dal dato di fatto che tu bene hai messo in luce, e cioè di come molte delle donne landolfiane siano vittime di violenza o addirittura uccise dagli uomini, credo che sia anche importante valutare il significato simbolico delle figure femminili, che non ha a che fare solo con il rovesciamento di cui tu parli, quanto invece ci invita, come tutta l’opera landolfiana, a scoprire quell’oscurità dietro la chiarezza di cui parlava il Debenedetti che abbiamo citato prima.
Questo non significa ovviamente non considerare ciò che in prima battuta le immagini evocano, però credo sia un invito a fare un passo a lato e cambiare prospettiva perché anche per quanto riguarda questo tema, se le cose si guardano così come sono, si corre il rischio di non valutare ciò che di importante nascondono e che ne è il cuore centrale. Faccio solo un esempio, riferendomi al racconto “Piccola apocalisse” che, oltre a essere uno dei più bei racconti landolfiani, mi pare utile per discutere una questione così complessa.
All’inizio del racconto ci sono quattro uomini, A, B, C e D, che sono seduti in un caffè e a un certo punto i primi tre decidono di andare in cerca di ragazze con cui trascorrere la notte, mentre D preferisce tornare a casa e cimentarsi con la scrittura di un racconto, che è riportato nella seconda parte di “Piccola apocalisse” e si intitola “La donna nella pozzanghera”. In questa narrazione si assiste all’incontro tra il narratore, che è lo stesso D, e una donna, sempre nella cornice di un ristorante: quando la donna, ammantata da un’aura di inconoscibilità, leva il suo occhio verso D emerge proprio l’impressione di un’impossibile comprensione della sua natura, segnata forse dal fatto che essa sembra racchiudere in sé l’eterno femminino che caratterizza anche la Nadja di Breton:
Solo con quel suo occhio nei miei ella parlava e diceva qualcosa che non riuscivo a intendere del tutto; credevo, a momenti, di capire, ma subito sentivo oscuramente che molto ancora mi mancava, ed era un tormento per me: ciascuno ha sentito una volta il suo destino passargli accanto.
Quando la donna improvvisamente si alza per uscire, D, terrorizzato dal rischio di perdere per sempre quell’essere umano verso cui sente una grande attrazione, comincia a seguirla. Inizia da questo momento un pellegrinare tra le vie della città, un movimento che da vicino ricorda la quête del protagonista bretoniano in Nadja. La donna infatti, padrona di un suo linguaggio per una lettura fedele del mondo, proprio ciò che manca al protagonista, e a Landolfi, e di cui va in cerca, lo guida in una dimensione alternativa fino alla conclusione in periferia, dove la donna “comincia a impallidire, a struggersi, in un suo consumarsi tutto guizzi e sussulti”, giungendo a scomparire dentro una pozzanghera, luogo finale della sua dissoluzione e inequivocabile segno della sua imprendibilità:
Quando la melma le arrivò al collo mi sorrise debolmente in segno d’addio, mormorando una parola che non riuscii a intendere; dopo un poco abbassò le lunghe ciglia, forse per evitare di lasciarmi intendere che il sapore della melma le era sgradevole. La fronte convessa fu quella che impiegò più tempo a scomparire.
La donna si costituisce quindi in questo caso come un miraggio inafferrabile, ma ancora una volta dietro questo c’è altro, c’è, ancora, una rappresentazione del linguaggio e così la sua scomparsa nella pozzanghera rappresenta un impossibile possesso della realtà attraverso la parola.
Ma non è l’unico caso in cui, se mi è concessa una piccola semplificazione, la donna ha un valore e una posizione superiore a quella dell’uomo: pensa al racconto “La muta”, dove ancora una giovane ragazza, simbolo di un impossibile possesso del linguaggio, viene uccisa violentemente da un uomo che ripensa al suo atto efferato ma riconosce nel momento in cui sta per essere giustiziato la superiorità della sua vittima, oppure a Gurù, celebre protagonista de La pietra lunare, simbolo di uno statuto superiore nel suo essere creatura sovrumana che vede e sente ciò che gli uomini non possono né vedere né sentire.
MDG: Ho scoperto Landolfi quando ero adolescente, grazie a una copia di Rien Va nell’edizione Vallecchi che trovai in casa. Era impossibile capire di cosa parlasse. La copertina era verde militare, senza illustrazioni: solo nome dell’autore e titolo. La quarta era completamente vuota. Sulla bandella anteriore c’era una breve nota: “Come di consuetudine, per desiderio dell’autore, anche il risvolto di questo nuovo libro di Tommaso Landolfi è in bianco: il libro rimane pertanto affidato esclusivamente all’intelligenza del lettore”.
Era il momento giusto nella mia vita di lettore per poter apprezzare un gioco del genere, mi ero appena preso una sbandata per gli scrittori OuLiPo, e invece rimasi deluso, il libro mi sembrò un flusso presuntuoso e troppo disordinato di pensieri (mi sarei innamorato di Landolfi qualche anno più tardi, leggendo la raccolta Le più belle pagine, curata da Calvino).
Non sapevo, all’epoca, che l’opera di Landolfi fosse una cipolla “fatta a strati molteplici”, come egli stesso la definì, e che avevo iniziato da una delle bucce più strane e complesse. Anche oggi non riesco a godermi davvero Rien Va, e neanche gli altri due meta-diari, LA BIERE DU PECHEUR e Des mois. Mi sembrano utili soprattutto alla costruzione del personaggio-Landolfi, intellettuale ostile e riservato, quello che in una delle sue poche foto disponibili si copre il volto con la mano destra, quello che non rilascia interviste, quello che si è fatto riprendere soltanto una volta dalla televisione in tutta la sua vita, che non partecipa agli eventi della società letteraria e che, appunto, parla di sé solo attraverso libri autobiografici intricati e meta-letterari.
Qui va citato il caso di “La passeggiata”, un racconto-esercizio di stile volutamente incomprensibile, forse la più alta espressione del personaggio-Landolfi:
La mia moglie era agli scappini, il garzone scarpugginava, la fante preparava la bozzima… Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace.
Va avanti così per due pagine. Critici e recensori caddero nella trappola e scrissero, sbagliandosi, che Landolfi aveva inventato una sorta di raffinato grammelot letterario. In realtà aveva scelto parole desuete, arcaiche, alcuni regionalismi, ma erano comunque tutti termini che si trovano facilmente in qualsiasi dizionario. In un racconto successivo, “Conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni”, Landolfi ebbe modo di bearsi del suo scherzo.
MM: Nel mio saggio faccio riferimento a due principali strategie linguistiche dell’opera landolfiana, da una parte quelle storie, come il Dialogo dei massimi sistemi, dove il linguaggio è fondato su parole inventate che hanno un unico parlante che non può quindi che cadere nell’afasia e poi nella follia, dall’altra invece vicende in cui Landolfi utilizza un linguaggio composto esclusivamente da parole che hanno smarrito il loro uso, una lingua pressoché morta dove però esiste ancora un’ultima relazione con il mondo. A questo secondo tipo di lingua risponde, per esempio, l’incipit del racconto “La passeggiata”che tu hai citato. Qui lo scherzo è tutt’altro che puro divertimento perché qui Landolfi ci ricorda che esiste un esteso patrimonio lessicale che giace dormiente nei dizionari più comuni e maneggevoli: ma queste parole che statuto hanno?
Mi sono soffermato a lungo su questo interrogativo e credo davvero che se si volesse forzare l’interpretazione di Landolfi e individuare un unico grande e ossessivo tema da cui scaturisce tutto il resto, questo è quello del linguaggio. E i diari che tu citi sono anche, forse soprattutto, indagine su questo perché in pagine in cui, come dici, Landolfi costruisce il suo personaggio letterario, ci sono continuamente delle incrinature, dei vuoti in cui trovano spazio confessioni intime su questo corpo a corpo con il linguaggio e quindi con la vita! Per esempio Des mois si apre proprio con un riferimento alla parola, in questo caso al desiderio del Landolfi ragazzo che desidera crearsi una propria lingua:
Quando ero ragazzo, volli una volta foggiarmi una lingua personale: mi pareva necessario cominciare di lì; una lingua vera e propria, con tutte le sue regole. Intesi bene che per ciò dovevo rifarmi da ancor più lontano, ossia inventare in primo luogo un paese, un popolo, una storia e così via, la lingua essendo il supremo fiore anzi frutto di una civiltà: empii fogli e fogli, che ogni tanto ritrovo. E forse questo mi si configurò nel capo come la ricerca di un’altra cosa. Ebbene ero votato all’insuccesso.
Sotto l’ombra di questo insuccesso si muove secondo me tutta l’opera landolfiana e in questo senso ti dico che ogni invenzione, ogni luogo fantastico, ogni vicenda e ogni animale fantastico nasce nel linguaggio. Per esempio, riguardo agli animali fantastici, c’è uno strano essere nelle pagine landolfiane che ha uno statuto speciale e, credo, rivelatorio rispetto a questa relazione tra parola, fantasia e creazione.
Mi riferisco al “porrovio” (ma ce ne sono anche altri, la “cania” o la “verania”), che appare nel racconto fantascientifico “Cancroregina” (“Il porrovio! Che bestia è il porrovio? Mi duole dire che io stesso non lo so, la medesima cosa mi capita colla beca. Lui ha un’aria tra il tapiro e il porco o il babirussa, è quasi senza collo…”), ma anche, cosa sorprendente, nel diario Rien va, cioè all’interno di un dispositivo letterario che dovrebbe essere il resoconto dell’esperienza fenomenica dello scrittore. Il mostro che popola il racconto fantascientifico di “Cancroregina” si trasforma in un mostro linguistico che appare nella vita di Landolfi in tutta la sua concretezza:
Stanotte ho incontrato la bestia folgorosa. Era lì nell’ombra. Un tempo la chiamai Porrovio e la definii una parola. Mentivo. È la mia bestia… BESTIA FOLGOROSA.
Quale statuto dare a questa apparizione? Credo che nella risoluzione impossibile di questa domanda e nell’ossessione per la “ricerca e la sistemazione di parole” stia il mistero di uno degli autori più grandi ed elusivi della nostra storia letteraria.