L ’unico paradiso concepibile in terra è il perduto”, si legge in uno di questi racconti tropicali di Carlo Coccioli, che vanno sotto il titolo rotondissimo di Uno e altri amori, volume ripubblicato oggi da Lindau dopo esser uscito in Italia negli anni Ottanta per Rusconi. Racconti sorprendenti, inquieti, e per questo dico tropicali, assieme solari e decadenti – ma di un decadentismo che si fa a tratti postmoderno grottesco (non cerebrale) – che certo affascinarono l’inquieto Tondelli, e che certo rimasero totalmente sconosciuti in Italia (desapercibidos si dice in spagnolo più correttamente, ovvero inosservati, ma c’erano, visto che uno di essi fu persino pubblicato da Playboy nel 1981). Coccioli, si sa, è autore scomodo per i suoi tempi, dimenticato perché difficile da catalogare in un’Italia che ancora scodinzolava alle muse del Neorealismo. Ma oggi sentiamo in lui un’affinità pazzesca. Uno scrittore che parla della vita sessuale delle piante e degli animali, che è sboccato con Dio tanto da paragonarlo ad un caldo asciugamano – pur sempre usando la logica e la devozione dell’autentico credente – e mescola le lingue alla frontiera tra il Texas e lo stato di Tamaulipas in Messico, quasi fosse uno scrittore chicano-italiano antelitteram (si veda ad esempio il racconto che segue), e dona l’ubiquità al lettore ritornando repentinamente alla campagna toscane e alla sua Firenze o Parigi, come abitato da un Altro fatto di molti tempi simultanei, l’eco di molte divinità e diavolacci che danno vertigini. Non solo le divinità antropomorfe, per lui che si disse politeista e affascinato dalle giovinette divinità blu induiste come da quelle ammantate di pelli di ocelotl degli Aztechi. Politeismo che quasi permette a questi racconti di sfociare nel fantastico, nell’horror e nell’erotismo priapesco, come ne “Il pesce volante”, in “Ceiling fan”, ne “La gringa”. Il lettore di questi racconti di Coccioli appena usciti, se avrà la giusta predisposizione, ne rimarrà affascinato come masticando un frutto esotico, carnoso, dolciastro, al limite della putrefazione, per questo loro senso di vita esuberante e morte incombente assieme. Non so se siano la migliore introduzione all’autore, che nella forma romanzo si fa meno fulmineo e più ieratico, ma sicuramente saranno una sorprendente scoperta.
Alessandro Raveggi, autore del romanzo su Carlo Coccioli Grande karma, Bompiani.
C’era un uomo piccolo e magro dalla pelle gialliccia e con un insolito pizzo nero alla Ho Chi-minh ossia una barbetta caprina. Doveva avere poco meno di quarant’anni. In testa un panama grigio di quelli cari, valgono sui trenta dollari, con intorno una fascia nera. La giacca pure nera di foggia ottocentesca, a godet, gli arrivava fino quasi alle caviglie. Per cui il pantalone a strisce, da redingote, lievemente a sbuffo, sostenuto da ricche bretelle, si notava appena. Dalla tasca destra di questo indumento un po’ pagliaccesco uscivano col permesso della giacca, come non saprei, due pesanti catene di argento così lunghe che poco mancava che toccassero il suolo. Calzava scarpini di coppale dal tacco alto.
Ballava con una ragazza più bassa di lui, parecchio, cioè quasi una nana, ma non brutta, carnosetta, olivacea, il cui volto non si vedeva bene perché lui, avvinghiandola, le si teneva addosso, storto, talché le tese del panama la coprivano. La ragazza indossava una blusa rossa e una sottana nera (quasi la bandiera degli scioperi). Portava scarpe dal tacco prodigiosamente alto. E aderiva tutta, ballando, al corpo dell’uomo; come se in lui si proteggesse. Ma chi poteva, lì, voler farle del male?
Coppia inseparabile, anche fra un ballo e l’altro, la quale rigorosamente non ballava che danzones e cumbias. Lui, nel momento di entrare nella pista, faceva oscillare durante esattamente dieci secondi (li contava con le labbra) le sue interminabili catene d’argento.
Erano zoots o chicanos o pachucos: messicani degli Stati Uniti vistosamente addobbati secondo la moda che si diffuse gli anni della guerra. Chi avesse potuto ascoltarli (si scambiavano ogni tanto parole a bassa voce) avrebbe apprezzato un linguaggio unico, solenne e plebeo. Un inglese stracolmo di americanismi, satiricamente storpiato, con selvaggia allegria, per farne un argot messicano ma di quelli che in Messico si capiscono solo in certe fasce sociali.
Avveniva un sabato pomeriggio, o sera, in maggio, in una città abbastanza popolata del Texas, diciamo a trecento chilometri dalla frontiera. C’erano due orchestre che naturalmente stridevano al massimo possibile, l’una a una cinquantina di metri dall’altra, dato che la felicità di essere, o meglio l’oblio di essere minacciati dal non-essere, è per i messicani rigorosamente proporzionale alla possibilità di naufragare nel rumore. Delle due orchestre che suonavano al tempo stesso, strepitando, i danzatori sceglievano mentalmente quella che preferivano ed eliminavano mentalmente il frastuono parallelo. Sono esercizi mistici. Una delle due orchestre era folclorica, tre suonatori languidi vestiti da rancheros del nord, deliberatamente stonati, stupendamente affranti dalle calamità della vita, maschi femminoidi dal sombrero di Sonora poco meno che texano. L’altra orchestra si trattava di giovinetti americanizzati, gringoizzati, il suo nome era qualcosa come Chicanos Band, musica moderna, urbana, con tendenze al rock anche quando erano danzones o cumbias (il pubblico, fischiando, li richiedeva). Il pubblico totalmente ispanico.
Anche i poliziotti che giravano a coppie, un uomo poliziotto e una donna poliziotta, tenevano appuntata sulla tasca destra del giubbotto una targhetta metallica coi loro ispanici nomi e cognomi. Erano quasi tutti Gonzalez, Rodriguez, Perez, Ramirez; ma c’era anche un Menchaca, e chissà come lo pronunciavano i superiori gringos. Poliziotti e poliziotte indossavano pantaloni aderentissimi, alle donne si vedevano le mutandine e agli uomini i testicoli e il membro. Gli uni e le altre portavano di dietro, al di sopra delle natiche, alcune cose come manette, ben lucide, spesso (oh sì) dorate, la pistola, naturalmente, e una specie di torcia elettrica, oltre a un astuccio rettangolare forse contenente munizioni o preservativi. Tutto ciò, qui, inutile: non succedeva nulla. I messicani, terribili south of the border, al sud della frontiera, specie se ubriachi, diventavano almas de Dios, cioè buonissimi, al nord della stessa frontiera (da varcarsi quasi inevitabilmente senza uno straccio di documento in tasca: i famosi indocumentados).
Gracchiavano dunque gli altoparlanti, era una serata di maggio, la piazza del Market si lasciava invadere dall’aroma acuto delle budella bruciacchiate. Dappertutto si vendevano fajitas. Birre a migliaia: da settantacinque cents a un dollaro l’una. Una marca di birra, Budweiser, organizzava, per non variare, il pomeriggio ispanico (probabilmente non solo per vendere birre ma anche affinché i «grassosi» si sfogassero tra loro).
Un uomo così basso da poter essere annoverato fra i pigmei, e deforme come sogliono essere, pare, costoro, ballava con una giovane donna lussuriosa, pesante per lo meno duecentocinquanta libbre. Lui aveva la bazza prominente, e si dimenava come lo fanno gli sciancati, ma non perdeva una danza e si divertiva un mondo. Il viso selvatico esprimeva il sano godimento di una masturbazione riuscita. Doveva essere un gran brav’uomo.
Solcavano la folla messicanine dalla pelle vellutata vestite da messicanine. Non era mascherata, era cerimonia. Indossavano nailon lievissimi, trine, veli, con la predominanza della loro bandiera nazionale: bianco rosso verde. Si adornavano di trecce, in alcuni casi fasulle, mescolate con grossi fili di lana dai molti colori. Erano tristi, melanconiche, funeree, pigre, distratte, e attentissime al volo di una farfalla.
Erano fiori di magnolia strappati crudelmente dall’albero e gettati sul selciato. Altre donne, per lo più basse e grasse, portavano per esempio pantaloni di saten viola. Più i corpi tendevano al mostruoso e più le loro portatrici li mettevano in evidenza. Cecità o masochismo? Quién sabe. Il passeggio era incessante fra il delizioso fumo delle budella bruciacchiate. In vari «puestos» si preparavano tacos.
Lo zoot che ballava con la ragazza dal volto invisibile riaccompagnò la dama al bordo della pista ma non si staccò da lei. Erano inseparabili. Benché tutto ciò avvenisse negli Stati Uniti d’America, c’erano anche non poche mosche, chiamate flies. Una di esse si posò sul panama dello zoot per ascoltare il seguente dialogo che si traduce testualmente:
«Ti diverti, cuore?».
«Sono, vita mia, incantata».
«Dovrebbe essere, la mia mammettina, sufficientemente stanca». «No, babbino, non lo sono. Col mio miele non mi stanco mai». «Malgrado che balliamo da ieri, madre mia».
«Papà mio, con te fino all’infamia…».
Eccetera.
Lui si chiamava Rodrigo Morales Acuña ed era originario di Ensenada nella California messicana. Era il quarto figliolo di una famiglia alla quale Dio ne aveva dati sedici. A quindici anni, bellino, era stato esportato oltre frontiera da una gringa appassionata. Che era riuscita, milagro, a ottenergli una residenza stabile. Dopo qualche anno, lui, esausto, l’aveva abbandonata. Erano le nove e dieci del mattino e stavano facendo colazione. La gringa non era ricca ma nemmeno povera. Ciò avveniva a San Diego in California, la California americana, e lui si era alzato e aveva detto:
«Col tuo permesso, miele, esco un momento per comprare un pacchetto di Camel e lasciare un messaggio per il mio amico Fernando».
Parlava spesso di questo amico Fernando, che naturalmente non esisteva. La gringa, svaccata nella seggiolina di vimini, un po’ affranta dal già solido calore, e dall’Ontologia in generale, aveva fatto cenno di sì con la testona. Rodrigo era uscito con le sue movenze di gatto bene educato e non si era fatto più vedere: nunca jamás. Forse, ma non è sicuro, si ritroveranno (visto che lì ci ritroveremo tutti) in paradiso.
Aveva una sommetta in dollari ed era salito su un autobus delle Greyhound Bus Lines ed era giunto nella città del Texas (dove ora si balla). Aveva trovato lavoro da un farmacista. Lì si era iniziato al gusto di determinate pasticche, ma al tempo stesso s’imbottiva di ricostituenti. Ora, o meglio Hic et Nunc: epoca del ballo di cui si è detto, lavorava come ragioniere in un negozio, anche all’ingrosso, di materiali plastici: ovverosia di tutto. Il lavoro era hard, che significa duro, e bisognava non mancarvi neppure una volta. Niente amigos Fernandos con Mr. Jacob Bernstein, che non era parente del celebre direttore di orchestra nuovayorchese, o forse lo era solo in Abramo, e che era nato col malumore appiccicato all’anima, quantunque a modo suo fosse generoso. Ogni fine di settimana, il sabato, Rodrigo Morales Acuña, che attualmente aveva poco meno di quarant’anni, si consacrava alle delizie del paciuchismo esasperato. Troppo difficile da spiegare. Basti sapere che si convertiva in un messicano secondo certi archetipi culturali non carenti di fascino.
Viveva in una stanza piccolissima ingombra di cose. La dominava un’immagine della madonna di Guadalupe sostenuta da minuti e paffutelli esseri alati, probabilmente cherubini, che si onoravano coi tre citati colori della bandiera messicana. Abbondavano, sparsi qua e là, piccoli ceri in bicchierotti fatti apposta per contenerli. Si comprano nei supermercati. Ognuno aveva un colore diverso ed emanava, consumandosi, un odore diverso. Colori e odori indicavano un determinato santo o «potere». Si pensi, per esempio, ai Sette Poteri Africani; che è devozione cubana, ma il Nostro la compartiva (allo stile suo: vagamente, messicanamente). Poi la stanza ospitava la statuetta di un bambinello rococò con una specie di tricorno settecentesco in capo e seduto su una seggiolina. Era il veneratissimo Santo Niño de Atocha, probabilmente il più miracoloso di tutti i gesubambini messicani. Vicino si ergeva un grosso membro virile di terracotta color carne: proveniva da Tlaquepaque, un villaggione presso Guadalajara rinomato per il suo artigianato di terrecotte. Poteva vedersi inoltre una curiosa gallinella rossiccia la cui parte superiore, o tappo, era dato sollevare: e allora, scolpito abilmente nell’argilla, si scorgeva un caballero in frac col finissimo pene infilato nell’accogliente vagina di una donnettuccia rosavestita, les jambes en l’air se mai questa espressione francese è stata meritata da qualcuno o qualcosa. Non lontana, e incollata alla parete, stava la fotografia a colori della Madonna Nera, la polacca, la quale forse era stata collocata lì come souvenir del viaggio in Messico, fra le folle plaudenti, di Juan Pablo II felicemente regnante. Aggiungo: una scatolina di legno con dentro marihuana; cinque riviste pornografiche nei confronti delle quali quelle che si stampano in Italia sono opere leonardesche; la fotografia in bianco e nero di una coppia il giorno delle nozze: lui col vestito nero e con la più truce faccia meticcia che sia dato concepire (la faccia dell’indio Geronimo parrebbe quella di un cordiale biondone al suo confronto), lei col velo bianco, tozza, il culo all’altezza delle ginocchia, ma commoventissima. Si sarà trattato, oh reliquia di una cultura borghese, del signor padre e della signora madre del Nostro?
L’importante non è sapere: è tollerare.
C’erano poi, nella stanza piccolissima, non pochi animali: un numero di mosche non precisabile; tre cucarace o piattole; una quarta cucaracia morta (debitamente schiacciata); circa duemila moscerini vari, sebbene le finestrelle a ghigliottina fossero difese da una rete metallica stretta stretta, inevitabile. C’erano ancora dei pentolini sporchi con resti di fagioli; due tortiglie secche; e, su un panchetto rotto, un sarape di Saltillo coi colori dell’arcobaleno (che porta fortuna). E finalmente una chitarra.
Finalmente no, perché c’erano altre cose. Il lettino con sopra un sarape sudicio e sul sarape sudicio si sdraiava, quando tornava dal lavoro o dal ballo, mister Rodrigo Morales Acuña, legalmente residente negli Stati Uniti di America e coi non pochi vantaggi del Social Welfare eccetera. Senza contare i virus, che non si discernono neppure col microscopio, e altre presenze minuscolissime ma con tanto diritto di esserci quanto mister Rodrigo Morales Acuña. E gli angeli, beninteso, c’erano gli angeli.