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el rapporto del CENSIS 2019 l’Italia viene descritta come un paese “in ansia”, “preda di una sindrome da stress esistenziale”, scossa da, testuali parole, un “furore di vivere”, e dalla sfiducia in sé, nel prossimo e nella politica. La nostra è una società atomizzata e costretta in uno stato di stress permanente, pertanto, aggiunge il CENSIS, le persone sono spinte a trovare “stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro”. Formula soffice nel definire l’incombenza di un futuro che, verrebbe da aggiungere, non solo è scomparso ma “ha cambiato segno”, per utilizzare un’espressione coniata dallo psicanalista Miguel Benasayag in L’epoca delle passioni tristi. Il futuro si è trasformato da promessa a minaccia, per altro pienamente normalizzata dalla retorica della scarsità post-crisi.
Oltre a legittimare il danno, la società contemporanea prescrive la beffa, chiedendo ai consociati di trovare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”, come scrisse il sociologo Ulrich Beck. Lo fa attraverso un processo di psicologizzazione e di astrazione dell’individuo dalla sua situazione presente, sociale ed economica, e con l’aiuto, fra gli altri, di un esercito di professionisti psi armati di diagnosi, pillole, training, yoga, mindfullness, coaching ed empowerment vari. Il filosofo Pierre Dardot e il sociologo Christian Laval la chiamano “ultra-soggettivazione”, ovvero “una soggettivazione per eccesso di sé su se stessi o ancora per superamento indefinito di se stessi”, in cui non si raggiunge mai un obiettivo o un fine ultimo perché il soggetto non è mai soddisfatto di sé e sente la necessità di “superare i propri limiti”.
Per l’individuo astratto e “ultra-soggettivato” tutto è indeterminato, tutto è possibile, basta volerlo. Sorridi, e vedrai che il mondo ti sorride. La negatività e l’errore diventano così sintomi da eliminare, alienare, normalizzare, ignorare per rimanere sofferenza sterile, inascoltata e fatalmente confinata nell’individuo. Come ha recentemente ipotizzato la British Psychological Society nel manuale diagnostico denominato Power-threat-meaning framework, proposto come alternativa ai modelli tradizionali di diagnosi psichiatrica, in realtà soffrire è un’esperienza fondamentale di contatto con la realtà: un adattamento alle minacce del potere, e cioè al mondo relazionale come ci è dato e fin dove ci è dato; insieme la sofferenza (sub-ferre; letteralmente trasportare) custodisce la spinta al cambiamento.
Nell’enciclopedia Treccani furore è uno “stato di grande eccitazione e turbamento mentale, provocato da ira o da altra passione violenta” e ancora “impeto”, “forza irresistibile”, “smania, frenesia”. Furore è un “essere fuori di sé”, che ci rimanda a due termini: eccitazione (excitare “spinger fuori”), passaggio di stato in cui si è spinti da una forza esterna al di fuori della propria soggettività; e passione, derivato da pathos (soffrire, emozionarsi) che, in opposizione al logos, costituisce il polo irrazionale della vita, indisponibile e “al di fuori” della sfera del volontario. Si patiscono, inevitabilmente e passivamente, inaspettatamente e involontariamente, spesso inconsapevolmente, quelle emozioni di fondo o atmosfere emotive che aleggiano tra di noi e strutturano (e, come ci auspichiamo, talvolta ristrutturano) il nostro sentire e agire. Contro il mito dell’essere se stessi, le soggettività sono come statue d’argilla plasmate e modellate a partire da una matrice affettiva comune. Come rami dello stesso albero, l’io e il tu non si separano alle radici ma più in alto, e dalle radici traggono una linfa comune. Furore è quindi qualcosa che non ci appartiene, che non nasce in noi ma con noi. È “tra” noi, e irrazionalmente ci spinge verso un nuovo equilibrio.
Secondo il rapporto del CENSIS, le persone sono spinte a trovare “stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro”.
Tuttavia, la civiltà occidentale ha rifiutato questa dimensione pre-soggettiva e patica dell’esistenza cercando di ricondurre l’irrazionale nel razionale, per renderlo maneggiabile, soggetto alla volontà umana. Sin da Platone le emozioni appartengono al soggetto, che le possiede più che esserne posseduto. Un’ulteriore svolta in questo senso arriva con Cartesio, radicato nella rivoluzione protestante, per la quale la salvezza dell’Uomo non giunge per grazia divina ma come conseguenza delle azioni dell’individuo. Per il filosofo francese le passions de l’âme sono particolari condizioni di alterazione della corretta facoltà di agire e di pensare. Ergo: se penso (correttamente), sono! Secondo Sergio Manghi, questa dissociazione ci permette “afferrare le emozioni attraverso pensieri e parole che sanno magicamente sospendere il nostro essere emozionati”.
Ancora, seguendo Michel Foucault, la società borghese è sorta dal gesto di divisione che oppone razionale e irrazionale, facendo della malattia mentale un oggetto del sapere scientifico e ghettizzando la follia. Infine, nella nostra società della prestazione, come scrivono Federico Chicchi e Anna Simone, il manager è diventato il nuovo modello antropologico di riferimento, ogni soggetto è esortato a concepire sé stesso come un’impresa: in una competizione senza sosta con il mondo, dobbiamo costantemente superare i nostri limiti secondo un “agire performativo orientato al successo” che ci costringe a focalizzarci solo su noi stessi e ad azzerare qualsiasi intralcio provocato da emozioni, sentimenti e paure. Anestetizzarsi per rinchiudersi in un presunto sé diventa lo stratagemma paradossale a cui siamo stati socializzati per resistere all’esposizione cronica ad un’atmosfera di minaccia ed emergenza, dove tutto è possibile tranne smettere di riverberarci continuamente in noi stessi e lasciare all’altro da sé le redini del gioco.
Il dualismo soggetto-oggetto e l’introiezione orientata al controllo degli stati motivazionali ed emotivi hanno indubbiamente un vantaggio in termini di comfort e di efficienza nel breve periodo. Tuttavia, ogni comodità ha un prezzo. L’inconsistente emancipazione imposta dalla modernità è stata un grande movimento da un più passivo essere abitati dal mondo, verso un attivismo ego-logico e volontario. Il soggetto, se “sano”, non mostra zone di confusione con l’oggetto-ambiente-altro, anzi lo domina. Dopotutto l’uomo vitruviano non è semplicemente l’imposizione della perfezione sul corpo umano, ma è soprattutto la rappresentazione grafica dell’estensione dell’umano in ogni direzione (versione pixellata e bidimensionale dello spettacolo totalizzante di distruzione dell’antropocene).
Ma andiamo a fondo in questa architettura del dominio: il potere anticamente irradiato da fuori o dall’alto ora giunge da dentro, è in sé. I limiti e le possibilità divengono attributi propri dell’individuo. La modernità ha declassato e rifiutato “l’essere fuori di sé”, rendendo intollerabile e malsana l’idea di un umano affettivamente determinato e multiplo. Essere, a tutti i costi! Ancora oggi, il cittadino ideale dell’occidente è definito in base ad un modello antropologico post-illuminista: l’uomo eterosessuale bianco, sano e abile, sobrio e rispettabile, istruito e benestante, agisce unicamente secondo la propria volontà, tutto il resto è superstizione, populismo, ignoranza, follia. Per essere padrone in casa propria ha però dovuto mettersi al riparo dall’inatteso e dall’involontario, rimuovendolo e abbandonandolo completamente.
Contro il mito dell’essere se stessi, le soggettività sono come statue d’argilla plasmate e modellate a partire da una matrice affettiva comune.
Cattivi maestri del pensiero radicale come Wilhelm Reich e Raul Vaneigem hanno descritto questa corazza emozionale e muscolare. Costruita dal soggetto per difendersi dal mondo, “insegna[ndo] al corpo come diventare insensibile, come opporre ostacoli agli affetti”, lo conduce a ritrovarsi rinchiuso e costretto all’interno di questa armatura, con il fisico che si irrigidisce e gli diventa estraneo, mentre la testa comanda e mantiene l’ordine. Non è nient’altro che il corpo insensibile della Gestalt di Perls, Hefferline e Goodman, nel suo sigillare “una disconnessione dalla continuità del campo unitario originale [unione tra psiche e mondo sociale esterno]”.
Un maestro dissidente della psicanalisi italiana, Elvio Fachinelli, invece, ha segnalato come la stessa psicanalisi abbia contributo al nostro rimanere corazza, perché “dopo lo squarcio iniziale” è giunta al suo limite: “l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno”. Una “apologia della difesa” che esalta il controllo e il distacco alle spese della capacità estetica di sentire quelle sensazioni ed emozioni che, volente o nolente, ci possiedono. Senza questa fondamentale finestra sulla vita, senza questo tunnel che ci attraversa, è impossibile accorgersi dell’atmosfera emotiva in cui si è immersi. “Sentire” è la via obbligata per un’emancipazione incisiva, diversa da quella ipotizzata dalla modernità. Quando la società si desensibilizza, quando per controllare l’incontrollabile perde la capacità di “sentire”, essa recide alla base le radici del cambiamento, della vitalità e di ogni comportamento che esula dall’automatismo. Abbiamo acquistato indipendenza, pagando in sensibilità.
“Si può essere liberi di non essere? Liberi dalla volontà di essere” si domanda Robert Wyatt sulle note di Free Will and Testament. L’essere, per Laurent de Sutter, non è altro che un nome metafisico del controllo e della polizia interiore: le flic dans la tête! L’essere, la sua forza, solidità ed estensione, è l’espressione di un dominio: una vera e propria dittatura dell’essere, che cristallizza e polarizza un’altrimenti fluida oscillazione dell’essere tra stati “in sé” e “fuori di sé”. Il desiderio ambivalente di “essere” e “non essere” produce la dinamica essenziale del processo di assoggettamento al potere che inaugura il soggetto. Lo rende chiaro Judith Butler in The psychic life of power:
Il soggetto persegue la propria dissoluzione, il proprio disfacimento. Questo obiettivo definisce una agency, ma non l’agency del soggetto, piuttosto l’agency di un desiderio che mira alla dissoluzione del soggetto, dove il soggetto si pone come ostacolo a questo desiderio […] Il desiderio ambirà al disfacimento del soggetto ma sarà ostacolato precisamente dal soggetto nel nome del quale opera. Una vessazione del desiderio, cruciale nell’assoggettamento, implica che affinché il soggetto continui a esistere, il soggetto debba ostacolare il proprio desiderio. Desiderare le condizioni della subordinazione è quindi essenziale per continuare ad esistere come sé stessi. Che senso ha accogliere la stessa forma di potere (regolazione, proibizione, repressione) che minaccia il soggetto di distruggerlo, col preciso intento di continuare ad esistere? Non è semplicemente che l’uno ha bisogno del riconoscimento dell’altro e che una forma di riconoscimento è conferito dalla subordinazione, ma piuttosto che l’uno dipende dal potere per la propria esistenza, e che la formazione del soggetto è impossibile senza dipendenza, e che la postura del soggetto adulto consiste precisamente nella negazione e nella rievocazione di questa dipendenza.
La razionalità borghese, nel suo senso più vicino all’etimologia, di “razionare e dividere”, non è in grado di tenere conto di una doppia ambivalenza. Da una parte nega l’ambiguo desiderio umano di mantenere e dissolvere la propria soggettività. Dall’altra vieta la possibilità di un soggetto che è insieme effetto di un potere che lo precede (una relazione che precede i relati) e condizione di un’agentività radicalmente condizionata da quello stesso potere: “il potere agisce sul soggetto, un’azione che è un’attuazione [del potere da parte del soggetto]”. Quando l’essere non cede il passo ci si sente obbligati ad essere (anche virtualmente) più di quello che in realtà si è, a ricordarsi costantemente che si è, chi si è, a monitorare sé e i propri privilegi, e a mantenere un “locus of control” interno, cancretizzandosi attorno – ancora una volta – ad una supposta identità.
È da questa intima obbligazione borghese che fuggiva il Moscarda di Uno, Nessuno e Centomila, che conclude la sua vicenda con le parole: “vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori”. È la rizomatica rivelazione conclusiva della voce fuoricampo di Synecdoche New York, il film del 2008 di Charlie Kaufman, in cui un’ontologia relazionale fa implodere i confini che delimitano ogni sé: “Ti rendi conto che non sei speciale. […] Le specificità quasi non contano. Ognuno è tutti. Così tu sei Adele. Hazel. Claire. Olive. Sei Ellen. Tutte le sue misere tristezze sono le tue. Tutta la sua solitudine. Le sue mani rosse e gonfie. I suoi capelli grigi e stoppacciosi sono i tuoi. È ora che tu lo capisca.”
Come una mascherina non è uno scudo sufficiente per ogni battaglia, ecco che l’alieno ritorna: come in ogni dittatura che reprime ma non elimina, in una società che esalta il pieno possesso delle proprie facoltà razionali, c’è un grande rigurgito di pulsioni irrazionali, demoni che ci possiedono, fantasmi, quasi-cose con uno status ontologico improprio (qualcosa che non esiste più o non ancora, ma ciò nonostante resta presente e mette in crisi le nostre capacità di controllo). Lo aveva intuito Antonio Gramsci: “il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. È la “rivolta delle emozioni” descritta da Colin Crouch nella sua Postdemocrazia.
Le atmosfere che popolano lo spazio tra noi influenzano l’affettività di intere comunità, fino a spingere, forse, il 48% degli italiani censiti nel rapporto del CENSIS a desiderare l’uomo forte al potere. Il suo compito è quello di non deludere le aspettative e assumere le veci del paladino della razionalità o del buon senso, come ama definirlo, tenendo lontano, come un cane a guardia del suo giardino, tutto ciò che gli è estraneo. Così, affermare: “c’è quest’anno un’esplosione di aggressioni per colpa di malati psichiatrici”, come ha fatto l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, non è altro che terrorismo istituzionale dal retrogusto hobbesiano, un esempio di narrativa repressiva volta al contenimento dell’eccitazione, prontamente dipinta come follia pericolosa.
In una società che esalta il pieno possesso delle proprie facoltà razionali, c’è un grande rigurgito di pulsioni irrazionali.
In effetti la politica mediatica di oggi, come quella di ieri descritta da Spinoza, è soprattutto una gestione e amministrazione delle passioni che percorrono la società. Del resto, il rapporto del potere con l’affettività delle comunità è sempre stato nel segno della repressione mortifera del furore e dell’eccitazione. Secondo Laurent de Sutter la psichiatria è funzionale in questa opera di contenimento esistenziale da quando Kraepelin, fondatore della psichiatria moderna, coniando la categoria di “psicosi maniaco-depressiva” invitava a contenere l’essere entro i confini chiusi e sicuri del sé, per alleviare i momenti maniacali di irresein – l’errare dell’essere, il suo smarrimento – e riportare il soggetto a una condizione di (depressa) normalità, e cioè al distacco sensoriale ed emotivo. All’umano/automa così ridotto alla sola dimensione depressiva della necessarietà meccanica dell’essere, viene sottratto ogni energia alchemica in grado di trascendere il dominio del necessario e di trasformare l’impossibile in possibile.
Viene meno uno degli insegnamenti di Basaglia sulla rivoluzione: “l’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile”. Un altro esempio anti-furore è contenuto nell’italico Diario clinico di sintomatologia e terapia, un documento che tra le altre cose elenca i sintomi per cui le donne considerate devianti potevano essere rinchiuse in manicomio durante il ventennio fascista. Insieme a loquace, instabile, irosa, ecc. appare nell’elenco di “sintomi” l’aggettivo eccitata. Un altro recentissimo esempio è quello del Post-traumatic embitterment disorder, categoria nata per inquadrare la sofferenza dei lavoratori che lo hanno perso e sono stati abbandonati dalla società a seguito della crisi finanziaria, con i loro stati cronici di rabbia, senso di ingiustizia e ritiro sociale. In questi casi è previsto, prescritto, un trattamento di “wisdom psychology” per insegnare al paziente a: “distanziarsi da sé stesso, ad accettare emozioni indesiderate, ad empatizzare con l’aggressore, a comprendere il contesto”. In pratica, la (supposta) avanguardia di una certa psichiatria manipolatoria ancora suggerisce di calmarsi, razionalizzare e distanziarsi dalle emozioni.
Ma oltre e prima delle pillole e della meditazione, quali dispositivi mette in campo la società automatica del controllo (un orrore nato dalla fusione tra Deleuze e Stiegler)? Come viene contenuta e dirottata l’eccitazione? E come possiamo invece farci trasportare dal furore? Le operazioni di potere di oggi sono quelle che determinano la necessità di una certa percezione sociale, relegandone altre nella sfera dell’impossibile. La psicopolitica argina il furor di popolo in quelle “passioni tristi” di spinoziana memoria che tinteggiano di grigio il realismo capitalista descritto da Mark Fisher: “un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione”. Il realismo capitalista è la condanna ad una esistenza priva di interessi che la trascendano, priva di desiderio, di legami e solidarietà, dove vince (si fa per dire) chi prende la vita come un videogioco e affronta gli altri come oggetti più o meno utili. Per gli sconfitti, invece, non resta che l’emarginazione.
La sussunzione mentale controlla la percezione sociale e incanala il furore di vivere lungo le prescrizioni del potere, in modo che non sia neppure immaginabile e desiderabile una azione priva di un ritorno personale economico o di status. Semplicemente non è previsto dal programma. L’eccitazione, che altrimenti condurrebbe a sperimentare verso direzioni (e perfino verso gli altri!) e risultati inaspettati, non viene ascoltata ma è ricondotta “in sé”. L’umano, scrive Miguel Benasayag in Funzionare o esistere?, viene appiattito ad un’immagine di sé sul suo profilo virtuale, ridotto ad un “bilancio di Competenze”.
Come possiamo invece farci trasportare dal furore?
Non c’è spazio per altro, come testimonia la folle e disperata corsa verso il lavoro del protagonista di Sorry we missed you. La trama è più che mai realistica: le condizioni di lavoro logoranti e platealmente ingiuste del padre e della madre di famiglia di una cittadina inglese divorano lentamente i rapporti tra i due e coi figli. A conclusione del film madre e ragazzi non riescono a trattenere il padre, malato e stanco, che fugge verso il polo logistico dove lavora come corriere self-employed pur di non perdere punti sulla app che lo governa e per guadagnare la giornata; in ogni caso non basterà a ripagare i debiti che li sommergono. La stessa disperazione impotente imprigiona anche i protagonisti di Joker e di Parasite. Questi anti-eroi proletari, infine, vengono rapiti da una violenza cieca verso i loro padroni. La folle rabbia dissociata, impressa nelle risate isteriche di Joaquin Phoenix e del giovane protagonista di Parasite, si impadronisce di loro e come ogni eccitazione è tremendamente contagiosa.
Il successo di questi film potrebbe essere dovuto al tipo di narrazione “strutturale” o sociologica su cui si basano, come è già stato detto, anche di un altro grande successo planetario recente: Game of Thrones. Il genio di G.R.R. Martin sta appunto nell’aver evitato una narrazione psicologica, di cui invece abbondano i prodotti hollywoodiani. Siamo assuefatti da questo genere di narrazione, dall’indubbio potere catartico, utilizzato come espediente per farci immedesimare nei personaggi e tenerci incollati allo schermo. Il gioco dei troni, invece, non è motivato dalla psiche dei personaggi, ma da qualcosa che li trascende, una struttura, un gioco del potere. I protagonisti continuamente muoiono, e chi arriva al loro posto riprende a giocare secondo le stesse regole.
E se provassimo a cavalcare le risate isteriche degli ultimi working class hero? Se iniziassimo ad aprirci ad una passionale esplorazione atmosferica del presente? Se respirando a pieni polmoni ascoltassimo ciò che l’alieno ha da dirci? Non riusciremmo forse a fare di questa follia qualcosa di più entusiasmante, non reprimendola per deprimerci? Se effettivamente emozionarsi fosse un processo di trasformazione del mondo, come pensava Sartre, qualcosa che ci smuove da noi stessi (come ci ricorda l’etimologia della parola emozione)? Che senso avrebbe quest’apatia, questo edonismo depresso e addomesticato, se non mantenere lo status quo, con la melanconica come immensa monotonia del mondo e del sé? Forse allora, tagliando la testa alla dittatura dell’essere, abbracciando le forze che ci eccitano, potremmo giungere ad una conoscenza “desoggettivizzata” dei processi in base ai quali ci succedono le cose come auspica Miguel Benasayag.
In altre parole, capiremmo che la nostra vita si gioca in un campo sociale ben più ampio dei nostri io, un campo dove aleggia spettrale e inascoltata un’immensa richiesta di amore, cura, socialità, gioco, contatto, aiuto reciproco. Avremmo allora capito che l’affannosa e deprimente condizione di minaccia in cui viviamo non è il nostro destino ineluttabile, come non è colpa di qualche wolf of wall street che dirige il mondo dal suo ufficio. Non dobbiamo difenderci dalle emozioni che circolano nel mondo e ci plasmano, dalle quali non possiamo sottrarci. Al contrario, grazie ad una maggiore apertura estetica potremmo evitare di rimettere in circolo le atmosfere emotive che connotano il realismo capitalista e perfino cavalcare la spinta al cambiamento custodita nella nostra sofferenza. L’impotenza è la paura dell’impotenza, come ha intuito Franco Berardi, che consiglia di “guardare la bestia negli occhi” per “trasformare l’impotenza in una linea di fuga dall’universo della competizione”.
Fomentare un’eccitazione più grande di noi, intercettare un ritmo comune per sottrarre spazio mentale al realismo capitalista. Questo non può che essere un progetto estetico e (micro)politico.
Fomentare un’eccitazione più grande di noi, intercettare un ritmo comune per sottrarre spazio mentale al realismo capitalista. Questo non può che essere un progetto estetico e (micro)politico: una politica del furore, poiché è solo in uno spazio relazionale trans-individuale di incontro e solidarietà che esso può attuarsi. Come già aveva indicato Spinoza: “è solo stando all’interno della relazione con gli altri che è possibile comprendere e relativizzare le nostre tristezze e le nostre paure”. Una politica del furore abbraccia la (s)ragione dell’estasi, descritta da Fachinelli come “coscienza esplosa, saltata” (alle spese dell’io) che si apre e accoglie quanto si trova oltre al di là della frontiera del sé e del simbolico. Queste esperienze mettono in scena il fallimento della razionalità utilitaristica, come invece non hanno fatto tutti quei progetti politico escatologici nei quali l’anarchico dispiegarsi delle passioni è stato diretto da fini programmatici. Una politica del furore è, invece, un’esperienza che si apre al possibile, sfuggendo al probabile, previsto e programmato. Un movimento che non si fa istituzione. È un’insorgenza terapeutica involontaria, un freno all’automatismo che ha permesso al giusto, al rispettabile e alla convenzione – tre delle molte facce della ragione – di trionfare su sensi ed emozioni, sul possibile della molteplicità.
Una politica del furore intesifica il contatto dei sensi con le atmosfere emotive sociali per – da un lato – collettivizzare i mezzi di produzione di eccitazione, solitamente addomesticati dalla politica mediatica, e – dall’altro – massificare i dispositivi contro-culturali di sovversione sensoriale, come il Cabaret Voltaire o il teatro della crudeltà di Artaud, ma anche le loro filiazioni più recenti come la rete di collettivi artistici Thee Temple ov Psychick Youth o il muro di casse dei raver. Una politica del furore, in cui il malessere non è né categorizzato, nel tentativo di applicare un’etichetta a qualcosa di esterno ed estraneo che non si comprende, né psicanalizzato nel tentativo di riportarlo ad uno stato dell’essere, ma diventa il presupposto comune ad un movimento di emancipazione, prima di tutto, da sé stessi. Solo questo passaggio dal logico al patico, dal mediato all’immediato, dall’ego all’eco, fornisce nuova linfa sensoriale e affettiva contro il dominio razionale delle decisioni politiche come dell’io. Lasciare che l’essere sia e non sia, oggi possiamo svelare che è possibile. A working class hero is something not to be.