P rovate a pensare ai luoghi in cui si svolge la vostra vita: parcheggi, grattacieli, rampe, garage, lampioni, viali, sale d’attesa di aeroporti, svincoli autostradali, outlet, fast food, hotel, bancomat, quartieri residenziali, terminal container, zone industriali, call center, campi da golf, periferie, uffici, villaggi turistici. Le immagini che svaniscono lentamente dalla nostra retina formano una matrice confusa di dettagli e formule ripetibili che danno vita a gran parte dello spazio che ci circonda, quello che potremmo chiamare spazio infrastrutturale”.
Keller Easterling è architetta e scrittrice, e insegna architettura a Yale. Ha scritto molti articoli e diversi libri, tra questi c’è Lo spazio in cui ci muoviamo (pubblicato da Treccani, l’editore di questa rivista). Il titolo originale è Extrastatecraft, una parola cyborg che riassume… lo spazio in cui muoviamo, una realtà che si stratifica in più dimensioni, dove non è più sufficiente l’analisi dei mezzi di produzione classici e dei rapporti di forza novecenteschi. La violenza che dà forma al mondo si è smaterializzata. Si è complicata. La complessità di quello che vediamo con gli occhi, tocchiamo con le mani e sentiamo con le orecchie era già ben sufficiente prima dell’arrivo di internet; all’inizio del nostro secolo internet sembrava una cosa altra rispetto alla vita, esterna, ma nel giro di dieci anni è diventata un attributo del mondo e della società, come l’acqua e la scuola, indossare un vestito e fare una telefonata.
Alla complessità panica del mondo di prima, se n’è aggiunta un’altra, più trasparente forse ma radicata ancora più in profondità, in mezzo a infrastrutture che già conoscevamo (il segnale corre su cavi) e nascosta nelle pieghe di infrastrutture ignote per definizione, come la coscienza, o difficilmente controllabili, come gli impulsi dopaminici, la vera dimensione della privacy, l’ecologia delle relazioni tra persone in un contesto che intreccia vita e lavoro, la casa e la piazza.
Keller Easterling si occupa da sempre di architettura e design, nel senso più lato, e non è interessata ad analizzare la psiche dell’essere umano nel primo secolo di internet. Lo spazio in cui muoviamo è una guida alla vita nello spazio infrastrutturale: ma non si chiede soltanto com’è fatto il mondo, ma perché. In quello che scrive Easterling prendono forma, a mio avviso, delle matrici indispensabili per ragionare intorno al chi siamo e da dove veniamo; ma anche dove andremo, senza la consapevolezza politica di come la finanza e le telecomunicazioni e l’intermedio della classe dirigente globale stiano trasfigurando/desertificando il mondo in cui pensavamo di vivere; il mondo di ieri.
“L’Extrastatecraft è il sistema operativo del mondo moderno”: essendo un sistema operativo, la sua esistenza è connessa alla nozione di upgrade. Il suo Extrastatecraft è uscito nel 2014. Quali sezioni del saggio sono invecchiate prima, se ce ne sono?
Il Kenya è diventata quella “Silicon Savannah” a cui aspirava? E se dovesse riscrivere oggi la seconda parte del libro, dedicata alla politica della banda larga, a quale paese la dedicherebbe? Secondo quale infrastruttura?
Al momento sto lavorando su un Paese travagliato che è la fonte di tanta violenza globale e domestica: gli Stati Uniti d’America. Le infrastrutture in esame hanno a che fare con i sussidi agricoli, la proprietà fondiaria e il commercio globale nelle Grandi Pianure e nel Midwest. Anche Medium Design guarda alle infrastrutture di mutualismo per quanto riguarda l’uso della terra, l’edilizia abitativa, le migrazioni e i risarcimenti, tra le altre cose.
Quale nucleo tematico del saggio (tra il concetto di Zona franca, la banda larga africana, il paradigma ISO della certificazione di Qualità) si è evoluto nel modo più sorprendente, in questi anni?
La qualità, il certificato come dispositivo, è un moltiplicatore: di impresa, di consumo, di interazione. Il concetto di moltiplicatore, mi sembra, è alla base del suo lavoro. Se “il cellulare è il nuovo ascensore”, la tecnologia che cambia il tempo e lo spazio, in tempi post covid sembra impossibile parlare di un moltiplicatore. Forse ormai tocca parlare di rete di moltiplicatori, che riguarda device e protocolli insieme.
Nella sezione che lei cita, stavo cercando di esporre un presupposto culturale. In un momento di ubiquità digitale, l’informazione è spesso trattata come qualcosa di lessicale o quantitativo. I dati sono trattati come l’unica cosa che viene registrata come informazione. Allo stesso modo, i media vengono associati alla tecnologia della comunicazione. Nel mio lavoro invece sto cercando di attirare l’attenzione sull’informazione pesante –l’informazione incorporata nelle relazioni tra le cose fisiche. I media in questo caso non si riferiscono alle tecnologie della comunicazione, ma piuttosto alla radice medius, che significa “mezzo”. Gli oggetti nello spazio non hanno bisogno di dispositivi e sensori digitali per danzare: generano già uno scambio di informazioni tra potenziali. Mi sembra importante poter vedere l’equivalente di un “software” che stabilisce regole e relazioni tra gli oggetti. Potrebbe essere semplice come il fatto che una sedia risponda all’altezza di un ginocchio e scivoli sotto un tavolo, o potrebbe essere elaborato come l’apparato logistico che organizza periferie, resort, zone franche, aeroporti e milioni di altri “prodotti spaziali” formulati e moltiplicati.“Potremmo non pensare allo spazio come a una tecnologia dell’informazione, a meno che non sia integrata con sensori e media digitali, e non ci sia un software digitale per generare e analizzare gli assetti urbani. Eppure lo spazio infrastrutturale, anche senza il potenziamento dei media, si comporta come un software spaziale. […] Ci sono forme di oggetti come edifici e forme attive come bit di codice nel software che organizza l’edificio. L’informazione risiede nelle attività, spesso non dichiarate, di questo software”. Se l’azione è la forma, qual è l’azione che si nasconde dietro la forma delle carte di credito? Intendo: cos’è in realtà uno standard?
I problemi non sono cose da eliminare, ma da combinare creativamente per lievitare e catalizzarsi a vicenda. Le cose andranno sempre male, quindi forse la progettazione è solo un modo più produttivo di riavvolgere i grovigli. Il Covid-19 fornisce un esempio esplicito di un protocollo in cui le prove spaziali, mediche e comportamentali si combinano in un protocollo estremamente semplice, pratico e affidabile che richiede il distanziamento, l’igiene delle mani e la copertura del viso. Un protocollo di interazione è diverso da una soluzione. È diverso dal progettare un singolo oggetto o edificio. Esso mescola diverse specie di informazioni, dalla scala dei micron alla scala dei territori. Mescola pesanti informazioni fisiche spaziali con espressioni digitali, quantitative, econometriche. Mescola prove epidemiologiche, etnografiche, demografiche, economiche, sociali e culturali. Ma da tempo stiamo progettando protocolli che si occupano, tra le altre cose, di automazione, migrazione, deforestazione della polizia, proprietà fondiaria cooperativa, ritirata costiera, rimboschimento e riparazione dei danni.Lo scorso dicembre, prima della diffusione globale del coronavirus, lei ha scritto che “i problemi sono ricchi di informazione”. E poi: “L’interazione [nell’originale: interplay], come ecologia più che come soluzione, offre alcuni vantaggi politici aggiuntivi all’attivista. Anche i cambiamenti spaziali che non sempre si dichiarano o appaiono nei registri lessicali o legali possono scivolare tra lotte ideologiche con un grado di copertura politica in più”. Ritiene che il 2020 sia un anno abbastanza ricco di informazione? E, più seriamente, come possiamo sviluppare questo tipo di interazione, ora che i cambiamenti spaziali si stanno replicando, sia in silenzio che pubblicamente?
“Nella ‘era dell’informazione’, la banda larga era più di una tecnologia di comunicazione: era diventata un ‘bene sociale’, come l’acqua, l’elettricità e le strade nell’era industriale”. Una situazione confermata ed esasperata dalla pandemia. Il 2020 potrebbe essere l’anno in cui il digital divide diventa un abisso, e due mondi che già parlano poco, non si parlino più.
Però sì, la pandemia rende ancora più chiari i modi in cui la banda larga è davvero simile all’acqua, come risorsa. È una responsabilità pubblica proteggere l’accesso da mercati che privilegiano solo pochi, ed estendere l’accesso attraverso il dividendo – anche per far sì che i mercati servano a questo scopo pubblico.
Le infrastrutture digitali sono anche forze fisiche e non umane, come l’acqua e il fuoco selvaggio del cataclisma climatico, ora accelerato dalla stupidità umana; una forza capace di interrompere anche le reti più robuste, e paralizzare ulteriormente quelle più deboli.