Q uando ho letto che era un romanzo a bivi non ero convinto. Il primo pensiero è stato che una forma ingombrante, condizionante come quella del libro-game (per i nerd: l’anticamera dei giochi di ruolo, per tutti gli altri: certi vecchi Topolino) avrebbe finito per soffocare il contenuto. Invece in questo libro non solo il contenuto regge e si ramifica liberamente in tutta la sua estensione e profondità ma, come in tutte le opere d’ingegno pienamente compiute, la forma scelta si rivela non solo la migliore, ma l’unica possibile per condurlo. A fine lettura (ammesso che si possa leggere completamente un libro-game) è fosforescente che nessuna forma come quella del labirinto di scelte poteva servire meglio l’argomento. Ossia il romanzo di formazione di un generico ragazzo italiano borghese con generiche velleità intellettuali, a partire dall’ultimo anno di liceo, attraverso i cunicoli della carriera universitaria, o della scuola pubblica, o del precariato culturale, o dell’export di vini o, di scelta in scelta, attraverso molti altri esiti più o meno avventurosi, più o meno fallimentari, fino alla possibilità di riprodursi, o di liquefare la propria identità in una specie di ultrafuturo psichedelico.
Anche se Mazza Galanti non mette mai delle date, anzi proprio perché non mette le date, è naturale far coincidere l’età anagrafica del Tu a cui il narratore si rivolge con quella dell’autore stesso.
La risacca trascina una schiuma densa e secca che trattiene pezzi di mare e rifiuti umani; piccoli globi di fibre vegetali compattate dall’azione rotatoria delle onde si accumulano sulla rena. Saggiandone la consistenza sotto i polpastrelli, prendi la tua decisione. Mollare tutto: università, lavoro alimentare, fidanzata. E al diavolo la tristezza.
Tira un dado: se esce un numero dispari -> vai al 13, se esce pari -> vai al 12.
Inoltre una serie di marcatori storici sparsi nel testo (le occupazioni, il G8 di Genova, i riferimenti al poliamore, ai rave…) fa pensare che Tu sia nato tra la fine dei Settanta e i primi anni Ottanta. Allora immaginate una storia a bivi come un prisma di cartone, poi schiacciatelo su una superficie piana: il risultato è una ragnatela di scelte in cui ogni stazione – medico internista o giornalista freelance, puttaniere in Thailandia o scannerizzatore di incunaboli medievali – tutto sommato si equivale all’altra. In questa sostanziale equivalenza o intercambiabilità dei futuri possibili riconosco un trompe-l’oeil fedelissimo della mia generazione, dei miei amici, di me stesso.
Si vive una volta sola e la felicità non è il prodotto di un calcolo contabile.
Leggo questo libro durante un sabato sul divano del BnB dove trascorrerò l’incombente lockdown che si preannuncia molto meno avventuroso del primo. Stavolta a Napoli, per stare vicino ai miei genitori, nell’autunno che mi ha trasformato nel personaggio di un libro di Sandro Veronesi (quelli su cui per esigenze di plot cascano addosso assieme in una sola stagione tutte le disgrazie umanamente concepibili nell’arco di una vita). La lettura di Cosa pensavi di fare? (il Saggiatore, 2020) è alternata alla serie HBO I know this much is true – altro formidabile catalogo di disgrazie, firmato da Derek Cianfrance – che, se non altro, ti dice che quando le cose vanno male bisogna ritenersi se non fortunati perlomeno in vigile attesa perché potrebbero precipitare ulteriormente, e in questo modo genera tensione drammaturgica e catarsi. Mark Ruffalo interpreta due gemelli, uno è un Giobbe che si schianta attraverso le stagioni della vita da lutto a lutto peggiore, l’altro è il fratello schizofrenico, emotivamente e logisticamente dipendente dal primo, che all’inizio della serie si taglia la mano con un machete in una biblioteca pubblica per desiderio di espiazione.
A pensarci, alternare questo libro a questa serie in questa fase della mia vita è una dieta Dukan con il dolore al posto delle proteine: in effetti nel prisma di esistenze possibili di Cosa credevi di fare? il dolore è un riverbero di fondo. Principalmente il dolore della sconfitta, quello cioè prodotto dalla consapevolezza che i risultati non sono stati all’altezza delle aspettative, cioè degli investimenti iniziali, sia in campo lavorativo, che in campo affettivo, che in campo di progetto esistenziale in senso lato – forse il più importante, quello che definisce che tipo di essere umano desideriamo diventare (le tre parti in cui è diviso il libro: lavoro, amore, vita).
Trasformi l’inettitudine in destino, in orgoglio minoritario, inizi a raccontarti la storia della tua differenza. Le pene interiori ti daranno il diritto di odiare il mondo, di disprezzare la mediocrità: non farai parte di nessuna tribù, preferisci vedere tutto da lontano, sospettare di ogni comportamento indotto, calcolare i vantaggi materiali per muovere nella direzione opposta.
Questo è il progetto puntualmente fallito in cui il lettore target di questo libro – quarantenne medio colto, lettore forte – probabilmente finirà per riconoscersi. Nessuno come i nati alla fine degli anni Settanta si è visto promettere dai genitori ottimisti e tutto sommato realizzati così vaste praterie di possibilità, mentre il mondo diventava più complesso e ostile all’uomo, in una misura esponenziale che quei genitori non potevano immaginare. Leggere questo libro perciò è anche un’occasione per interrogarsi sulla disponibilità di questa stessa generazione a autorappresentarsi. Non sarà un caso se, a pensarci, non mi vengono in mente molti romanzi italiani contemporanei di autori nati a fine anni Settanta con dentro reali ambizioni di racconto generazionale (Riccardo Donati menziona Flavio Santi, Andrea Inglese, Vanni Santoni).
Romanzi cioè che abbiano fatto frontalmente il conto per esempio con gli anni Novanta, con la berlusconizzazione dell’immaginario, con lo spappolamento dei movimenti, con la radicale rinegoziazione del lavoro nella sua funzione di aggregatore di identità e comunità, con la fine della politica dei partiti, con Saviano Sorrentino l’Amica Geniale, con l’offerta di massa di spiritualità più o meno a buon mercato per riempire il vuoto… farci i conti magari non ideologicamente ma, come si dice, post-ideologicamente, ossia da un punto di vista del vissuto intimo, romanzesco, delle persone inscritte in un destino collettivo. Sarà pigrizia degli scrittori, sarà o troppo complesso o troppo miserabile lo scenario di riferimento, sarà – quello che io credo – che il racconto generazionale presuppone innanzitutto un sentimento, appunto, di identità collettiva condivisa, che è proprio l’opposto di dove va l’Occidente e che è proprio il grande assente di questi anni.
Il capitalismo, la catallassi, lo scioglimento del permafrost, la Banca Mondiale, il World Wide Web, l’Isis, la distruzione creativa: tutte espressioni della stessa cieca e malevola necessità che ha portato una zanzara a depositare le larve in qualche anfratto di casa tua finché si aprissero in pieno inverno col favore del riscaldamento, svegliandoti nella notte da un incubo scomodo e imbarazzante che preferisci dimenticare. L’uomo è una malformazione del cosmo, un essere anfibio mezzo stupido e mezzo criminale, una bestia impenitente destinata a campare in uno stato di minorità perenne, ma sei propenso a perdonare tutti, sperando che il resto del mondo, quando sarà il momento, vorrà fare altrettanto con te.
Non so se Cosa pensavi di fare? possa essere considerato un romanzo generazionale in senso stretto. Di sicuro in ogni stazione, cioè in ogni scelta possibile che abbiamo fatto compiere a Tu, mette in campo delle forme di vita abbastanza generali in cui chiunque di noi quarantenni dovrebbe sentirsi legittimamente invitato a riconoscersi. Lo stesso dispositivo della seconda persona e lo sguardo a volo d’uccello dell’esposizione in effetti sembrano fatti apposta per offrire uno specchio al lettore sulla superficie riflettente della storia, una certa idea di universalità che tende a essere quasi sempre miserabile.
Ti costruisci una vita su misura tra frequentazioni serali di trenta-quarantenni refrattari al pieno impiego e al pieno impegno. Alterni momenti di grande vita sociale ad altri in cui preferisci sotterrarti per intere settimane nel tuo bilocale con una cassa di vino e l’hard disk straripante di film. Parti appena puoi: hai conoscenze, luoghi cari e locali di riferimento nei quartieri mondani di diverse capitali: Atene, Berlino, Bruxelles, Parigi. Focalizzi la ricerca della felicità sulle soddisfazioni professionali, con risultati che nei momenti migliori definisci “promettenti”.
Su un piano più generale c’è da dire che la forma stessa del romanzo a bivi contiene già di suo una precisa ideologia. Se poter liberamente scegliere qualsiasi cosa con l’energia dei propri talenti era la massima realizzazione dell’individuo liberale, allora è spietatamente logico che il protagonista dell’ordine neoliberista – globalizzato, iperconesso, fluido e dunque tendenzialmente nevrotizzato e poi medicalizzato – sia questo Tu molteplice che non riesce a essere qualcosa per più di una pagina e mezzo, prima di trasformarsi in qualcos’altro, che quasi sempre è un’altra forma di infelicità. La massima libertà finisce per coincidere con l’assenza di libertà, tutte le scelte finiscono fatalmente per equivalersi, nell’ordine della tecnica l’individuo è agito da forze che non hanno interesse reale a che Tu si realizzi stabilmente in una forma, gli basta che sia in movimento, che consumi, che posti foto, che produca dati, e in questo senso probabilmente più si muove e meglio è.
Avrà ragione Harari quando dice che il problema degli umani oggi non è più tanto quello dello sfruttamento, il vecchio controllo dei mezzi di produzione, ma quello dell’irrilevanza, il fatto cioè che la quasi totalità della popolazione mondiale, fondamentalmente, ai fini del progresso, non conta un cazzo: proprio perché il progresso è agito da vettori di forze per le quali l’umanità non è più un fine ma un mezzo. Ebbene se cercate una fotografia precisa dello stato dell’arte dell’irrilevanza la trovate in questo libro in cui i destini professionali di Tu finiscono per relegarlo quasi sempre nelle ultimissime file in fondo del capitalismo globale, con esiti di straziante comicità da Fantozzi del terziario avanzato (vedi le pagine bellissime su Orizzonte Scuola). È chiaro che il settore professionale d’elezione, quello del lavoro culturale, si presta particolarmente e il risultato qui finisce per essere più che Fantozzi una Vita Agra elevata a potenza, scritta in uno stile prensile e smagliante.
Invii mail articolando proposte ai capiservizio cultura di giornali nazionali che rispondono – quando rispondono – con messaggi enigmatici e assurdamente laconici. Dopo descrizione dettagliata di due pezzi alternativi conclusa dalla timida domanda: “Allora ce n’è uno dei due che ti può interessare?” ricevi un “Ok” che corrode dall’interno le tue risorse ermeneutiche.
A chi desidera campare di cultura, sembra suggerire l’autore, il meglio che si possa augurare è una carriera universitaria che sarà per forza di cose un continuo mordere il freno e tirare la cinghia, anche qui, dei sogni di gioventù, puntualizzando sessione dopo sessione i propri interessi su un oggetto di studio specifico al limite dell’esoterico, tumulando le vecchie aspirazioni umanistiche sotto la lapide di un rigore accademico spietato, asettico, e insomma disumanizzante. L’esito naturale, per chi non muore prima, è una cosa così:
Sei un cultore di piante grasse perché sono le uniche a sopravviverti; solo a qualche rara metafora botanica consenti di impreziosire la prosa cementizia delle tue austere monografie.
Flottano naturalmente nel grande oceano dell’irrilevanza anche piccole isole di felicità. Bisogna nuotare tanto, ma molto al largo qualcosina si trova. Nelle relazioni, per esempio. La seconda parte del libro, amore, si apre con un episodio struggente che tutti i maschi hanno vissuto o creduto di aver vissuto per averlo visto in qualche film. L’adolescenza che fiorisce tutta insieme nel primo bacio della ragazza più bella che si concede a te, inspiegabilmente proprio a te esserino umano terrestre, tra le dune della spiaggia, nell’incredulità ululante del branco di amici-gibboni. Lei dopo ore di baci chiede: “Ti va di farlo?”, Tu come accade di prammatica ad ogni primo coito si emoziona, il coito non si consuma, e lì si apre il bivio: continuare la storia con Julia Roberts (la più bella appunto), o voltare pagina? Da qui in poi si apre un ventaglio di traiettorie sentimentali che coprono in una quarantina di pagine più o meno tutto lo spettro conoscibile dell’amore liquido.
C’è il sesso virtuale, a pagamento e non, il sesso a pagamento tradizionale con deriva Houellebecquiane di viaggi in Thailandia con un tabaccaio di Milano Marittima conosciuto online, la grande truffa piramidale del poliamore, la malinconia dell’eterno scapolo (un cassetto dove conservi alla rinfusa un certo numero di questi reperti (biancheria, calze, elastici, una sveglia, un sex toy). C’è naturalmente, in posizione un po’ di retrovia, la vita di coppia. Fatta degli ingredienti soliti: l’abitudine, il tradimento, la rassicurazione dell’essere-nel-mondo, cioè nella società, come coppia tra le altre coppie. Anche qui naturalmente le cose possono andare male, come suggerisce uno gli incipit più iconici letti di recente e azzarderei mai scritti sull’infelicità a due…
Si narra che presso gli antichi etruschi fosse in uso una tremenda pena capitale consistente nel legare il condannato a un cadavere stecchito e lasciare che la decomposizione del morto infestasse lentamente il corpo del vivo. A volte hai l’impressione deprimente di trovarti in una simile condizione e poco importa, tutto sommato, chi dei due sia il defunto.
…ma anche però, abbastanza ben nascosto in fondo al labirinto, c’è l’esito felice della procreazione. Dopo aver schivato le pericolose correnti di finali da puttanieri, scambisti, single incalliti, omosessuali in rimozione per decenni, si può atterrare sull’isoletta lussureggiante della paternità.
Come cambia l’orizzonte mentale: un’apertura illimitata, quella delle speranze, dei sogni irrealizzati e da realizzare, converge a imbuto verso la percezione di un’entità estranea, di un essere nel mondo a cui tutto tende a riferirsi […] il sarcasmo che svanisce, le nubi che si diradano.
Se si ha fortuna. Se si fanno le scelte giuste. Altrimenti è una giungla arboricola di relazioni e rapporti che davvero a Houellebecq fanno pensare spesso, nella misura in cui l’altro finisce per essere specchio e moltiplicatore della solitudine del singolo. Sempre più frequentemente il contatto con i propri simili è mediato dallo schermo di uno smartphone, si risolve in uno swipe, e l’autenticità quando c’è, lampeggia dolorosamente giusto nel momento del congiungersi dei corpi. Ma se davvero come ha detto da qualche parte Walter Siti l’unico racconto possibile è il racconto dei sentimenti, allora – anche qui – probabilmente è giusto che il racconto di questi anni sia un caleidoscopio della solitudine attraverso cui si rifrangono sprazzi di minore infelicità possibile. Le strutture della psiche ripetono quelle dell’ordine sociale, non c’è bisogno di essere marxisti per vederlo, e l’autore lo ribadisce continuamente.
Sull’ultima parte – vita – che delle tre è quella che ha più di tutte i connotati propri del racconto generazionale per i riferimenti storici e per l’andamento da romanzo di formazione, diciamo solo che è anche la parte in cui l’autore si prende più rischi, per condurre Tu in luoghi remotissimi che confinano con la space opera. Alla fine per il lettore ne sarà valsa la pena: in Cosa credevi di fare? le sue scelte hanno fatto attraversare a Tu piccoli coni di luce e enormi altopiani di solitudine, sottoponendolo a una fitta spietata sassaiola di sconfitte, umiliazioni, bovarismi e ambizioni sbagliate, mille sfumature di displacement e qualche sporadica gioia. Fino all’esito possibile del rinunciare una buona volta alla zavorra dell’ego: che sia nella procreazione, o in un futuro estatico. C’è disincanto, ironia e c’è una profonda amarezza in questo libro, allo stesso tempo c’è della pietà e una profonda misericordia con le vicende del protagonista, questo povero diavolo italiano dal multiforme ingegno che ha cercato di sfangarla in tutti i modi dentro un mondo difficile, enormemente difficile, progettato sin dall’inizio per annientarlo, e in questo c’è forse anche qualcosa di eroico.
Non tutte le illusioni sono andate perdute invano.
Questa storia per te finisce qui.