A vvicinarsi e assimilare dalla giusta prospettiva il pensiero denso e stratificato di Donna Haraway, uno dei nomi più noti della riflessione ecologista e femminista, può sembrare impegnativo. Il mondo di significato harawayano è un sottobosco nuovo e misterioso, popolato di figure poco nitide a un primo sguardo: animali umani e non umani, specie compagne, forme ctonie, comunità del compost, giochi di filo, camille.
Non è immediato imparare a digerire il pensiero e il dizionario di Haraway: da Manifesto Cyborg del 1985 a Chthulucene del 2016, la sua esplorazione teorica si è mossa alla ricerca di una definizione di mondo al di fuori dei confini umani: attraverso la fine della supremazia antropocentrica, il superamento del corpo e delle possibilità di connessione con il mondo delle macchine e di tutto il mondo animale. Bestiario Haraway, scritto da Federica Timeto e pubblicato da Mimesis Edizioni, riempie le possibili lacune e prova a districare i nodi raccolti nell’evoluzione del pensiero della filosofa statunitense, raccontando gli animali che lo hanno alimentato.
“Le pagine dei bestiari funzionano come uno dei tanti spazi di addomesticamento”. Secondo Timeto, sociologa e studiosa di teorie femministe e antispecismo, questa è la funzione principale di ogni strumento di descrizione e catalogazione animale: l’osservazione unilaterale dell’uomo, la descrizione finalizzata al controllo. Questo bestiario anziché addomesticare cerca di aprire i confini di definizione dei personaggi: nei diversi capitoli dedicati ai personaggi del mondo harawayano, Timeto racconta la storia degli animali non umani e di come l’uomo da sempre abbia cercato punti comuni tra le specie per ribadire una propria superiorità, “come noi ma non come noi”.
Questo bestiario anziché addomesticare cerca di aprire i confini di definizione dei personaggi del mondo harawayano.
Che si parli di primati, di cani o oncotopi, l’uomo ha sempre osservato l’animale come se fosse trasparente, oggetto unicamente osservato e mai parte dello scambio. Si è dunque realizzata una visione della natura senza natura, dove “gli animali non umani sono stati usati come specchi per riflettere l’umanità dell’umano e sancirne il distacco dall’animalità”. L’oncotopo per esempio, nella revisione di Timeto, è l’unità di misura di questa visione trasparente: “animale che incarna una realtà (ma anche un’artificialità) quadruplice. Oltre a essere un roditore della famiglia dei Muridi, infatti, è contemporaneamente una cavia, un organismo transgenico e un prodotto brevettato” dove, delle quattro realtà del topo da laboratorio, tre sono immagine plasmata umana. Bestiario Haraway svela così la sua vera natura e si trasforma in un museo dello sguardo dell’uomo, dell’uomo per l’uomo: la trasparenza qui non sta più negli animali, che riprendono corpo e tornano a essere densi, quasi torbidi; diventa invece trasparente e cristallino il raccapricciante operato fatto di esperimenti, soprusi e sacrifici multispecie, a uso e consumo esclusivamente umano.
Non mancano i punti di contrasto tra le voci di Timeto e di Haraway. Nell’intervista che apre il libro, e soprattutto nei densi capitoli su cyborg, oncotopi e sperimentazione animale, Timeto e Haraway riflettono insieme sull’impossibilità di innocenza umana. Haraway sostiene che nonostante gli sforzi di creare parentele multispecie, “non esiste decisione che non implichi una qualche forma di violenza”, sia essa l’uccisione di un embrione umano o l’uccisione degli animali per motivazioni che nei suoi scritti definisce mundane reasons, di contingenza.
Il pensiero dietro alle parole della filosofa statunitense parte dalla convinzione che la vera parità e parentela tra animali umani e non umani stia anche in “queste maniere di vivere insieme, queste maniere di far vivere e far morire” che per lei sono, se non buone, inevitabili e parte del tutto. Riflessione alla quale Federica Timeto risponde con una posizione più radicale e antispecista, ribadendo come ogni relazione strumentale multispecie presenti sempre uno squilibrio tra le parti, dal momento che gli animali “non sono non liberi perché legati in relazioni d’uso con gli umani, ma perché la loro sofferenza non è responsabilmente considerata, ovvero simmetricamente condivisa”.
I diversi punti di vista, sfumature di una materia che è più facile mantenere radicale nella teoria che nella pratica quotidiana, offrono una costellazione di riflessioni utili non solo per conoscere meglio i punti fermi della filosofia harawayana, ma anche per conoscerne le zone d’ombra e le contraddizioni pratiche, insieme alle soluzioni offerte da Federica Timeto per affinare un femminismo multispecie; femminismo necessario e inevitabile:
Non basta riconoscere l’esistenza degli altri, e neppure pensare di preservare perché ciò accada: non esiste infatti un altro che non sia già con, in noi, né esiste un noi stabile che non sia da sempre, e continuamente, in divenire. Siamo compost, non siamo mai stati umani: nulla ci sottrae al vivere con, nel suo retrocedere e incedere senza sosta.