È il 1965 e in una libreria di un centro commerciale di Hamilton (Ontario, Canada) entra una ragazza quindicenne vestita da dandy. Spulcia i libri impilati sugli scaffali fino a trovare un’edizione dei poemi di Saffo con testo greco originale a fronte. Non conosce il greco quindi non può che leggerli nella loro approssimazione inglese, eppure qualcosa la colpisce profondamente: la bellezza estetica dei caratteri, l’inaccessibilità del mondo che si intravede oltre quei segni e la loro connessione intellettuale con l’eroe di cui si sente reincarnazione, Oscar Wilde. È quello il momento in cui, ritta in piedi al centro di uno shopping mall della periferia canadese, Anne Carson decide che avrebbe imparato il greco.
Un centro commerciale forse non è il luogo a cui normalmente si assocerebbe un colpo di fulmine letterario, eppure l’incontro tra alienazione e classicismo, tra ready-made seriale e raffinatezza estetica, tra slang e rigore metrico rappresentati dal ritrovamento dei poemi di Saffo in un luogo così inusuale raccoglie in un certo senso in sé quello che sarebbe diventato il mondo di Anne Carson, raffinatissima classicista ed enfant terrible della poesia contemporanea di lingua inglese; un mondo totalmente libero da restrizioni di genere e classificazioni, anarchico e visionario, basato allo stesso tempo sul più profondo rigore stilistico e intellettuale.
Che il profilo di Carson non aderisca allo stereotipo della classicista non si intuisce solo dalla sua produzione letteraria poetica inclassificabile. Lo si intuisce già dalla definizione che in un’intervista ha dato della poesia: “se la prosa è una casa, la poesia è un uomo in fiamme che la attraversa correndo”. Schiva e riservata, Carson nella sua opera parla di abuso, di sesso, di desiderio, di mostruosità, di queerness. Parla di matrimoni che naufragano e di vulcani, di cliniche psichiatriche e mitologia greca. Parla della neve delicata che silenzia la vita, di viaggi, di fotografia, di cosa significa scomparire, del brusio del mondo. La sua opera attraversa il mondo bruciando e dissolvendo ogni opposizione: tradizione e sperimentazione, classico e contemporaneo, eros e thanatos, rigore e caos, iper-realismo e visionarietà. L’insieme di scrittura, traduzione e vita fanno dell’universo di Carson un’opera totale e sinestetica. Non solo un’opera dove prevale la sinestesia come figura retorica, ma un’opera che è allo stesso tempo vivere la vita nell’arte, sinestesia. Si tratta di una relazione di fusione tra mondi di riferimento diversi, dove la passione per Le vite dei santi spinge a provare a mangiarne le pagine, dove la frustrazione per la passività e il silenzio di Albertine ne la Recherche viene espressa tramite un workout logico teso tra analisi statistica e uso politico dell’ironia, dove il dolore per la morte del fratello viene espressa in Nox attraverso un dialogo con Catullo, dove la fine di un matrimonio viene raccontata attraverso un “saggio finzionale in 29 tango” (The Beauty of the Husband: A Fictional Essay in 29 Tangos).
La libertà di Carson di muoversi tra i generi e le forme e la sua radicalità controllata si sono tradotti in una duplice risposta di fronte al suo lavoro: da un lato una stima e lode ai limiti del culto della personalità da parte delle fronde artistiche più creative e radicali, dall’altro una certa critica da parte dei milieu poetici più conservatori, poco disposti ad accettare versi in cui compaiano affiancati riferimenti a Valerie Solanas e Omero. Questa ambivalenza nei confronti del suo lavoro spesso si risolve dividendo i suoi testi “creativi” da quelli di traduzione: da un lato le opere più sperimentali e audaci, dall’altro le numerose traduzioni di tragedie e poemi greci. E si risolve, nella vita di Carson, con l’utilizzo di due scrivanie vere e proprie, una per quando indossa il cappello da classicista e una per quando indossa quello da poeta.
Che il profilo di Carson non aderisca allo stereotipo della classicista non si intuisce solo dalla sua produzione letteraria poetica inclassificabile.
C’è però un’opera in cui Carson, con la solita ironia che contraddistingue il suo lavoro, ha scelto di indossare entrambi i cappelli. Si tratta di Autobiography of Red (Autobiografia del Rosso, La Nave di Teseo, trad. Sergio Claudio Perroni), un libro ormai culto in cui Carson parte dalla traduzione di alcuni frammenti della Gerioneide di Stesicoro per arrivare a comporre un poema (o romanzo in versi) che è allo stesso tempo un Künstlerroman, un romanzo di formazione, un diario di viaggio, una riflessione su memoria e identità, una storia d’amore e di dolore. Autobiography of Red è iniziato come una traduzione dei frammenti di Stesicoro, poi ha sviluppato delle escrescenze: mi sono resa conto che finita la traduzione avevo ancora molti pensieri in testa quindi ho continuato a scrivere. Il rosso è sempre stato il mio colore preferito. Il libro è diviso in cinque parti: (1) un’introduzione che spiega l’apporto originale del poeta Stesicoro alla letteratura greca del suo tempo, (2) la traduzione dei frammenti rimasti della Gerioneide, (3) tre appendici in cui Carson si interroga con una certa ironia deadpan sulla questione e sulle conseguenze più o meno logiche della presunta cecità di Stesicoro, (4) le 47 stanze del poema Autobiografia del rosso, (5) un’intervista a Stesicoro.
Presentata così, l’opera forse potrà apparire un po’ impenetrabile, in realtà il lavoro di Carson è geniale perchè partendo dal recupero di un autore greco e dal suo uso rivoluzionario della lingua, mette in scena allo stesso tempo il lavoro del traduttore – inteso come colui che dà forma in una lingua “altra” a un testo nato ed esistente in una lingua specifica, situata nello spazio, nel tempo e in una vita –, quella del lettore che nel leggere un testo ne ricrea mentalmente una sua versione personale, quella del poeta che dà forma alle proprie emozioni, e quella del critico che decostruisce un testo e ne mette in luce i punti cardini. Ora, Carson tutto questo lo fa in unico testo e in parte bluffando, perché i frammenti di Stesicoro che ci presenta sono solo in parte fedeli all’originale, alcuni sono liberi adattamenti ed altri probabilmente totalmente inventati (ma in fondo questo poco importa).
In un certo senso, Autobiography è una uber meditazione sull’arte, sulla narrazione, su come le storie viaggiano, si trasformano e prendono vita, su come le registriamo e le raccontiamo, su come la forma che decidiamo di utilizzare per farlo sia essa stessa parte della storia, perché tra forma e contenuto non c’è alcuna distinzione. Ma è anche, per le vicende che racconta, una meditazione sull’amore, sulla diversità e la mostruosità come marche identitarie, segno d’elezione più che di condanna.
La Gerioneide di Stesicoro – o meglio, quel che ne rimane – è ambientata sull’isola rossa di Eritrea e racconta la storia dell’uccisione di Gerione, mostro alato e con tre teste, da parte di Eracle che voleva sottrargli la mandria di buoi rossi e magici che accudiva. La particolarità di questo poema non è solo che Stesicoro adotta il punto di vista di Gerione, del “mostro” piuttosto che dell’”eroe”, ma che lo fa utilizzando una scrittura che “libera l’essere”, una scrittura dove dominano gli aggettivi che, come spiega Carson stessa nell’introduzione, a differenza dei nomi che designano il mondo e dei verbi che li attivano, fissano gli elementi del mondo a una loro propria specificità.
Autobiography è anche una meditazione sull’amore, sulla diversità e la mostruosità come marche identitarie, segno d’elezione più che di condanna.
Il Gerione di Carson è invece un ragazzo con le ali rosse sulla schiena che viene da un paese di provincia dell’Ontario. La storia si apre con l’infanzia accanto a una madre negligente e un fratello che abusa di lui e poi prosegue raccontando il suo innamoramento per Eracle. L’amore è però contrastato: prima viene respinto, poi lo reincontra casualmente durante un viaggio in Argentina mentre Eracle sta viaggiando con Ancash registrando video e audio dei vulcani in attività. L’incontro tra i tre trasforma la storia in un road trip con triangolo amoroso reminiscente a tratti la follia dei Detectives Selvaggi di Bolaño che si conclude in un villaggio peruviano sulle sponde di un vulcano, con i tre ipnotizzati di fronte alle fiamme scoppiettanti del forno di un panettiere.
Noi siamo esseri stupefacenti,
sta pensando Gerione. Noi confiniamo col fuoco.
E adesso il tempo si precipita verso di loro
lì dove stanno ritti uno accanto all’altro con le braccia che si sfiorano, immortalità sul volto,
notte alle spalle.
L’Eracle di Carson non ruba un gregge, ma il cuore di una persona innamorata. Gerione è queer, ma non solo per il suo amore per Eracle, lo è in senso allargato, nella sua specificità e “mostruosità”, simboleggiata dalle ali che tiene nascoste sotto la maglia con imbarazzo, ma che si aprono alla fine sul dorso per permettergli di volare sopra il cratere di un vulcano, liberando il suo desiderio di vita e bellezza. Attraverso la storia di Gerione, che è un viaggio su più piani – di scoperta della propria identità, dell’amore, del modo di esprimere la propria interiorità, ma anche un viaggio geografico e un viaggio attraverso il tempo e la memoria –, Carson mette in scena il viaggio per eccellenza, che è quello delle storie, che si frammentano e si ricombinano, che attraversano il mare e i secoli. Storie che attraversano le lingue e le generazioni, che cambiano forma, si sparpagliano per poi venire ricomposte da qualcuno.
Leggendo i frammenti della
Geroneide sembra quasi che Stesicoro abbia realizzato un poema narrativo coerente per poi strapparlo in mille pezzi e interrarli in uno scrigno insieme ad alcune liriche, qualche appunto di studio e una manciata di avanzi di carne. Il numero dei frammenti dà un’idea approssi- mativa dell’ordine in cui sono venuti fuori una volta aperto lo scrigno. Ovviamente, si può sempre continuare a scuotere lo scrigno e mischiare i frammenti. “Credetemi per la carne e per me stessa,” come dice Gertrude Stein. Ecco. Scuotete pure.
Procedendo attraverso le pagine non si può che scuotere i frammenti di Stesicoro, le stanze composte da Carson e le foto impossibili scattate da Gerione durante il suo viaggio. Si potrebbero rimescolare e riordinare secondo un ordine che non sia cronologico, ma di desiderio, e in questo nuovo ordine riempire gli interstizi con la nostra immaginazione per ricominciare il ciclo da capo e reinventare il nostro Gerione.
Questa è forse la grande lezione del libro di Carson. Siamo quel che raccontiamo e come lo raccontiamo, ma soprattutto di fronte ad ogni testo siamo liberi; nel momento in cui ci arriva tra le mani diventa nostro. Possiamo scegliere di credere che i frammenti siano traduzioni fedeli o meno, che Gerione abbia davvero volato sopra un vulcano o che sia stato ucciso da Eracle, possiamo pensare che l’intervista a fine libro sia veramente con Stesicoro. Nessuno ce lo vieta, tradire un testo è anche rendergli omaggio.
Questa non è che una delle infinite letture che si possono fare di Autobiography of Red. Avrei potuto parlare dell’Uomo Lava e dei miti quechua, del rapporto tra le foto di Gerione e quella del Giardino d’Inverno di Barthes, di desiderio omosessuale e di corpi. Avrei potuto parlare della lotta che ognuno di noi fa con la propria vita per ricordare, per salvare ogni istante, dell’odore dei colori o della seduzione dei vulcani. O di come Gerione ricompaia dieci anni dopo in un nuovo libro, Red Doc>. Ma se ho veramente compreso la lezione di Carson, allora la libertà sta nello scegliere di raccontare la propria versione. Alcuni obietteranno che si tratta semplicemente di lettura critica soggettiva (reader-response criticism), io voglio pensare di aver mangiato le pagine del libro e averle fatte mie.