T amarisk Row, il mio primo romanzo, fu pubblicato nel 1974. All’epoca avevo già trentacinque anni, ed era dai primi mesi del 1964, ovvero da dieci anni, che cercavo di scrivere un libro di questo tipo.
I primi frammenti, poi abbandonati, non assomigliano quasi per nulla al testo pubblicato. Il libro è passato per vari titoli provvisori, tutti abbastanza diversi da Tamarisk Row. Quel titolo mi era venuto in mente nel 1968, e quasi subito mi aveva permesso di immaginare con chiarezza i contenuti del libro e la sua forma. Per la prima volta in cinque anni, ero sicuro che avrei finito di scriverlo.
Nei cinque anni in cui non ero stato capace di scrivere più di qualche migliaio di parole prima di arrendermi, a volte avevo creduto di non essere in grado di scrivere qualcosa di più lungo di un racconto. Oggi penso che non fossi capace di scrivere quello che secondo me era un romanzo convenzionale: un libro con una trama, con personaggi che meritavano di essere definiti credibili, e con numerosi brani in discorso diretto.
Da ragazzo, alle superiori, avevo avuto molta difficoltà a scrivere saggi critici sui romanzi. Dieci anni dopo, all’università, come studente adulto di Letteratura Inglese, ne avevo se possibile ancora di più. Anche quando mi era sembrato di avere capito qualcosa della teoria letteraria che allora andava di moda, quella teoria restava completamente slegata dalla mia esperienza di lettore di narrativa, figuriamoci da quella di aspirante romanziere.
Non ricordo di avere mai pensato, nemmeno da bambino, che leggere narrativa servisse a conoscere meglio quel posto che viene comunemente definito «mondo reale». Credo di aver sentito, fin da subito, che leggere narrativa significava rendere accessibile, per me, un nuovo tipo di spazio. In quello spazio, una versione di me stesso era libera di spostarsi tra luoghi e personaggi che si distinguevano per i sentimenti che suscitavano dentro di me piuttosto che per l’aspetto esteriore, e ancora di meno per le possibili somiglianze con luoghi o persone del mondo in cui mi trovavo a leggere. Mi sembra di aver sentito inoltre, e molto presto, che alcune mie esperienze di lettore mi avrebbero cambiato, come persona, più di molti eventi di quel mondo.
I personaggi tra i quali mi sembrava di muovermi mentre leggevo non erano semplicemente i protagonisti della storia. Spesso mi sembrava che il personaggio che più mi incuteva soggezione si trovasse sull’orizzonte più lontano del luogo in cui si verificavano gli eventi della sua storia. (Questo magnifico personaggio, tuttavia, a volte sembrava trovarsi proprio accanto a me – come se guardassimo ogni cosa dallo stesso punto di vista, o quasi). Il magnifico personaggio, come avrei potuto chiamarlo, o chiamarla, tanto tempo fa, oggi lo chiamo Narratore o Autore Implicito, e spesso mi capita di restare, ancora oggi, tanto colpito da lui o da lei quanto da qualunque altro personaggio immaginario di cui lui, o lei, presuma l’esistenza.
I taccuini o i diari che tenevo nei primi anni Sessanta contengono pagine e pagine di ipotesi sul modo in cui avrei dovuto scrivere la bozza definitiva del mio primo romanzo. Una domanda ricorrente era: «Quanto dovrei pretendere di sapere?». Un’altra questione che mi turbava era la distanza che avrei dovuto mettere tra il me stesso narratore e il personaggio che sentivo più vicino nella storia. Mentre scrivevo di queste cose, a volte mi sembrava di essere troppo indeciso, o di angosciarmi inutilmente per un problema che avrei dovuto aver risolto già parecchio tempo prima. Oggi, tuttavia, sono un po’ orgoglioso di quel me stesso più giovane, che avrebbe potuto prendere in prestito il suo modo di scrivere da uno qualunque degli autori che allora andavano di moda eppure non aveva voluto farlo – non avrebbe potuto farlo.
Ho pensato a un modo per definire il tipo di narrazione che ho utilizzato in Tamarisk Row. La chiamo «narrazione ponderata». Di certi romanzi si potrebbe dire che danno vita ad alcuni personaggi. Vorrei che di Tamarisk Row si potesse dire che abbia dato vita al personaggio che ne è responsabile: al narratore attraverso la cui mente il testo viene filtrato.
C’è chi ha pensato che l’immagine sulla copertina della prima edizione di Tamarisk Row rappresentasse una porzione del pianeta Terra. In realtà, l’immagine rappresenta una porzione della superficie di una biglia di vetro colorato. Non ho deciso io di avere sulla copertina del mio primo romanzo l’immagine di un oggetto di vetro le cui caratteristiche distintive si trovano all’interno dell’oggetto stesso. Non credo, tuttavia, che esista un’immagine più adatta. A un lettore frettoloso, il testo di Tamarisk Row può sembrare un resoconto di eventi cosiddetti reali sulla superficie di un ben noto pianeta, ma io ho sempre sperato, dal momento in cui quasi cinquant’anni fa iniziai a prendere i primi appunti, che a un lettore in grado di apprezzare il mio libro sarebbe sembrato di guardare scene e personaggi immaginari come attraverso un vetro colorato.
Il testo della prima edizione di Tamarisk Row conteneva diversi refusi, che sono stati corretti per questa nuova edizione. Egualmente, le ultime due sezioni del libro sono state riportate nella posizione originale. La Gold Cup si conclude si trova adesso proprio alla fine, dove avrei sempre voluto che fosse. L’editor della prima edizione aveva insistito che il libro non dovesse finire con l’arrivo della corsa. Io, che ancora non avevo pubblicato niente, avevo ceduto alla sua volontà.
Nel corso degli anni, diversi lettori mi hanno detto di considerare La Gold Cup si conclude un esempio del cosiddetto flusso di coscienza. Non è così. Quella che adesso è l’ultima sezione del libro consta di cinque lunghissime frasi composte, che comprendono ciascuna una frase principale e numerose frasi subordinate, insieme alla descrizione di parte di una corsa di cavalli. Questi sei elementi sono intrecciati, per così dire. Inizia la prima frase; poco dopo inizia la seconda; più tardi inizia la terza e dopo di essa la quarta seguita dalla quinta. Alla fine, inizia la cronaca della corsa. Poco dopo la prima frase continua, solo per essere interrotta dalla continuazione della seconda frase, seguita dalla continuazione della terza frase e così via. A tempo debito, le cinque frasi giungono al termine, una dopo l’altra. La cronaca della corsa, invece, non finisce veramente. Le ultime parole del libro sono le parole del cronista mentre il gruppo dei cavalli si avvicina al traguardo.
La prefazione di Tamarisk Row di Gerald Murnane (Safarà Editore, 2020).