I l primo libro illustrato con delle fotografie è stato pubblicato a fascicoli tra il 1844 e il 1846 da una casa editrice londinese. L’opera si intitola The Pencil of Nature e contiene testi e immagini realizzate da William Henry Fox Talbot, un matematico inglese che aveva sviluppato un procedimento fotografico chiamato calotipo, o anche disegno fotogenico, un antesignano del nostro procedimento negativo-positivo. The Pencil of Nature è costituito da una serie di 24 tavole fotografiche, ognuna accoppiata a un breve testo. Le immagini si presentano come un catalogo di possibilità fotografiche, una carrellata dei vari modi in cui la scrittura con la luce può rappresentare, copiare, catalogare il mondo reale: “Veduta dei boulevard di Parigi”, “Oggetti di vetro”, “Foglia di una pianta”, “La porta aperta”. I testi accanto alle fotografie celebrano le meraviglie della tecnica fotografica, ipotizzando gli usi più disparati, tra nuove frontiere artistiche e pratiche sociali. Fox Talbot scrive delle sue fotografie come se non gli appartenessero, come se si fosse umilmente limitato a fissare quelle immagini, così ricche di informazioni e verosimiglianza da vivere di vita propria.
Sulle fotografie, libro di David Campany da poco uscito per Thames & Hudson e in edizione italiana per Einaudi, utilizza lo stesso metodo che troviamo in The Pencil of Nature, presentando un’ampia selezione di singole fotografie di differenti autori e accompagnando ognuna con brevi testi che ruotano attorno alle immagini, ai fotografi che l’hanno realizzate o a eventi che risuonano nelle opere presentate. Se i testi di Fox Talbot erano pieni di stupore per l’iperrealtà dell’immagine fotografica e di promesse di nuove scoperte, in Sulle fotografie ci troviamo di fronte al deposito di quasi 200 anni di storia del mezzo, passato attraverso innumerevoli rivoluzioni culturali e artistiche.
Campany, curatore e critico fotografico, autore di saggi su Walker Evans, Jeff Wall e sul rapporto tra fotografia, arte e cinema, racconta come il titolo di questo volume nasca da un incontro con Susan Sontag negli anni ’80, quando l’autore lavorava in una libreria in cui Sontag era stata invitata a presentare un suo libro. Chiacchierando prima della presentazione, Sontag notò come Campany non avesse menzionato i suoi saggi Sulla fotografia, del 1977, uno dei libri più citati e riveriti sul tema. “Cos’è che ti turba dei miei scritti sulla fotografia?”, chiese al giovane Campany. “Non parli a sufficienza di nessuna immagine in particolare”, le aveva risposto lui. “Il mio libro riguarda più la fotografia come fenomeno, artistico e sociale”, continuò Sontag: “Forse sarai tu un giorno a scrivere un libro intitolato Sulle fotografie.”
Il libro di Sontag è anche noto per essere privo di illustrazioni, lasciando alle riflessioni delle scrittrice il compito di evocare le immagini che sottopone a inflessibile analisi. Non si può negare che, per quanto citi diversi fotografi e ne analizzi le tematiche, Sulla fotografia sia comunque un libro che vede il suo oggetto come un sistema di rappresentazione i cui vizi superano le virtù, in cui le distinzioni tra autore e amatore sono meno significative di ciò che accomuna tutte le fotografie in quanto registrazioni di frammenti di mondo. Ad esempio:
Per i difensori del reale, da Platone a Feuerbach, considerare l’immagine mera apparenza – presumere cioè che l’immagine sia assolutamente distinta dall’oggetto raffigurato – è parte integrante di quel processo di dissacrazione che ci distacca irrevocabilmente dal mondo dei tempi e dei luoghi sacri, quando si credeva che un’immagine partecipasse della realtà dell’oggetto raffigurato. L’originalità della fotografia è che, proprio in quel momento della lunga e sempre più laica storia della pittura, quando il laicismo aveva definitivamente trionfato, essa risuscitò – in termini del tutto laici – qualcosa che assomigliava alla condizione primitiva delle immagini. La nostra irreprimibile sensazione che nel processo fotografico ci sia qualcosa di magico ha un fondamento autentico.
Pur riconoscendo a diversi fotografi le loro ricerche e le loro poetiche, come sollevare una qualsiasi immagine fotografica da una tara così pesante? Se la fotografia ha riportato il mondo delle rappresentazioni a una sorta di animismo in cui il dato fotografato soffoca la libertà espressiva, cosa resta delle intenzioni di chi fotografa? Proprio da qui parte la raccolta di immagini curata da Campany, che presenta un catalogo di possibilità del mezzo fotografico, moltiplicandone le identità invece di lasciarlo implodere sotto un comune e opprimente significato.
La maggior parte delle fotografie scelte da Campany sono opere di invenzione, immagini in cui il gesto creativo è manifesto: finzioni dichiarate che usano il mezzo fotografico per arrivare a una rappresentazione. Accanto a queste troviamo alcune fotografie anonime, scelte per le storie che illustrano o per le loro involontarie qualità estetiche, mentre pochissime sono le icone e le pietre miliari. Non ci sono i soldati martiri di Robert Capa o Don McCullin, e non c’è neanche l’umanità metropolitana borderline di Diane Arbus; al loro posto troviamo la reggia di Versailles trasformata in un plastico lattiginoso da Luigi Ghirri, la pittura su fotografia di Helena Almeida, o i teatri gestuali di Jeff Wall. Che si tratti degli anni dieci di questo o del passato secolo, le scelte di Campany prediligono sempre fotografie in cui l’autore non si nasconde, anzi si palesa.
Così quel realismo che dovrebbe condannare la fotografia a essere traccia del mondo diventa un gioco in cui possiamo immaginare e mettere in discussione le nostre idee. Il realismo della percezione fotografica diventa la porta dietro cui troviamo altri mondi, che ci incantano proprio perché, anche se hanno le fattezze del nostro, sappiamo che in fondo sono qualcos’altro. Ma di nuovo, sfogliando Sulla fotografia di Sontag, veniamo richiamati all’ordine: “Un fotografo non è un pittore: il suo ruolo è recessivo in gran parte dell’attività fotografica più seria e praticamente irrilevante in tutti gli usi più frequenti. Nella misura in cui ci interessa il soggetto fotografato, noi chiediamo al fotografi di essere una presenza estremamente discreta.”
E se smettessimo di interessarci al soggetto fotografato? Se spostassimo l’attenzione verso il soggetto che fotografa? Se la posta in gioco diventasse come si fotografa, invece di cosa? Soprattutto oggi, che tutto quello che vogliamo lo abbiamo a disposizione già fotografato, non è ormai tempo di cercare il punto di vista che ci parla, non diventa necessario imparare a distinguere tra una visione e l’altra? Campany stesso nel corso del libro non rinuncia a descrivere cos’è la fotografia e cosa sono le fotografie, ma le sue massime si accumulano creando un’impressione di elusività: “La fotografia ha l’abitudine di coprire le sue tracce”; “Nel suo restare una domanda aperta, la fotografia continua a essere affascinante, frustrante e ricca di potenzialità scientifiche e artistiche”; “Una fotografia può essere un documento e un atto dell’immaginazione, una registrazione e una possibilità, tutto nello stesso tempo.”
Per quanto la sua scrittura sembri voler riportare il lettore a una riflessione generale, a un senso complessivo del linguaggio fotografico, Campany continua a moltiplicare le possibilità attraverso le fotografie che affianca alle sue riflessioni. Sontag illustrava esperienze artistiche in ambito fotografico per poi riportarle a una fotografia intesa come fenomeno collettivo; Campany, forse memore dello scambio avuto con lei decenni fa, imita a tratti la posizione di Sontag ma per sabotarla, proponendo immagini che sfuggono via via alle riduzioni sociologiche.
Tra le tante identità ibride della fotografia contemporanea presentate da Campany c’è anche Mishka Henner, un artista belga che si presta molto bene alla definizione di “post-fotografo”. Henner lavora sul fotografico inteso come deposito di sapere e di storia, rimaneggiandolo digitalmente. Prende immagini da Google Maps o Street View, oppure lavora su alterazioni di opere fotografiche celebri, per deriderne il loro status di monumento culturale. Uno dei suoi lavori si chiama “Photography Is”, un libro di 200 pagine in cui Henner ha riprodotto 3000 frasi che iniziano con le parole “La fotografia è…”, creando un archivio di pretenziosità concettuale monca. “Rispecchiando la natura ambigua e inaffidabile delle fotografie stesse, ogni frase in questo libro è stata estrapolata dal contesto in cui è apparsa originariamente”, spiega Henner. “Il risultato è contraddittorio e caotico, frustrante e illuminante. In breve è fotografia, senza le fotografie.” Nel suo nuovo libro Campany, in fondo, ci esorta a guardare le fotografie senza appesantirci con la fotografia.